Mutamento giurisprudenziale “peggiorativo”: esclusione della colpevolezza

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La Sesta Sezione penale ha affermato che costituisce causa di esclusione della colpevolezza il mutamento di giurisprudenza in malam partem, nel caso in cui l’imputato, al momento del fatto, poteva fare affidamento su una regola stabilizzata, enunciata dalle Sezioni unite, che escludeva la rilevanza penale della condotta e non vi erano segnali, concreti e specifici, che inducessero a prevedere che, in futuro, le stesse Sezioni unite avrebbero attribuito rilievo a quella condotta, rivedendo il precedente orientamento in senso peggiorativo.

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Corte di Cassazione – Sez. VI Pen. – Sent. n. 28594 del 16/07/2024

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Indice

1. I fatti

La Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza con cui l’imputato è stato condannato per i delitti di peculato e accesso abusivo a sistema informatico.
Nello specifico, all’imputato, quale sovrintendente della Polizia di Stato, si contesta di essersi appropriato, di nascosto rispetto agli altri colleghi della pattuglia, di una somma di denaro non determinata durante un controllo di polizia giudiziaria e di aver operato una abusiva interrogazione alla banca dati SDI.
Avverso tale sentenza, è stato proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi: con il primo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità per il delitto di peculato. Nello specifico, ad avviso della difesa, la Corte avrebbe errato nel ritenere che, ai fini della configurabilità del reato contestato, sarebbe sufficiente la consapevolezza della mera altruità della cosa; assume, invece, l’imputato che il bene di cui lo stesso si sarebbe appropriato sarebbe stato una res derelicta, divenuta res nullius, acquisita mediante occupazione che avrebbe dovuto essere portata presso gli Uffici del Comune, ma questo non costituirebbe reato.
Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità per il reato di cui all’art. 615-ter cod. pen: ad avviso della difesa, l’accesso sarebbe stato giustificato in ragione della prassi, consolidata nelle linee guida del Ministero dell’Interno, di interrogare il sistema in dotazione delle forze dell’ordine in occasione della presentazione di una denuncia da parte di un cittadino. Nel caso di specie difetterebbe, inoltre, il dolo del reato non essendo ravvisabile la finalità di c.d. sviamento di potere che la Corte di Cassazione stessa ha ritenuto come elemento costitutivo per i casi di accesso da parte di soggetti legittimati ad introdursi nel sistema.
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2. Mutamento giurisprudenziale “peggiorativo”: l’analisi della Cassazione

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il primo motivo, ma fondato il secondo.
Per ciò che concerne il primo, si è chiarito come, diversamente dagli assunti difensivi, il denaro non potrebbe essere considerato res nullius e neppure res derelicta, atteso che, nella specie, non vi era affatto la volontà da parte del legittimo titolare di spogliarsi del bene, di disfarsene in modo definitivo, di dismettere di esercitare su di essa un potere di controllo: insomma, su quel denaro il legittimo detentore avrebbe potuto ricostruire l’originario potere di fatto.
Inoltre, è stata evidenziata la consapevolezza da parte dell’imputato che il denaro fosse proprio del soggetto sottoposto al controllo di polizia.
Per ciò che concerne, invece, il secondo motivo, la Suprema Corte ritiene che il ragionamento dei giudici di merito sia viziato.
La Corte osserva che la responsabilità penale è stata fatta discendere solo in ragione dello scopo e delle finalità illecite per le quali l’accesso fu eseguito.
Nello specifico, precedenti principi di legittimità (Sez. Un. n. 4694 del 27/10/2011) hanno sancito che “ai fini della integrazione del reato, assumeva rilievo solo il profilo oggettivo dell’accesso e del trattenimento del sistema informatico da parte di un soggetto che, sostanzialmente, non fosse autorizzato ad accedervi ed a permanervi, ovvero che avesse violato i limiti risultnanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema” e che “nei casi in cui l’agente (come nel caso di specie) avesse compiuto sul sistema un’operazione assentita dall’autorizzazione ricevuta ed avesse agito nei limiti di questa, il reato di cui all’art. 615-ter cod. pen., non poteva configurarsi, a prescindere dallo scopo eventualmente perseguito“.
Tuttavia, tali principi sono stati successivamente rivisti (in maniera “peggiorativa”) dalle Sezioni Unite con sentenza n. 41210 del 18/05/2017, secondo cui “integra il delitto previsto dall’art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita“.
Questo mutamento di giurisprudenza ha dato modo alla dottrina di chiarire come il c.d. “mutamento evolutivo” si realizzi quando, “nella pressoché assenza di precedenti, si estende la portata applicativa della fattispecie incriminatrice attraverso una interpretazione che arricchisce, specifica, integra ovvero adegua il significato precedentemente attribuito all’enunciato legislativo, permettendo alla norma, cristallizzata nella disposizione, di adattarsi ad un nuovo contesto storico-normativo”.
Il mutamento innovativo si realizza, invece, quando vi è, secondo la stessa giurisprudenza, la necessità di “porre rimedio”, nell’immutato contesto di riferimento, a quello che viene di fatto ritenuto dall’interprete come un vuoto di tutela derivante da una precedente interpretazione che viene considerata non più condivisibile.
In tale contesto, la Suprema Corte afferma che “il mutamento giurisprudenziale sfavorevole pone questioni perché è destinato a colpire anche chi ha commesso il fatto anteriormente ad esso, quando cioè predominava l’orientamento favorevole, generatore di affidamento“. Non si ha, dunque, una continuità nell’interpretazione della norma e questo crea, di fatto, incertezza.

3. La decisione della Cassazione

Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione, dopo un complesso e articolato ragionamento, è giunta ad affermare che, nei casi come quello in esame, l’agente, al momento della condotta, fa affidamento sul perdurare della interpretazione più favorevole che, invece, successivamente, anche a distanza di anni, viene disattesa dal giudice: questo, appunto, crea incertezza.
Ciò che deve essere verificato, ad avviso della Corte, è se l’errore sulla rilevanza penale della propria condotta sia dipeso o meno da negligenza, se sia possibile o meno muovere un addebito di responsabilità.
Viene chiarito, inoltre, che “il diritto di cambiare idea e il mutamento dell’interpretazione passano attraverso la necessità di considerare il diritto individuale dell’imputato alla prevedibilità della decisione e, in tal senso, l’art. 5 cod. pen., che si è fatto acutamente notare, consente di adeguare l’interpretazione del diritto ai mutamenti del contesto sociale e dello stesso sistema normativo, senza però sacrificare il diritto soggettivo del destinatario dei precetti alla libertà e sicurezza delle proprie scelte d’azione; in tal senso, la colpevolezza è capace di tutelare l’individuo contro le incertezze e i difetti della produzione giuridica, legislativa e giurisprudenziale perché essa si modella alle effettive capacità conoscitive del soggetto concreto, realizzando il principio di responsabilità“.
Nel caso di specie, la Corte osserva che l’imputato, al momento in cui furono commessi i fatti, poteva fare affidamento su una regola stabilizzata che escludeva la rilevanza penale della propria condotta e non vi erano concreti, specifici, segnali che inducessero a prevedere che, dopo cinque anni dalla sentenza del 2011, le Sezioni Unite della Corte avrebbero in seguito attribuito a quella condotta rilievo penale, rivedendo in senso peggiorativo il precedente orientamento.
Sulla base di ciò, l’imputato poteva ragionevolmente confidare di porre in essere un fatto lecito in ragione di una norma vivente, che operava in concreto e che impediva di formulare un giudizio di colpevolezza.
Per questi motivi, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 615-ter cod. pen. perché il fatto non costituisce reato.

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