Con sentenza del 10 febbraio 2015 il Giudice del lavoro del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (dr.ssa Adriana Schiavone) ha, in una causa per mobbing, stigmatizzato in maniera esauriente ed esemplare le condotte lesive messe in pratica ai danni di un lavoratore.
Trascurando le intricate vicende del caso specifico, appare particolarmente interessante la dettagliata analisi degli eventi con particolare riferimento alle conseguenze mobbizzanti che vengono fatte emergere nella decisione, ove il giudicante mostra piena condivisione delle invocazioni avanzate dal ricorrente per cui “i comportamenti datoriali descritti sono stati, per sistematicità e vessatorietà, specificamente finalizzati al suo danneggiamento professionale, psicologico e sociale, ed, in ultimo, alla sua definitiva espulsione dall’ambiente lavorativo, in quanto espressione di un disegno datoriale, caratterizzato da intenti ritorsivi e intimidatori, tale da integrare gli estremi del “c.d. mobbing”, fonte di danni alla salute del lavoratore”.
Il Giudice del lavoro del Tribunale casertano, in questa sentenza, ha – tra l’altro – soprattutto nella prima parte della motivazione denominata “Il Mobbing e la dequalificazione professionale” – riepilogato minuziosamente tutti mutamenti giurisprudenziali che hanno tracciato la strada al riconoscimento del mobbing nell’ordinamento giuridico italiano. Questa sentenza, che si distingue per le conclusioni di ordine giuridico, si spinge anche ad un approfondimento sugli elementi psicologici e sociologici del fenomeno in esame attraverso l’inquadramento dei requisiti che devono presentarsi per potersi parlare di “mobbing lavorativo”. Ed è così che il Tribunale passa a rassegna l’intera vicenda al fine di ricostruirla al fine di accertare l’effettiva sussistenza del dedotto “mobbing”, con la precisazione che “il mobbing costituisce un fenomeno mutuato dalla psicologia e dalla sociologia ancora oggi senza una propria autonoma fisionomia giuridica in quanto di tale istituto non esiste una definizione normativa”.
Vengono, così, individuati gli elementi che qualificano il mobbing, in quanto tale, che sono costituiti dalla potenzialità lesiva delle condotte – per cui la fattispecie vietata non rimane integrata quando si tratti di una percezione soggettiva da parte del lavoratore, priva di elementi di oggettiva consistenza –, dalla loro frequenza – che serve a distinguere il singolo atto di ostilità dal conflitto sistematico e persecutorio che è il “mobbing” – e dalla ripetitività nel tempo delle aggressioni, secondo la nota teorizzazione del concetto di mobbing che si deve allo studioso H. Leymann, e la più recente articolata definizione elaborata dallo psicologo del lavoro H. Ege.
E, ancora, si aggiunge che secondo la psicologia del lavoro, in particolare, il mobbing presuppone che la vicenda lavorativa conflittuale non sia stabile, ma in evoluzione secondo una progressione di fasi causalmente legate l’una all’altra.
Il dato oggettivo della serialità ed aggressività delle azioni, si combina con quello soggettivo della finalità vessatoria e persecutoria dell’autore che, specie in presenza di atti in sé leciti, permette di giungere ad una valutazione finale e complessiva di disvalore, in virtù del quale il Giudice adito ha in primo luogo accertato la responsabilità dell’ente pubblico convenuto per “mobbing” subito dal ricorrente, e poi l’illegittimità del licenziamento, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro.
L’Azienda Sanitaria è stata anche condannata al risarcimento del danno non patrimoniale subito dal medico, del danno patrimoniale per lesione della professionalità per demansionamento. Inoltre, è stata anche condannata a corrispondere al lavoratore una indennità sostitutiva per le ferie non godute, il risarcimento del danno subito per l’illegittimità del licenziamento, le spese di lite, comprese quelle relative all’espletata consulenza tecnica medico legale, oltre interessi legali su tutte le somme liquidate.
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