La Corte di Cassazione, terza sezione penale, con sentenza n. 4377/12 del 20 gennaio 2012 ha stabilito che il carcere non è l’unica e obbligatoria misura per punire chi ha commesso uno stupro di gruppo.
La Suprema Corte, infatti, ha ripreso, in maniera estensiva, la sentenza della Corte Costituzionale del 2010 che aveva ampliato le maglie delle misure cautelari applicabili, cancellando l’obbligo del carcere nei confronti del singolo responsabile (“Sarebbe, in effetti, evidente la disparità di trattamento fra colui che si trova indagato per un reato a sfondo sessuale, il quale, in presenza di esigenze cautelari, viene obbligatoriamente sottoposto a custodia carceraria, senza possibilità di attenuazione della stessa, e chi, indagato per reati diversi – magari ben più gravi, non soltanto dal punto di vista della pena edittale, ma anche per la sicurezza collettiva (quale, ad esempio, la cessione di sostanze stupefacenti a minori) – può invece fruire di misure meno gravose”).
È stata, pertanto, annullata una ordinanza del Tribunale del riesame di Roma, che aveva confermato il carcere per due giovani accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza e rinviato il fascicolo allo stesso giudice perché faccia una nuova valutazione.
Nel dettaglio si evidenzia che la Corte Costituzionale era stata precedentemente investita della questione nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori) che non consentiva di applicare una misura diversa dalla custodia cautelare in carcere alla persona nei cui confronti fossero riconoscibili gravi indizi di colpevolezza per un’ampia serie di reati, tra cui quelli previsti dagli artt. 609-bis (“violenza sessuale”) e 609-quater (“atti sessuali con minorenni”) cod. pen., salvo che fossero acquisiti elementi dai quali risultassero che non sussistevano esigenze cautelari.
Anteriormente alla novella del 2009, invece, la norma sanciva la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere esclusivamente in rapporto al delitto di associazione di tipo mafioso e ai delitti posti in essere con metodi o per finalità mafiose.
La Corte Costituzionale con sentenza n. 265/2010 ha stabilito che l’applicazione delle misure cautelari non può essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, né corrispondere a finalità proprie della sanzione penale.
Il legislatore ordinario è infatti tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi di privazione della libertà, ad individuare esigenze diverse da quelle di anticipazione della pena e che debbano essere soddisfatte durante il corso del procedimento stesso, tali da giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva.
Tra i criteri di scelta delle misure nel novero di quelle tipizzate non può essere tralasciato il criterio di adeguatezza (art. 275, comma 1), secondo il quale, “nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da
soddisfare nel caso concreto”. A questo precetto fa riscontro uno specifico obbligo di motivazione sul punto, sancito a pena di nullità (art. 292, comma 2, lettera c, c.p.p.).
Secondo la Consulta, infatti, è proprio nel criterio di adeguatezza che trova espressione il principio del “minore sacrificio necessario” ed il giudice deve prescegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto, in modo da ridurre al minimo indispensabile la lesività determinata dalla coercizione endoprocedimentale.
Sulla abse di tali motivazioni la Corte Costituzionale ha ritenuto la norma impugnata in contrasto con gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione della pena) della Costituzione pronunciandosi positivamente alle misure alternative al carcere.
Successivamente la Corte di Cassazione, con la citata sentenza del 2012, conformemente a quanto ritenuto dal giudice a quo, ha ritenuto applicabili i principi interpretativi che la Corte Costituzionale ha fissato per i reati di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenni anche alle ipotesi di reato di violenza sessuale di gruppo.
Concludendo, il giudice, escluso l’automatismo applicativo della custodia in carcere, deve poter operare alla stessa stregua dei suddetti reati anche per il reato di violenza sessuale di gruppo, secondo i criteri di adeguatezza e proporzionalità individuando la misura più consona al caso concreto. (1)
Dott.ssa Rosanna RUSSONIELLO
Funzionario ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Cultore della materia Medicina del Lavoro presso l’Università di Teramo
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(1) Le considerazioni esposte sono frutto esclusivo del pensiero dell’ autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’amministrazione pubblica di appartenenza.
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