Mobbing, definizione e art. 2087 c.c. (Cass. n, 22393/2012)

Per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

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1. Mobbing e definizione

Il mobbing (come espressamente dedotto e prospettato dalla ricorrente) è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore.

Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi: Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. Sez. Un. 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29 settembre 2005 n. 19053; dalla protrazione, il suo carattere di illecito permanente: Cass. Sez. Un. 12 giugno 2006 n. 13537), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico.

Lo specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione art. 2103 c.c.).

Fondamento dell’illegittimità è (in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774) l’obbligo datorile, ex  art. 2087 c.c., di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore.

Da ciò, la responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d’un suo specifico intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente. Anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l’art. 2049 c.c., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia l’intrinseca illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento – Cass. 4 marzo 2005 n. 4742 – ed il rapporto di occasionalità necessaria fra attività lavorativa e danno subito: Cass. 6 marzo 2008 n. 6033).

Lo spazio del mobbing, presupponendo necessariamente (nella sua diretta od indiretta origine) la protrazione d’una volontà lesiva, è pertanto più ristretto di quello (nel quale tuttavia s’inquadra) delineato dall’art. 2087 c.c., comprensivo di ogni comportamento datorile, che può essere anche istantaneo, e fondato sulla colpa.

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2. Rassegna giurisprudenziale

La condotta di mobbing del datore di lavoro, ravvisabile in ipotesi di comportamenti materiali o provvedimentali contraddistinti da finalità di persecuzione e di discriminazione, indipendentemente dalla violazione di specifici obblighi contrattuali, va quanto meno esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo, anche con i suoi poteri ufficiosi, possa verificare se sussistesse nei suoi confronti un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione (Cons. Stato, Sez. VI, 12/03/2012, n. 1388).

Nel verificare l’integrazione del mobbing è necessario, anche in ragione della indeterminatezza normativa della figura, attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l’altro: – da un lato, l’idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione), – e, dall’altro, la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta (Cons. Stato, Sez. VI, 17/02/2012, n. 856).

La sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall’accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l’elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione, emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito imprescindibile ai fini dell’enucleazione del mobbing (Cons. Stato, Sez. IV, 16/02/2012, n. 815).

Si configura il “mobbing” quando il datore di lavoro pone in essere nei confronti del lavoratore una condotta sistematica e protratta nel tempo, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (Cass. civ., Sez. lavoro, 10/01/2012, n. 87).

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Staiano Rocchina

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