Massima:
In caso di mobbing, l’accertamento del danno alla professionalità non deriva automaticamente dal semplice demansionamento, al contrario incombendo al prestatore l’onere di provare che in conseguenza di detta violazione si sia verificato un evento dannoso, ovvero il danno da dequalificazione, che è cosa ben diversa dalla dequalificazione in sé.
1. Questione
La Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, ha condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno da mobbing in favore della lavoratrice nella misura di € 16.000,00 in luogo di quella di € 30.000,00 riconosciuta dal giudice di primo grado. La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia ritenendo provato il danno subito dalla lavoratrice a causa della condotta mobizzante posta in essere dal datore di lavoro concretizzatasi in provvedimenti disciplinari e trasferimenti dichiarati illegittimi; tale danno è stato quantificato sulla base della consulenza tecnica d’ufficio che ha riconosciuto il danno alla salute della dipendente. Tuttavia la Corte ha escluso il danno alla professionalità ritenendolo non provato nemmeno presuntivamente, avendo la T. comunque svolto mansioni di tipo amministrativo in relazione alle quali il periodo di forzata inattività dovuto al comportamento illegittimo del datore di lavoro, non ha prodotto conseguenze in termini di perdita di opportunità lavorative o obsolescenza, circostanze queste nemmeno dedotte dalla dipendente.
La dipendente propone ricorso per cassazione, che è stato rigettato.
2. Onere della prova
In applicazione dei principi enunciati da Cass. civ., sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572, il danno conseguente al demansionamento deve essere provato dal lavoratore e può essere risarcito solo in quanto conseguenza diretta ed immediata di quella forma di inadempimento derivante dalla dequalificazione, censura la sentenza impugnata sull’assunto che la stessa avrebbe disapplicato i suddetti principi avendo ritenuto sussistere un collegamento automatico fra demansionamento e diritto al risarcimento del danno.
Inoltre, la Cass. civ., 26 novembre 2008 n. 28274 ha stabilito che, ove sia stato accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, alla natura della professionalità coinvolta, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.
3. Orientamenti giurisprudenziali
In caso di demansionamento, il lavoratore non ha solo l’onere di allegare e provare i fatti costitutivi del lamentato demansionamento ma deve anche provare il danno subito in conseguenza e per effetto di tale demansionamento, non potendosi accogliere la teoria del danno in re ipsa. Infatti, è necessario distinguere la esistenza della lesione dalla esistenza del danno, con la conseguenza che la esistenza del danno non può essere fatta coincidere con la esistenza della lesione. La prova del danno subito può essere fornita con tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione, ivi compresa la prova per presunzioni sulla base di elementi di fatto relativi a qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa; tipo di professionalità colpita; durata del demansionamento; esito finale della dequalificazione; altre circostanze del caso concreto (App. Bologna, 22/02/2010).
In materia di prova del danno da demansionamento (inteso come pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di maggiore capacità) il lavoratore non ha solamente l’onere di allegare e provare i fatti costitutivi del lamentato demansionamento ma deve anche provare i danni subiti in conseguenza e per effetto di tale demansionamento, non potendosi accogliere la tesi di coloro i quali affermano la esistenza in re ipsa di tali danni, una volta accertata la esistenza del lamentato demansionamento dovendosi distinguere la esistenza della lesione dalla esistenza del danno con la conseguenza che la esistenza del danno non può essere fatta automaticamente coincidere con la esistenza della provata lesione. Tale prova peraltro può essere fornita con tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione, ivi compresa la prova per presunzioni sulla base di elementi di fatto relativi a qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa; tipo di professionalità colpita; durata del demansionamento; esito finale della dequalificazione; altre circostanze del caso concreto (App. Bologna, Sez. lavoro, 03/11/2009).
Il danno da violazione dell’art. 2103 c.c. consistente nella perdita o nel mancato incremento delle conoscenze e della consuetudine professionale è certamente ravvisabile secondo il principio dell’onere della prova sancito dall’art. 2697 c.c., non derivando necessariamente ed automaticamente dall’illecito atto di assegnazione a mansioni inferiori. Il giudice di merito può, però, ritenerlo sulla base di nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.) quando (come nella specie) constati che le nuove mansioni non richiedono alcuna conoscenza tecnica, indispensabile per contro in quelle precedenti. Nè il danno può essere escluso dal mantenimento della retribuzione o dei benefici di carriera, giacché la perdita di professionalità può pregiudicare il conseguimento di un nuovo posto di lavoro in caso di necessità, atteso che la più rapida mobilità del lavoro richiede che capacità e conoscenze professionali del lavoratore non vengano diminuite, anche in vista del reperimento di una nuova occupazione, nell’eventualità di un licenziamento o comunque della cessazione del rapporto attuale (Cass. civ., Sez. lavoro, 27/06/2005, n. 13719).
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