Mobbing, quando è possibile denunciare il datore di lavoro?

In punto di diritto per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità

È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, con la sentenza del 3 luglio 2017, n. 16335, mediante la quale ha rigettato il ricorso e confermato quanto già deciso, nel caso de quo, dalla Corte d’appello di Firenze.

 

La vicenda

La pronuncia traeva origine dal fatto che la Corte d’appello di Firenze con sentenza del 2013 rigettava l’appello interposto da LIVIO avverso la pronuncia, con la quale il Giudice del lavoro di Lucca aveva respinto la domanda del medesimo LIVIO, volta ad ottenere la condanna della convenuta BANCA della Fantasia S.p.a. al risarcimento dei pretesi danni non patrimoniali (biologico e morale), subiti per effetto di mobbing attuato mediante la condotta posta in essere da parte datoriale in suo pregiudizio, dall’assunzione risalente all’anno 1999 fino al licenziamento disciplinare del 2003.

 

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I motivi di ricorso

Con il primo motivo, il ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., anche in relazione a quanto previsto dall’art. 41 della Costituzione, per erronea ricognizione della fattispecie astratta di mobbing, avvenuta sulla base della ritenuta necessità di individuazione in concreto di animus nocendi (ossia di intento persecutorio).

Con il secondo motivo, poi, il ricorrente ha dedotto l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio consistente nella sussistenza o meno dell’intento persecutorio, lamentando che i giudici di appello, pur avendo accertato in concreto l’esistenza nel caso di specie di condotte illegittime, avevano contraddittoriamente escluso tale concorrente e decisivo dato di fatto (l’elemento soggettivo dell’intento persecutorio unificante dalla valutazione di merito relativa all’esistenza o meno di una ipotesi di mobbing. In tal modo non era stata operata quella valutazione complessiva della fattispecie (quel “complessivo apprezzamento” dei fatti addotti e accertati), che avrebbe pur dovuto costituire il vero obiettivo della richiesta revisione.

La decisione

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi, mediante la citata sentenza n. 16335/2017 ha ritenuto i motivi non fondati ed ha rigettato il ricorso.

Precisa la Suprema Corte, quanto al primo motivo, che è da ritenersi del tutto corretto il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito, siccome aderente al prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, condiviso da questo collegio, secondo cui per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

  1. la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
  2. l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
  3. il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
  4. la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (Corte di Cassazione, Sezione lavoro, n. 3785 del 17/02/2009. Conforme Corte di Cassazione, Sezione lavoro, n. 898 del 17/01/2014)

In senso analogo, Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 17698 del 06/08/2014, secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing devono ricorrere:

  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;
  4. l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Più recentemente, nei sensi secondo i quali è elemento costitutivo del mobbing, unitamente agli altri occorrenti, anche quello soggettivo, connotato dall’intento persecutorio, cfr. ancora, nelle more della pubblicazione di questa pronuncia, Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 9380 del 02/11/2016 – 12/04/2017, nonché Corte di Cassazione, Sez. VI – L, ordinanza n. 14485 depositata il 9/6/2017).

Pertanto il ricorso viene rigettato.

Sentenza collegata

51375-1.pdf 608kB

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Avv. Mancusi Amilcare

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