Misure cautelari e covid-19. Riflessioni su un’ordinanza del Tribunale di Messina

In un momento storico nel quale la crescente diffusione del virus COVID-19 catalizza a livello globale ed in qualunque ambito l’attenzione di ciascuno, si rivelano quantomai utili se non opportune talune riflessioni sull’argomento aventi natura e sapore precipuamente giuridici.

Lo spunto per affrontare una siffatta tematica è stata offerta allo scrivente dall’ordinanza, recentissima, resa dal Tribunale di Messina in data 23 marzo 2020; ordinanza attraverso la quale, nel disporre la revoca dell’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria gravante in capo all’imputata, il Tribunale ha avuto incidentalmente modo di soffermarsi nell’analizzare la problematica inerente il rapporto sussistente tra la misura cautelare e, richiamando testualmente il provvedimento di cui trattasi, l’”attuale periodo di emergenza sanitaria connessa alla diffusione del COVID-19“.

L’allontanamento pressoché giornaliero dal proprio domicilio, necessario al fine di ottemperare alla prescrizione cautelare e di non incorrere nell’eventuale aggravamento della stessa ai sensi dell’art. 276 c.p.p., determina infatti intuitivamente quale rischio collaterale quello di una sovraesposizione al contagio tanto da parte del soggetto prevenuto, quanto dei militari che con questo sono costretti a venire a contatto nell’assolvimento del loro compito, con conseguente aumento del pericolo per l’incolumità pubblica e privata.

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Garantire le esigenze cautelari

Evidente, dunque, l’antinomia venutasi a determinare tra due valori aventi entrambi copertura costituzionale, quale da una parte la necessità di garantire le esigenze cautelari sottese alla legittima emanazione di una misura quale quella in discorso, la quale trova il proprio ombrello costituzionale nell’art. 13, comma 2 Cost. per il quale “non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”, e, dall’altra, l’imprescindibile urgenza di tutela della salute della persona, riconosciuta come noto dall’art. 32 Cost., ai sensi del quale “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.

La chiave di volta necessaria al fine di risolvere questo (apparente) contrasto è stata dal Tribunale siciliano rinvenuta nei principi di proporzionalità e adeguatezza di cui all’art. 275 c.p.p.

Secondo quanto rilevato infatti nell’ordinanza in commento, “l’efficacia della misura cautelare impone, nel corso della sua applicazione, il concreto bilanciamento dei valori che vengono in rilievo, quali il sacrificio della libertà della persona con la tutela sociale del crimine, altresì imponendo nella scelta del tipo di misura da applicare e delle concrete sue modalità esecutive il minor sacrificio possibile degli spazi di libertà e dei diritti fondamentali della persona“.

Il Tribunale di Messina

Appare di tutta evidenza come il Tribunale di Messina, in maniera pienamente condivisibile, abbia declinato i principi suddetti secondo canoni non prettamente ed asetticamente letterali, bensì piuttosto facendoli oggetto di una rilettura costituzionalmente orientata.

Non sfuggirà infatti all’operatore del diritto che, ove interpretato in senso restrittivo e meramente letterale, il principio di adeguatezza vada letto “in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto“, mentre quello di proporzionalità sia da intendersi nel senso che “ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata“. Così, infatti, testualmente perimetra tali principi l’art. 275 c.p.p., norma per l’appunto deputata a sancire e dettare i criteri di scelta delle misure cautelari e non a caso in tal modo rubricata. Nessun espresso riferimento perviene dunque dal codice di rito circa la necessità che, in sede di applicazione della misura cautelare da adottare nel caso concreto, l’adeguatezza e la proporzionalità di quest’ultima debbano essere valutate anche nel senso di garantire, per quanto in questa sede interessa, la tutela della salute del prevenuto (o, più in generale, la salvaguardia di diritti e libertà in egual modo rilevanti). E tuttavia, pur se non espressamente palesata dal Legislatore, si tratta a ben vedere di una previsione in verità immanente nel nostro ordinamento. Inevitabile si abbatterebbe infatti la cesoia del Giudice delle Leggi sulla disposizione in discorso, attraverso una sicura declaratoria di incostituzionalità della stessa, nel caso in cui di essa venisse fatta un’applicazione indiscriminata ed insensibile ad ogni bilanciamento con gli ulteriori valori riconosciuti come fondamentali dalla Carta Costituzionale, tra i quali rilievo tutt’altro che marginale assume il valore della salute.

Spostando nuovamente l’attenzione sull’ordinanza citata nel principio della presente elaborazione, può invece rilevarsi come, quantomeno a parere dello scrivente, il Tribunale di Messina abbia fatto buon governo delle disposizioni suddette e dei principi che immancabilmente devono guidarne l’attuazione. Pur discorrendosi infatti intorno all’applicazione di una misura cautelare avente (tra le varie misure applicabili, il più) scarso impatto sulla libertà della persona e sulla sua salute, lo stesso ha opportunamente valorizzato, all’esito di un giudizio di bilanciamento ben formulato, la contingente emergenza derivante dalla diffusione del virus COVID-19  e dal serio e concreto pericolo di poterne venire contagiati; da ciò, sul presupposto del prevalente interesse riconosciuto alla salute della persona in vece di quello della difesa sociale contro il crimine sotteso alla tutela delle esigenze cautelari, il Tribunale è infine conseguentemente addivenuto ad un provvedimento di revoca della misura originariamente imposta nei riguardi dell’imputata.

L’attuale pandemia in atto comporta pertanto, tra le varie urgenze, finanche quella di effettuare un’attenta rivalutazione degli interessi che quotidianamente si contendono il campo nell’ambito di ogni vicenda processualpenalistica. Sarà dunque interessante osservare se, seguendo l’esempio appena citato, il bilanciamento operato dai vari Uffici Giudiziari del nostro Paese farà pendere in ogni caso la bilancia dalla parte del bene della salute, quali che siano le esigenze cautelari con le quali quest’ultimo si trovasse ad essere controbilanciato, ovvero se dette esigenze potranno, in determinati casi, rivestire una rilevanza tale da far ritenere accettabile (o anche solo gestibile) il rischio di contagio.

Quid iuris, per esempio, nel caso di misure custodiali in carcere le quali determinino assembramenti a cagione della condivisione di spazi angusti con una moltitudine di soggetti, ma che al contempo risultino essere l’unico adeguato strumento di garanzia delle esigenze cautelari del caso concreto?[1] E ancora, quale sorte per misure quali il divieto di dimora presso Comuni rientranti tra i c.d. focolai, dalle quali potrebbe determinarsi la fuoriuscita da detti territori di soggetti potenzialmente infetti aumentando in tal modo il pericolo di diffusione del virus? Le risposte che ci si appresta a fornire a tali quesiti potrebbero, nel caso in cui la Magistratura chiamata a rispondervi non operasse un bilanciamento dei valori in gioco prudente e ragionato quale quello fatto proprio dal Tribunale di Messina mediante l’ordinanza in commento, determinare quale conseguenza una potenziale compressione, o quantomeno conformazione, dell’interesse alla salute del prevenuto e, in maniera forse ancor più dirompente, di quella pubblica.

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[1] È noto infatti che la custodia cautelare in carcere, per espressa previsione dell’art. 275 c.p.p., possa essere disposta nel solo caso in cui venga rilevata e comprovata “l’inadeguatezza di ogni altra misura”.

Avv. Sodano Gioele

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