La vicenda
In una S.r.l. avente a oggetto il commercio di macchine industriali era amministratore un uomo, titolare di una quota pari al 55%, mentre la moglie lo era della restante parte. Dopo l’inizio dell’esercizio dell’attività e al conseguimento degli utili, i due coniugi acquistarono un’area fabbricabile sulla quale edificare una sede più adeguata e i locali da destinare a officine dell’impresa individuale che il marito aveva avviato in proprio, con lo scopo di provvedere alla manutenzione e all’assistenza dei mezzi commercializzati dalla S.r.l. Con successivi atti i coniugi avevano acquistato plurimi fondi e, solo nell’ultimo si dava atto che il relativo immobile era stato acquistato dai coniugi in regime di comunione legale, in quanto negli altri atti, invece, risultava essere unico acquirente e intestatario il marito, mentre l’attrice, pur intervenuta alla stipula, aveva dichiarato che gli immobili oggetto degli acquisti non rientravano nella comunione dei beni in quanto da considerarsi necessari per l’esercizio della professione del coniuge, ex art. 179, lett. d), c.c. Sul presupposto dell’assunta erroneità di quest’ultima dichiarazione e dell’applicabilità dell’art. 178 c.c., in luogo dell’art. 179 lett. d), c.c., ed essendo nel 2000 intervenuta pronuncia di separazione giudiziale, si sarebbe dovuta, ad avviso dell’ex moglie, ritenere sciolta la comunione legale tra coniugi, con la conseguenza che gli immobili acquistati dall’uomo erano da considerarsi caduti “ipso iure” in comunione, ragion per cui l’attrice dichiarava di vantare il suo diritto di comproprietà sui predetti immobili, nonché su quanto sugli stessi edificato, in ragione del 50%. La donna, sempre invocando l’art. 178 c.c., sosteneva di essere altresì comproprietaria, per metà, anche di tutti i beni mobili dell’impresa artigiana del coniuge, oltre che delle quote della S.r.l. ancora intestate al medesimo coniuge. Pertanto, la donna citava in giudizio l’ex marito chiedendo la divisione di tutti i beni aziendali a lui intestati, nonché l’accertamento degli utili percepiti e percipiendi dallo stesso, oltre che dell’equivalente pecuniario riconducibile agli eventuali beni aziendali che fossero stati alienati dal medesimo dopo lo scioglimento della comunione legale. L’uomo eccepiva l’avvenuto acquisto per usucapione di tutti gli immobili dedotti in controversia, compresi quelli aziendali, e delle costruzioni su di essi insistenti, deducendo, inoltre, che ove fosse stata condivisa la prospettazione di quanto dedotto in citazione, occorreva tener conto che l’azienda individuale da lui esercitata, fin dal momento dello scioglimento della comunione legale, presentava un’esposizione per passività ammontante a circa 400 milioni di lire e che, anche sulla proprietà dei beni immobili acquistati, pendeva una posizione debitoria di 100 milioni di lire. Il convenuto, quindi, chiedeva che l’attrice venisse condannata al pagamento della metà di tutti gli oneri correlati alla realizzazione delle opere edificate sugli immobili di sua proprietà esclusiva, nonché al rimborso a proprio favore di tutti gli oneri che erano derivati dall’esecuzione di quelle opere da parte di soggetti terzi. In primo grado veniva dichiarato che l’attrice era proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto del contendere, dovendosi applicare l’art. 178 c.c.
La natura obbligatoria secondo il giudice territoriale
La Corte d’appello accoglieva l’interposto appello dell’uomo e, in parziale riforma della sentenza di primo grado (che confermava con riferimento all’applicazione dell’art. 178 c.c. e all’esistenza della comunione “de residuo”), dichiarava che, per effetto dello scioglimento della comunione “de residuo”, la donna era titolare di un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni costituenti l’impresa esercitata a titolo personale dall’uomo durante il matrimonio. Di conseguenza, i beni da dividere avrebbero dovuto considerarsi inseriti nella realtà produttiva dell’azienda, al cui esercizio erano destinati, ragion per cui l’incremento residuo, del quale la donna avrebbe dovuto beneficiare “pro quota”, doveva tener conto dell’attivo sui beni aziendali da accertarsi alla data in cui si era verificato lo scioglimento della comunione. Pertanto, ai fini della determinazione dell’entità dei crediti da attribuire in favore dell’attrice e dei relativi frutti, la causa veniva rimessa sul ruolo per il suo ulteriore prosieguo istruttorio e la conseguente regolazione finale delle spese processuali. La Corte d’Appello, dopo avere escluso che i beni fossero stati acquisiti per l’esercizio dell’attività di agente di commercio dell’uomo, e che quindi potessero farsi rientrare nel novero dei beni personali ex art. 179 c.c., trattandosi al contrario di beni destinati all’esercizio dell’impresa individuale gestita dallo stesso, e nel ribadire che si trattava quindi di beni oggetto della comunione de residuo, sosteneva la conclusione secondo cui l’attrice potesse vantare per gli stessi solo un diritto di credito. La sentenza esponeva gli argomenti che a suo dire portavano a propendere per la tesi della natura obbligatoria del diritto del coniuge non titolare dell’azienda, il cui oggetto era il valore monetario dei beni che costituiscono l’azienda, dedotte le passività. Era, quindi, necessario considerare i beni in quanto inseriti nella realtà produttiva dell’azienda, potendo l’attrice beneficiare dell’incremento residuo, pro quota, alla data in cui era intervenuto lo scioglimento della comunione legale. Aggiungeva, tuttavia, che nel prosieguo del giudizio la Corte avrebbe dovuto solo procedere all’accertamento del credito vantato dall’attrice, senza la possibilità anche di adottare una condanna a suo favore, poiché una domanda siffatta non era mai stata proposta dalla donna. La donna propose ricorso per cassazione.
L’ordinanza interlocutoria
La II Sezione civile ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza relativa alla natura giuridica della cd. comunione de residuo, posto che sia in dottrina che in giurisprudenza si era contesa la tesi, fatta propria della sentenza impugnata, che attribuisce al coniuge non imprenditore un diritto di credito, pari alla metà del valore dell’azienda al momento dello scioglimento della comunione, e quella che invece opta per il riconoscimento di un diritto di compartecipazione alla titolarità dei singoli beni individuali.
La natura obbligatoria
Le Sezioni Unite, aderendo all’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, hanno affermato che la comunione de residuo determina l’insorgenza di un mero diritto di credito e non attribuisce al coniuge non imprenditore alcuna automatica ragione di contitolarità rispetto ai beni aziendali, essendo la sua posizione subordinata al previo soddisfacimento dei creditori dell’impresa. Nell’ordinanza di rimessione si era osservato, a favore della natura creditizia del diritto in parola, che oggetto della comunione de residuo sono non solo somme di denaro, ma anche beni, sia mobili che immobili, così che, affermare l’automatico venire in essere di una situazione di contitolarità reale in capo a tali cespiti, sarebbe potenzialmente in grado di creare problemi nei rapporti con i terzi, i quali potrebbero non avere consapevolezza dell’esistenza di ragioni che determinano l’assoggettamento a comunione di beni a questa apparentemente sottratti.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento