Misure di prevenzione: la Corte Costituzionale ne dichiara l’illegittimità parziale

Prendendo le mosse dalla oramai ben nota Sentenza De Tommaso della Corte EDU (23.02.2017 nel procedimento n. 43395/09) la quale condannava l’Italia per la violazione dell’art. 2 prot. 4 CEDU, per il ritenuto deficit di prevedibilità e tassatività della disciplina delle misure di prevenzione nella descrizione delle condotte idonee a essere prese in considerazione per la valutazione della pericolosità sociale del soggetto proposto alla misura, la Corte Costituzionale con ben due pronunce (nn. 24 e 25 del 27.02.2019) ha ridisegnato gli ambiti di operatività del sistema delle misure di prevenzione, oggi sostanzialmente contemplate dal Decreto Legislativo n. 159/2011 (c.d. Codice Antimafia).

L’istituto della confisca

Il presupposto giustificativo della confisca di prevenzione e, pertanto, dello stesso sequestro, che ne anticipa provvisoriamente gli effetti, è la <<ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita>> [Corte Cassazione Sezioni Unite 2.02.2015 n. 4880] basata sulla sproporzionalità tra reddito dichiarato e valore dell’acquisto, quando non si riesca a giustificarne la legittima provenienza.

Allo stesso modo, in ipotesi della c.d. <<confisca allargata>> [art. 12-sexies D.L. n. 306/1992; art. 240bis c.p.] si fa riferimento alla presunzione che le risorse economiche, sproporzionate e non giustificate, rinvenute in capo al condannato derivino dall’accumulazione di illecita ricchezza, di cui il soggetto non sia riuscito a giustificarne la provenienza lecita.

La Corte, nel procedere al vaglio delle questioni sollevate dai Giudice remittenti, non ha omesso di considerare come la giurisprudenza della Corte di Cassazione, successivamente alla Sentenza De Tommaso c/ Italia, si sia adoperata nel circoscrivere l’area dei beni confiscabili, limitandoli a quelli acquisiti durante il periodo in cui, sulla base di elementi di fatto, il soggetto interessato risulti effettivamente impegnato in attività delittuose [Cass. Sent. n. 33/2018].

Vero è che, pur non avendo natura sanzionatoria – ma meramente ripristinatorio – sta di fatto che la misura del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, finisce con l’incidere in maniera notevole sui diritti di proprietà e di iniziativa economica (artt. 41 e 42 della Costituzione e art. 1 Prot. Addiz. CEDU).

Muovendo da tali assunti, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 24 in commento ha quindi esaminato la questione di garanzia della previsione per legge, tanto della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, quanto del sequestro e della confisca di prevenzione e ciò in relazione a due delle fattispecie normative di cosiddetta “pericolosità generica” di cui all’art. 1, numeri 1) e 2) della Legge n. 1423 del 1956 poi confluite nell’art. 1, lettere a) e b) del Decreto Lgvo n. 159/2011.

L’attenzione è stata quindi rivolta verso quelle fattispecie relative a soggetti <<abitualmente dediti a traffici delittuosi>> e a <<coloro che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose>> [art. 1 Codice Antimafia].

Con la sentenza n. 25, la Corte Costituzionale si è invece soffermata sulla questione relativa alla vaghezza, indeterminatezza e non prevedibilità della prescrizione di <<vivere onestamente e rispettare le leggi>> imposta con la misura della sorveglianza speciale [art. 75, comma 2 del D. Lgvo n. 159/2011].

Tutte le questioni così poste si pongono nel punto di confluenza della giurisprudenza delle tre Corti e precisamente, della sentenza n. 282 del 2010 della Corte Costituzionale [che aveva ritenuto la conformità al principio di legalità della prescrizione del “vivere onestamente”]; della sentenza De Tommaso della Corte EDU [che ha condannato l’Italia per l’insufficiente delimitazione degli obblighi di “vivere onestamente” e rispettare le leggi”, così violando il principio di prevedibilità della condotta da cui consegue la limitazione della libertà personale] e della sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali n. 40076 del 2017 [secondo cui le “prescrizioni come il “vivere onestamente” e il “rispettare le leggi” non impongono comportamenti specifici ma contengono un mero ammonimento morale, la cui genericità e indeterminatezza dimostra l’assoluta inidoneità ad integrare il nucleo di una norma penale incriminatrice”].

D’altro canto, pur muovendo dal presupposto che il Giudice della prevenzione possa applicare le misure ivi previste anche in assenza di un procedimento penale (di merito) correlato, in virtù della ritenuta autonomia e assenza di pregiudizialità dell’azione di prevenzione, non c’è dubbio che già all’indomani della citata Sentenza EDU De Tommaso, per la qualificazione della pericolosità c.d. generica, la Giurisprudenza della Cassazione abbia affermato che, per l’applicazione delle Misure di prevenzione, non sono sufficienti “meri indizi” (locuzione invece utilizzata per la c.d. pericolosità qualificata che fa riferimento – art. 4 D. Lgvo n. 159/2011 – agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose); che l’esistenza di una sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto impedisce che lo stesso fatto possa essere assunto a fondamento della misura; che, infine, occorre un pregresso accertamento in sede penale della effettiva commissione di un fatto costituente reato.

Tuttavia, continua la Consulta, attesa l’assenza di un automatico adeguamento alla giurisprudenza della CEDU, si impone un bilanciamento di interessi sì da assicurare in via interpretativa, contorni sufficientemente precisi sia alla fattispecie prevista dall’art. 1, lettere a e b del D. Lgvo n. 159/2011, sia alla previsione contenuta nell’art. 75, comma 2 dello stesso Decreto legislativo.

Il principio stabilito dalla Corte Costituzionale

E così, precisa la Corte Costituzionale, la locuzione <<coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose>>, deve concretizzarsi in “categorie di reato” di cui il Tribunale, chiamato ad applicare la misura di prevenzione, deve dar conto in quanto si tratti di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto; b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui; c) i quali profitti, a loro volta, costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.

Ai fini invece dell’applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, dovrà valutarsi l’effettiva pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, restando anticostituzionale la disposizione che preveda come delitto (art. 75, comma 1 del Codice Antimafia) o come reato contravvenzionale (art. 75, co. 2 stesso Codice) l’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” da parte del soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno.

Analogamente sono da ritenere illegittime per violazione della Costituzione l’art. 4 comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a); nonché l’art. 16 del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a).

La Corte ha infine precisato che la sentenza non tocca le norme che consentono di applicare misure di prevenzione nei confronti degli indiziati di delitti di mafia, terrorismo, violazioni della disciplina sulle armi, violenza sportiva, corruzione, atti persecutori.

In definitiva e a commento delle pronunce testè riportate, ben possiamo ammettere che la valutazione giudiziale in tema di misure di prevenzione, se non può essere classificata come atteggiamento puramente soggettivo e incontrollabile, ispirato cioè dal mero “sospetto”; così come, d’altronde, non può sconfinare nel regno dell’accertamento pieno “oltre ogni ragionevole dubbio”, si tratta pur sempre di compendiare circostanze indizianti che sebbene non possano fondare una pronuncia di penale responsabilità di un soggetto, sono, tuttavia, circostanze di fatto, oggettive e controllabili, sufficienti a fondare ragionevolmente la situazione di abituale dedizione alla commissione di un delitto.

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