L’art. 1322 c.c., in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost., stabilisce che le parti possano sia determinare liberamente il contenuto del contratto sia concludere contratti diversi da quelli previsti dal legislatore, con i limiti, rispettivamente, della liceità e della meritevolezza degli interessi perseguiti.
Per espressa previsione normativa, le parti possono, dunque, realizzare l’assetto di interessi voluto sia ricorrendo a schemi tipici, cioè astrattamente predisposti dal legislatore, sia attraverso schemi atipici, cioè creati ad hoc per la singola operazione negoziale.
L’autonomia negoziale, tuttavia, assurge a principio generale, consentendo alle parti di utilizzare anche ulteriori meccanismi onde perseguire il loro intento, a condizione che ciò non contrasti con le norme imperative, l’ordine pubblico e il buon costume.
Non è rilevante che le parti, per perseguire i loro interssi, modifichino il contenuto di contratti tipici o creino schemi nuovi o utilizzino congiuntamente norme provenienti da più tipi contrattuali o addirittura che colleghino fra loro negozi diversi: rileva unicamente che l’assetto degli interessi così come divisato dai paciscenti non si ponga (direttamente o indirettamente) in contrasto con l’ordinamento.
Dottrina e giurisprudenza si sono interrogate, pertanto, sull’ammissibilità di taluni negozi, conosciuti da tempo, utilizzati dalle parti per realizzare un assetto di interessi, il cui concreto atteggiarsi non si manifesta immediatamente in tutta la sua portata ma si basa sull’esistenza di pattuizioni a latere o finalità ulteriori rispetto a quelli normalmente riconducibili allo schema utilizzato.
Con riguardo a tali ipotesi, l’attenzione si incentra soprattutto sul negozio fiduciario e sul negozio indiretto e sulla distinzione di queste figure da altri istituti, caratterizzati da discipline specifiche, non sempre ritenute applicabili analogicamente.
Si suole, infatti, parlare di negozio fiduciario per fare riferimento a quel particolare negozio con cui un soggetto (fiduciante) trasferisce ad un altro (fiduciario) un bene o un diritto, col patto (cosiddetto pactum fiduciae) che il fiduciario ritrasferirà il bene o il diritto successivamente o allo stesso soggetto dal quale lo ha acquisito o ad un terzo.
Il negozio fiduciario altro non è che un contratto traslativo cui si aggiunge una pattuizione a latere, destinata a rimanere riservata (l’obbligo di ritrasferire) la cui ragione giustificatrice si rintraccia nella fiducia intercorrente fra i protagonisti dell’operazione.
Le finalità concrete per cui l’operazione può essere realizzata sono le più varie: per il fiduciante, l’intento potrebbe essere quello di sottrarre beni ai creditori per un certo periodo; il fiduciario, invece, potrebbe voler precostituirsi una dotazione patrimoniale per porre in essere determinate operazioni o semplicemente per cautelarsi.
Un simile istituto, capace di assumere varie funzioni, era infatti usato già nel diritto romano, ove si concepiva la fiducia in duplice accezione, come fiducia cum amico e come fiducia cum creditore. Mentre la fiducia cum creditore postulava che il patto di ritrasferimento fosse correlato al rapporto debito/credito, con una finalità analoga alle vendite in funzione di garanzia, nella fiducia cum amico veniva in rilievo soprattutto l’esigenza di sottrarre beni al proprio patrimonio, per riacquisirli poi in un momento successivo. Soprattutto in questa seconda ipotesi, il negozio fiduciario poteva arricchirsi di contenuto, potendo essere demandata al fiduciario anche la gestione del bene (fiducia dinamica), in luogo del semplice obbligo di ritrasferire il medesimo oggetto (fiducia statica).
Il negozio fiduciario non può essere confuso con il negozio simulato: nella simulazione, infatti, le parti limitano o escludono ab origine determinati effetti del negozio concluso seppur inter partes; nella fiducia, invece, l’efficacia del trasferimento posto in essere è piena, salvo poi prevedere un successivo obbligo di porre nel nulla quegli stessi effetti (col successivo ritrasferimento).
Analogamente, il negozio fiduciario non crea alcuna scissione fra titolarità formale e sostanziale del bene o del diritto trasferito: nel nostro ordinamento, infatti, l’effetto del negozio fiduciario è il trasferimento della proprietà (o di altro diritto reale) sul bene oggetto del contratto, dal fiduciante al fiduciario, senza alcuna limitazione con riguardo alle facoltà esercitabili. Il fiduciario assume, infatti, un solo e unico obbligo, cioè quello di ritrasferire (e al più quello di gestire), ma può comunque, anche in spregio al pactum fiduciae, esercitare tutte le facoltà del titolare effettivo del bene. Quindi, se viene trasferita la proprietà, egli potrà godere e disporre del bene con pienezza di poteri.
Se il fiduciario si renderà inadempiente, il fiduciante potrà utilizzare l’azione costitutiva di cui all’art. 2932 c.c., ma solo ed unicamente laddove il bene sia rimasto nel suo patrimonio; se, invece, il fiduciario avrà disposto in favore di terzi, essendo il pactum fiduciae inopponibile a questi, l’unico rimedio sarà il risarcimento del danno per equivalente monetario secondo le regole del 1218 e ss. c.c. L’efficacia del pactum fiduciae è, infatti, solo obbligatoria e inter partes.
Ciò limita fortemente la sicurezza dell’operazione, poiché il fiduciante, dopo aver trasferito il diritto, rimarrà esposto all’altrui inadempimento; tuttavia, si tratta di una conseguenza ineliminabile del negozio fiduciario, sia in ragione della concezione della proprietà ereditata sin dai tempi del diritto romano, sia in virtù dell’esigenza di rispettare l’autonomia negoziale.
Muovendo da tali considerazioni, si è evidenziata la differenza del negozio fiduciario con il trust: tale istituto, che letteralmente significa fiducia, di origine anglosassone, consente, infatti, al disponente (settlor) di segregare beni, intestandoli formalmente ad un altro soggetto (il trustee), affinché questo li amministri per un beneficiario o per uno scopo. Simili beni, però, non confluiscono nel patrimonio personale del trustee ma rimangono separati, con la conseguenza che la mancata destinazione al beneficiario o allo scopo è azionabile, anche attraverso il diritto di recuperare i beni nei confronti dei terzi che si siano resi acquirenti del bene. Si genera, in tal modo, un vincolo di destinazione, reale, tutelabile erga omnes, del tutto estraneo al nostro concetto di fiducia.
Una differenza si riscontra anche con la fiducia germanistica, ove si concepisce quanto meno la scissione fra chi gestisce il bene (e ne risulta formalmente intestatario) e chi invece ne acquista i vantaggi, atteggiandosi a titolare reale. Tale modello, estraneo al nostro ordinamento, è stato accolto dal legislatore in talune norme speciali, onde favorire la gestione della ricchezza mobiliare (si pensi al fenomeno delle gestioni da parte di società fiduciarie di azioni o obbligazioni o ai fondi comuni investimento).
Il negozio fiduciario, invece, non consente tale scissione, limitandosi a consentire che ad un normale contratto ad effetti reali sia apposta un’ulteriore pattuizione, quella per cui il fiduciario dovrà ritrasferire successivamente, realizzando così uno scopo specifico (la protezione del bene dall’aggressione dei creditori ad esempio).
In tal senso la figura si avvicina al negozio cosiddetto indiretto: esso, riconducibile all’ampio concetto di autonomia negoziale di cui all’art. 1322 c.c., si caratterizza per il fatto che le parti utilizzano uno schema tipico piegandolo però ad una finalità ulteriore e diversa da quella sua propria. L’assetto concreto degli interessi si arricchisce di contenuto e anche la causa concreta ne risulta mutata.
Nonostante le indubbie analogie fra le due figure, una differenza fra negozio fiduciario e negozio indiretto è comunque individuabile: mentre il negozio fiduciario richiede infatti una pattuizione a latere, destinata tendenzialmente a rimanere riservata, in quanto rimessa alla fiducia, nel negozio indiretto è l’intervento (più o meno incisivo) sul contenuto negoziale a consentire la realizzazione dello scopo ulteriore.
