La dichiarazione resa dal cliente sul modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto, in ordine alla propria consapevolezza, conseguente alle informazioni ricevute, della rischiosità dell’investimento suggerito e sollecitato dalla banca e dell’inadeguatezza dello stesso rispetto al suo profilo di investitore, non costituisce dichiarazione confessoria in quanto è rivolta alla formulazione di un giudizio e non all’affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo.
La prova del danno e del nesso causale con l’inadempimento degli obblighi informativi grava sull’investitore ma può essere fornita anche sulla base di presunzioni.
Il caso
Una coppia di coniugi, a seguito della perdita dell’investimento in titoli azionari del valore di € 86.000,00, si rivolge al tribunale per ottenere la declaratoria di nullità o, in subordine, l’annullamento del relativo contratto stipulato con la banca; con richiesta di condanna dell’istituto convenuto alla restituzione del capitale investito o, in via gradata, al risarcimento dei danni.
A sostegno dell’impugnativa azionata, la loro condizione economica – essendo entrambi pensionati – e l’inesperienza in materia di investimenti mobiliari; tra i vari motivi di doglianza anche la consegna, da parte dell’istituto di credito, di una documentazione parziale e non rispondente alle prescrizioni normative e regolamentari vigenti in materia.
La domanda veniva respinta sia dal tribunale che dalla corte di appello; quest’ultima avendo ritenuto l’adeguatezza dell’operazione finanziaria atteso che gli investitori avevano dichiarato di essere consapevoli del rischio dei titoli acquistati e di averne ciononostante chiesto l’esecuzione con una dichiarazione mai revocata e avente efficacia confessoria quanto all’adempimento degli obblighi informativi da parte della banca intermediaria.
Ulteriore causale di rigetto la mancanza di prova in merito al nesso causale tra il presunto deficit informativo lamentato ed il danno subito. In particolare il giudice del gravame aveva ritenuto che gli appellanti non avevano dimostrato di aver conferito l’ordine in questione a causa della mancanza di informazione da parte della banca.
La decisione della Corte
L’incipit motivazionale prende le mosse dalla dichiarazione sottoscritta dai coniugi – così come rinvenibile nel modulo predisposto dalla banca – e dalla rilevata mancanza di qualsivoglia efficacia confessoria della stessa (cfr. Cass. n. 6142/12; Cass. n. 20178/14).
La Corte nel confermare il suddetto principio opera un richiamo testuale alla primigenia sentenza del 19 aprile 2012, n. 6142, laddove viene chiarito che una dichiarazione di tal fatta, riguardante la propria consapevolezza circa la rischiosità e l’inadeguatezza dell’investimento consigliato dalla banca – in base alle informazioni da questa ricevute – rispetto al suo profilo di investitore, non rappresenta una dichiarazione confessoria essendo rivolta alla formulazione di un giudizio e non all’affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo (principio, questo, ripreso anche nella successiva pronuncia n. 11412 del 6 luglio 2012).
Nella sentenza come sopra richiamata viene, peraltro, specificato che la banca intermediaria, prima di dare attuazione ad un ordine, ancorché scritto, ha l’obbligo di fornire all’investitore un’informazione adeguata in concreto, tale cioè da soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto, in relazione alle caratteristiche personali e alla situazione finanziaria del cliente.
A fronte di un’operazione inadeguata – si legge sempre nel succitato precedente – la banca potrà dare esecuzione all’ordine in oggetto soltanto se impartito in forma scritta dall’investitore e se contenente un esplicito riferimento alle avvertenze ricevute. Tale modus procedendi dovrà trovare applicazione con riferimento a tutti i servizi di investimento prestati nei confronti di qualsiasi investitore che non sia un operatore qualificato, dovendosi ritenere tale “anche chi abbia in precedenza occasionalmente investito in titoli a rischio” (in tal senso Cass. n. 17340/08).
Tornando alla sentenza oggi opinata la stessa specifica, poi, che gli obblighi informativi trovano applicazione anche con riferimento alle negoziazioni individuali e la prova del loro adempimento grava sull’intermediario (così Cass. n. 810/16 e Cass. n. 14884/17).
Come recentemente sostenuto nella pronuncia n. 8619/17, in materia di intermediazione finanziaria l’assolvimento degli obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza nella negoziazione dei titoli, così come declinati dall’art. 21, comma 1, lett. a) e b), impone all’intermediario sia di attivarsi per ottenere una conoscenza preventiva adeguata del prodotto finanziario alla luce di tutti i dati che ne possano influenzare la valutazione effettiva della rischiosità (tra cui la solvibilità dell’emittente e le caratteristiche del mercato dove è collocato il prodotto finanziario), senza che si possa giustificare il deficit informativo sulla base della dimensione locale di esso e della non partecipazione diretta alla vendita dei titoli, sia di fornire un’informazione sulle caratteristiche del prodotto concreta e specifica.
Infine la Corte ribadisce che sebbene l’onus probandi in merito al danno ed al nesso causale con l’inadempimento degli obblighi informativi gravi sull’investitore ciò non esclude che la prova possa comunque essere fornita sulla base di presunzioni (in tal senso Cass. n. 810/16).
Molto interessante anche il principio riguardante il rapporto tra violazioni degli obblighi informativi e la produzione del danno.
Secondo gli Ermellini, qualora l’intermediario abbia indotto all’acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi ed il cliente non rientri in nessuna delle categorie di investitore qualificato o professionale previste nella normativa di settore, non potrà configurarsi alcun concorso di colpa di quest’ultimo nella produzione del danno.
Applicando i suddetti principi la Corte ha, pertanto, cassato la sentenza con rinvio alla corte di appello in diversa composizione.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento