La recente modifica della disciplina fallimentare ha riformulato anche l’art. 1 della L. 267/42, che determina i soggetti sottoposti alle procedure fallimentari; le modifiche apportate attengono all’ampliamento dei soggetti che non possono essere sottoposti alla procedura, ponendo come limite minimo per la dichiarazione di fallimento un capitale investito superiore ai trecentomila euro e ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila.
E’ evidente che, come nella precedente formulazione della norma, restano soggetti alle procedure fallimentari gli imprenditori commerciali non piccoli, secondo i limiti sopra riportati, la cui attività commerciale sia esercitata in forma individuale o collettiva.
Il legislatore ha proseguito nella sua determinazione di escludere dall’area di “fallibilità” gli imprenditori agricoli, gli enti pubblici e gli esercenti attività di tipo professionale
Resta invariata l’applicazione della normativa fallimentare agli imprenditori commerciali, a prescindere dal tipo di attività esercitata. Il legislatore ha, per scelta, ritenuto di continuare ad escludere dall’area di “fallibilità” gli imprenditori agricoli, gli enti pubblici e gli esercenti attività di tipo professionale.
Diventa fondamentale, ai fini della corretta applicazione, dell’art. 1 L.F. definire cosa sia un’impresa commerciale:
1. deve consistere in un’attività economica organizzata, esercitata professionalmente con fine la produzione e lo scambio di beni e servizi;
2. deve avere carattere commerciale e quindi non deve essere agricola;
3. deve essere giuridicamente riferibile al soggetto che la gestisce, che deve avere la capacità di agire e deve essere esercitata in nome proprio.
I caratteri dell’attività imprenditoriale si riassumono nello svolgimento di un’attività che si sostanzia in una serie di atti coordinati dal perseguimento di un fine economico atto alla creazione di nuova ricchezza.
La fondazione è un’ istituzione di carattere privato con scopi culturali, benefici o sociali a cui è riconosciuta personalità giuridica con decreto del presidente della Repubblica.
La fondazione è caratterizzata dall’esistenza di un fondo patrimoniale destinato dalla volontà del fondatore a raggiungere uno scopo determinato; il fondo è strumento essenziale che acquista indipendenza dal fondatore e la personalità giuridica è attribuita allo scopo cui la fondazione tende.
La Fondazione non può fallire mancando il presupposto soggettivo; non è, infatti, imprenditore commerciale.
Tuttavia, nulla vieta ad una Fondazione di esercitare attività di impresa, la quale può rivelarsi importante dal punto di vista economico ma anche fondamentale per il raggiungimento degli obbiettivi istituzionali della fondazione.
Tale attività potrà essere di natura commerciale, non piccola, ed essere organizzata ed esercitata professionalmente tanto da potersi definire quale attività di impresa.
L’area di incertezza permane nell’imputazione dei rapporti giuridici, ossia il 4) punto sopra esposto necessario per definire un’attività di impresa.
Potendo svolgere attività di impresa, la fondazione andrà incontro ai rischi ad essa connessi e, tra questi, l’insolvenza. Si pone allora la questione della possibilità o meno di dichiarare il fallimento di quello che sostanzialmente è un patrimonio, nel momento in cui questo non potesse più far fronte alle proprie obbligazioni.
La questione della fallibilità o meno dei patrimoni ha visto crescere la sua importanza a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento della disciplina dei patrimoni destinati ad uno specifico affare. Il legislatore ha, infatti, previsto che i creditori del patrimonio separato ne possano chiedere la liquidazione ai sensi dell’art. 2447 – bis ma non è stato previsto il caso in cui tale liquidazione risulti incapiente per il pagamento delle obbligazioni sorte e si manifesti lo stato di insolvenza.
La dottrina si è confrontata sul tema immediatamente dopo la riforma
[1], esprimendosi a favore della fallibilità del patrimonio destinato, nonostante la mancanza del soggetto a cui imputare il fallimento. Peraltro la dichiarazione di fallimento in mancanza di un fallito non è situazione nuova nella legge fallimentare, quale è il caso dell’imprenditore defunto. In questo caso si ha il fallimento di un patrimonio separato rispetto a quello degli eredi pur in mancanza del fallito.
Viene meno in questi casi, la stretta riferibilità ad un soggetto e si pone l’accento sull’attività di impresa e non sull’imprenditore. Vi è la preminenza dell’oggettività dell’attività di impresa rispetto alla soggettività dell’imprenditore ma, ed è fondamentale ricordarlo, non viene mai integralmente meno il centro di imputazione dei rapporti.
La giurisprudenza ha fatto emergere, nel caso delle fondazioni che in sé non possono fallire, l’attività di impresa che ha portato allo stato di insolvenza ed ha individuato l’imprenditore che, dietro al paravento di una fondazione, ha svolto attività di impresa per fini di lucro e per il proprio personale vantaggio.
[2]
Il Tribunale di Milano ha sottoposto a fallimento non una Fondazione, ma una terza forma di imprenditore collettivo, una associazione non riconosciuta da sottoporre, in quanto tale, alla disciplina dell’art. 38 c.c.
I Giudici di Milano non hanno preso in considerazione l’ipotesi del fallimento delle società di fatto e la conseguente applicazione dell’art. 147 L.f. in quanto vi sarebbe stata estensione immediata del fallimento a tutti i soci. Nel caso della fondazione dichiarata “fallita” si è riconosciuto un fondo ed una parallela associazione non riconosciuta che ha gestito un’attività di impresa.
L’applicazione dell’art. 38 c.c., in tema di responsabilità dei singoli, infatti, richiede la dimostrazione dell’effettiva gestione dei beni dell’impresa: “delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione”.
Questo ha permesso di coinvolgere nel fallimento chi effettivamente ha distorto la finalità propria delle Fondazioni, utilizzandole come imprese commerciali.
Dissente, fortemente, da tale impostazione autorevole dottrina
[3] sostenendo l’ingiusta applicazione dell’art. 38 c.c. che porterebbe al fallimento in proprio dei soli soci che hanno agito spendendo il nome dell’associazione. Tale impostazione permetterebbe facilmente di coprire il socio che, pur avvantaggiandosi dell’attività d’impresa della Fondazione, non ha mai speso il proprio nome. Sarebbe a questo punto più giusto e coerente applicare l’art. 147 l.f. che tramite semplice presunzione di legge conduce al fallimento in proprio di tutti i soci delle società di persone. L’autore ammette, tuttavia, che si andrebbe “di forzatura in forzatura” ricreando le fattispecie tanto discusse del socio occulto e venendo ad individuare un tipo di associato che pur non avendo speso il nome dell’associazione ne risulta essere responsabile.
Tutto viene, quindi ricondotto all’art. 38 c.c. ed alla responsabilità di chi ha agito nell’associazione.
Il discorso conduce sostanzialmente al fallimento delle associazioni non riconosciute, lasciando la fallibilità delle fondazione un argomento puramente teorico.
A chiusura del discorso rimane l’interrogativo sulla possibilità di sottoporre la “Fondazione insolvente” ad altra procedura concorsuale.
La procedura di liquidazione coatta amministrativa è applicabile solo ai soggetti espressamente previsti dalla legge Fallimentare o dalle Leggi speciali, non essendo possibile applicarla in estensione o per analogia.
Nel caso particolare delle fondazioni, l’unica legge speciale che prevede l’applicazione di questo Istituto è il D.lgs 367/96 art. 20 che in riferimento alle fondazioni liriche insolventi impone la sottoposizione di tali enti esclusivamente a Liquidazione Coatta amministrativa con esclusione della procedura di fallimento.
Gli interessi pubblici che devono essere tutelati nel caso di queste Fondazioni ha spinto il Legislatore a preferire l’applicazione di questa particolare procedura concorsuale rispetto alla procedura di fallimento.
E’ evidente che la realtà economica e legislativa italiana ha condotto molte Fondazioni a gestire una vera e propria attività di impresa a latere dell’attività istituzionale, spesso proprio per poter raggiungere gli obbiettivi istituzionali. Tale necessità ha sostanzialmente imposto al legislatore l’introduzione nel nostro ordinamento la possibilità di svolgere l’attività di imprese anche nel settore no- profit. Il D.lgs 24.03.2006 n. 155 ha previsto tale possibilità per tutte le organizzazioni private disciplinate dal Codice Civile e tra queste le fondazioni.
Dal punto di vista oggettivo l’ente che aspira a diventare impresa sociale deve:
· dotarsi di un atto costitutivo redatto in forma di atto pubblico che preveda l’assenza dello scopo di lucro ed inserire nella denominazione la locuzione “impresa sociale”
· esercitare attività di impresa in uno dei settori elencati dall’art. 2 co. 1 del dlgs 155/06, per lo più attività di utilità sociale
· esercitare attività di impresa allo scopo di inserire nel mondo del lavoro determinate categorie di lavoratori
· depositare in CCIAA il bilancio sociale.
L’ente che diventa impresa sociale gode di autonomia patrimoniale perfetta ed in caso di insolvenza viene espressamente previsto ai sensi dell’art. 15 del citato D.lgs. che vengano sottoposte alla procedura di liquidazione coatta amministrativa. Tuttavia il medesimo decreto, prevede la possibilità di dichiarare il fallimento dell’impresa sociale che svolge attività commerciale. In questo caso vi è alternatività tra le due procedure che viene regolata dal principio di prevenzione ai sensi dell’art. 196 L.F.
Una fondazione che non ha richiesto la “trasformazione” in tale particolare tipologia giuridica non è, pertanto, assoggettabile a Liquidazione Coatta Amministrativa.
Per completezza si deve citare, infine, l’art. 6 del D.P.R 361/2000, in cui si prevede lo scioglimento delle persone giuridiche riconosciute; lo scioglimento viene dichiarato dalla Prefettura su istanza di qualunque interessato a seguito dell’accertamento dell’esistenza di una delle cause di scioglimento previste dall’art. 27 c.c.
La prefettura comunica lo scioglimento al Presidente del Tribunale il quale, ai sensi dell’art. 11 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile, nomina uno o più commissari liquidatori.
L’art. 27 c.c. prevede lo scioglimento dell’associazione quando lo scopo è raggiunto o è divenuto impossibile; ritenere lo stato di insolvenza una causa di impossibilità a raggiungere gli scopi sociali è, quantomeno, una forzatura.
Naturalmente è sempre possibile richiedere lo scioglimento della società per i motivi sopraccitati quando lo stato di insolvenza non è ancora conclamato. Successivamente il commissario liquidatore procederà, sussistendone i presupposti, a richiedere il fallimento secondo quando discusso in precedenza.
dott. Luigi Tarricone
dott.sa Giulia Gallarati
[1] Lamandini I patrimoni destinati nell’esperienza societaria, Rivista delle società 2003, 502
[2] Trib. Milano, 17 giugno 1994, in giur.It. 1995 , I, 2, 283 e segg.
[3] Alberto Russo Libertino, in Il Fallimento, 4/1999, pag. 449
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