Di talchè, nel momento in cui, ad esempio, si piega un negozio traslativo alla funzione di garanzia, è chiaro che occorre in qualche modo collegare, attraverso apposite clausole contrattuali, l’alienazione con l’adempimento dell’obbligazione preesistente.
Inoltre, anche l’ambito di applicazione dei due strumenti è differente: mentre il negozio fiduciario ha alla base un negozio traslativo, nel negozio indiretto, per realizzare il fine ulteriore e diverso, è utilizzabile qualsiasi schema tipico, previsto dal legislatore, sia esso ad effetti reali o ad effetti obbligatori.
Il negozio indiretto, infatti, come riconosciuto dalla dottrina, è un meccanismo generale attraverso cui può esplicarsi l’autonomia contrattuale e l’unica limitazione discende dalla necessità che, attraverso il ricorso ad esso, non sia elusa l’applicazione di norme imperative, come chiarito dall’art. 1344 c.c.
Secondo tale previsione, infatti, la causa si reputa illecita anche quando non vi è una violazione diretta della norma imperativa ma solo indiretta, cioè attraverso strumenti elusivi: l’elusione non può avvenire per mezzo di contratti tipici, perché la causa concreta del negozio sarebbe essa stessa contrastante con la norma imperativa, integrando l’ipotesi dell’art. 1343 c.c, ma solo attraverso o negozi indiretti (che abbiano come fine ulteriore quello di aggirare la norma imperativa) o ricorrendo a più negozi, fra loro collegati.
Facendo applicazione di tale regola, la giurisprudenza ha avuto modo di rilevare più volte, con riguardo alle alienazioni in garanzia, che se lo schema tipico della vendita è utilizzato al fine non solo di trasferire la proprietà ma di fornire al creditore un bene per fronteggiare l’ inadempimento del debitore, è integrata la frode alla legge e il negozio è nullo, in quanto si intende eludere il disposto dell’art. 2744 c.c.. (divieto del patto commissorio).
Tuttavia, al di fuori della violazione dell’art. 1344 c.c., le parti possono ricorrere anche al negozio indiretto per realizzare lo specifico assetto di interessi che hanno in mente di raggiungere.
Il problema che si pone, in tale ipotesi, è dunque valutare la disciplina applicabile al negozio indiretto. Sicuramente risultano applicabili le norme sul contratto in generale, nonché le specifiche pattuizioni previste dalle parti; inoltre, si potrà fare riferimento alle norme del contratto tipico prescelto, nei limiti di compatibilità con l’incidenza del diverso e ulteriore fine sullo schema astratto previsto legislativamente.
Si potrà parlare di un negozio indiretto solo e soltanto quando l’assetto di interessi voluto fra le parti non sia tale da sconvolgere l’intero schema negoziale ma qualora sia suscettibile solo di arricchirlo di un’ulteriore funzione, senza, pertanto, menomare lo scopo tipico che esso mira a raggiungere. In tal caso, infatti, il concreto negozio risentirà della finalità ulteriore perseguita dai paciscenti.
Orbene, a prescindere dalla funzione di garanzia, sarà poi possibile piegare schemi tipici anche per realizzare una liberalità, dando vita a quella particolare figura di negozio indiretto che è la donazione indiretta.
Tale figura ricorre, infatti, ogni qual volta le parti utilizzino un negozio, diverso dal contratto tipico di donazione, per realizzare la finalità donativa.
Ciò impone, anzitutto, di dover determinare quando possa effettivamente parlarsi di scopo di liberalità e, secondariamente, di individuare quali siano gli strumenti contrattuali utilizzati dalle parti per realizzare indirettamente una simile funzione.
Occorre tener presente che lo scopo di liberalità viene spesso individuato, dalla migliore dottrina, nel cosiddetto animus donandi. Esso non va inteso, però, in senso semplicemente soggettivo ma va identificato nella volontà di arricchire qualcuno, incidendo sul proprio patrimonio, senza pretendere alcun corrispettivo o controprestazione, per mero spirito di liberalità, cioè in maniera fine a se stessa, a prescindere da qualsivoglia vantaggio economico o non economico.
La liberalità risulta pertanto caratterizzata sia da un aspetto oggettivo, rappresentato da un correlativo arricchimento/impoverimento, sia da un aspetto soggettivo, consistente nell’assenza di contropartita per l’attribuzione ad altri di un bene o per l’assunzione di un’obbligazione.
Una simile nozione della liberalità consente di differenziarla dalla gratuità: nel negozio gratuito, infatti, è comunque individuabile per colui che si vincola un vantaggio anche di carattere non patrimoniale sotteso all’operazione, nella liberalità, invece, tale profilo è assente.
A mero titolo esemplificativo, talvolta è gratuito il comodato (a meno che non sia oneoroso), in cui il vantaggio che il comodante riceve è nella cura che il comodatario avrà del bene, così come analogamente può reputarsi gratuito il contratto con cui un artista esegue una prestazione senza corrispettivo, al solo e unico fine di farsi pubblicità; manca, in tali casi, una vera e propria finalità donativa (di mera liberalità), cioè l’assenza di qualsivoglia vantaggio per la prestazione così ottemperata.
La dottrina ha sovente rilevato come la liberalità possa realizzarsi in via indiretta nei modi più svariati, attraverso attività materiali, atti giuridici, negozi giuridici. A titolo meramente esemplificativo, si osserva infatti che un padre, per spirito di liberalità, può arricchire il figlio , costruendo sul fondo di proprietà di questi un immobile, senza pretendere alcun rimborso delle spese sostenute, oppure versando delle somme esclusivamente proprie sul conto cointestato col figlio, o, ancora, stipulando un contratto di compravendita o locazione a favore del figlio, sostenendone tutti gli oneri oppure estinguendo con denaro proprio l’obbligazione da questi contratta.
Esistono fattispecie contrattuali previsti nel nostro ordinamento che, più di altre, si prestano a realizzare la finalità donativa. Si pensi soprattutto al contratto a favore di terzo o al contratto per persona da nominare: in questi casi, laddove l’attribuzione ad altri non sia seguita o correlata ad alcun vantaggio o contropartita, lo scopo di liberalità consente di qualificare l’operazione come lato sensu donativa.
Le liberalità indirette, del resto, risultano consentite non solo in ragione dell’ampia autonomia negoziale riconosciuta dal nostro ordinamento, ma anche in virtù del disposto dell’art. 809 c.c.
Onde evitare che attraverso il ricorso a schemi diversi dalla donazione siano eluse le norme a tutela della dignità di colui che arricchisce l’altro o sia leso l’interesse a non menomare taluni diritti inter vivos o mortis causa di stretti congiunti, si chiarisce che anche le liberalità indirette sono soggette alla disciplina della revocazione per causa di ingratitudine e sopravvenienza dei figli, nonché che esse soggiacciono alla collazione e possono essere ridotte al fine di reintegrare la legittima.
Tale norma consente dunque di affermare che a tali atti, al di là delle regole richiamate, conformemente a quanto ritenuto per tutti i negozi indiretti, si debbano applicare le previsioni specifiche delle parti e, in mancanza, le regole proprie del tipo contrattuale utilizzato e, da ultimo, le regole generali del contratto (valutandone al limite la compatibilità se ci si trovi di fronte ad un negozio unilaterale).
Una simile affermazione di carattere generale ha assunto oggi una peculiare valenza con riguardo al caso, quanto mai problematico della cosiddetta vendita mista cum donatione.
La terminologia viene utilizzata, infatti, in dottrina e in giurisprudenza per designare una particolare compravendita, nell’ambito della quale il prezzo particolarmente basso dell’alienazione induce a ritenere sussistente la volontà di arricchire l’acquirente della differenza fra l’importo pattuito e il valore effettivo del bene.
Attualmente la giurisprudenza è pervenuta ad un inquadramento della fattispecie concreta, proprio nell’ambito del negozio indiretto, valorizzando la disciplina in materia di donazioni indirette.
Poiché è possibile perseguire la finalità donativa attraverso gli schemi più svariati, non esiste alcun ostacolo a ritenere che anche con la compravendita si possa realizzare una donazione indiretta, in misura pari alla differenza fra il valore del bene alienato e il prezzo (minore) versato, a condizione che, sia chiaro, non vi sia alcun altro corrispettivo o vantaggio per colui che alieni.
Milano, 21 maggio 2017
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