Nei giudizi di responsabilità per violazione del consenso informato, il paziente deve provare che se fosse stato adeguatamente informato non avrebbe eseguito l’intervento.

Fatto

Nella fattispecie decisa con la sentenza oggetto di commento, una signora decise di agire in giudizio nei confronti dell’istituto sanitario “Gaslini” di Genova per ottenere il risarcimento del danno, sostanziatosi nella perdita della sua capacità riproduttiva, causato da un intervento cui si era sottoposta la donna e finalizzato alla interruzione volontaria di gravidanza, in quanto lo stesso era stato effettuato senza un valido consenso informato. In altri termini, l’attrice sosteneva di essersi sottoposta all’intervento di interruzione della gravidanza, senza essere stata adeguatamente informata dei medici della struttura sanitaria circa il fatto che detto intervento avrebbe potuto determinare, fra le conseguenze pregiudizievoli, la perdita della capacità della donna di riprodursi e quindi restare nuovamente incinta.

Il tribunale di Genova, pur avendo accertato che i medici dell’ospedale non avevano fornito alla paziente le informazioni adeguate circa i rischi dell’intervento (sostanziando, quindi, una violazione del diritto al consenso informato), tuttavia rigettava la domanda dell’ attrice in considerazione del fatto che la stessa non aveva fornito in giudizio la prova che, se i medici la avessero adeguatamente informata su tali rischi, ella avrebbe rifiutato di eseguire l’intervento per l’ interruzione della gravidanza.

Entrambe le parti avevano, poi, proposto appello avverso la suddetta sentenza del Tribunale di Genova, ma anche la Corte di secondo grado aveva rigettato sia il gravame dell’attrice che quello dell’istituto sanitario (il quale ultimo avrebbe voluto far accertare ai giudici di secondo grado che non sussisteva alcuna violazione dell’ obbligo di fornire adeguate informazioni alla paziente). In particolare, anche la corte di Appello di Genova riteneva che la patologia subita dalla donna in conseguenza dell’ intervento abortivo (che è consistita nell’ impossibilità di restare nuovamente incinta), era dipesa dalla emorragia dovuta ai farmaci assunti per effettuare il parto abortivo. Da un lato, la corte d’appello ligure aveva, poi, ritenuto che la scelta terapeutica adottata dall’ospedale per effettuare l’aborto (tramite induzione farmacologica) risultava corretta da un punto di vista medico, posto che l’intervento chirurgico sarebbe stato invece più pericoloso per la vita della signora (escludendo, così la sussistenza di una responsabilità della struttura sanitaria per il danno alla salute subito dalla paziente); dall’altro lato, escludeva il risarcimento del danno a favore della paziente per violazione del consenso informato, confermando che l’attrice non aveva provato che, qualora fosse stata adeguatamente informata dai medici dei rischi connessi al trattamento sanitario eseguito, la stessa non si sarebbe sottoposta allo stesso e quindi non avrebbe interrotto la gravidanza.

Non essendo soddisfatta dalla pronuncia della corte d’appello di Genova, quindi, la paziente ha promosso ricorso in cassazione, sostenendo l’ erroneità della sentenza di secondo grado. In particolare, la ricorrente ha sostenuto che i giudici di appello avrebbero sovrapposto le due distinte domande formulate dalla stessa (cioè quella per il risarcimento del danno alla salute e quella per il risarcimento del danno alla libertà di autodeterminazione) ed avrebbero erroneamente rigettato entrambe le domande, nonostante sussistessero i presupposti per il risarcimento per la lesione del diritto all’autodeterminazione della paziente: infatti, secondo la ricorrente, tale ultima domanda risarcitoria avrebbe dovuto essere accolta anche se mancava la prova che la paziente avrebbe rifiutato l’intervento qualora fosse stata adeguatamente informata dei suoi rischi.

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La decisione della Corte di Cassazione

La suprema corte di Cassazione ha ritenuto infondato il motivo di doglianza sollevato dalla ricorrente e conseguentemente ha rigettato il ricorso, confermando la decisione della corte di appello di Genova.

Secondo gli ermellini, infatti, l’orientamento ormai unanime della Corte di Cassazione in materia di consenso informato individua, quale presupposto indefettibile per il riconoscimento del risarcimento del danno per violazione del consenso informato, la prova che il paziente avrebbe rifiutato l’intervento chirurgico o il trattamento sanitario in generale qualora fosse stato adeguatamente informato dei rischi prevedibili connessi allo stesso.

A tal proposito, la corte di cassazione ha ricordato che soltanto un anno fa (precisamente con la Sentenza n. 28985 del 11 novembre 2019) la stessa è intervenuta sulla materia del consenso informato con una importante sentenza che ha compiuto un’opera di sistemazione complessiva della giurisprudenza in materia e ha quindi confermato che è opportuno dare continuità a tale orientamento.

Per quanto interessa in questa sede, la corte di cassazione ha evidenziato che, fra le numerose fattispecie elencate nel citato precedente del 2019, il caso in esame rientra fra quelli in cui al paziente è stata omessa un’ informazione con riferimento ad un intervento chirurgico che ha altresì determinato anche un pregiudizio alla salute per il paziente stesso, rispetto al quale ultimo però non sussiste una responsabilità del sanitario. In questi casi, secondo la corte di cassazione, oltre a non essere evidentemente risarcibile il danno alla salute (proprio per mancanza di una responsabilità del medico), l’unico danno astrattamente risarcibile è quello connesso alla violazione dell’autodeterminazione del paziente.

Tuttavia, il risarcimento per la violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente è ammissibile soltanto se il paziente provi in giudizio che, nel caso in cui avesse ricevuto la corretta informazione sui rischi connessi all’intervento da parte del sanitario, egli avrebbe rifiutato di eseguire l’intervento chirurgico o il trattamento sanitario in generale.

Ciò detto al livello di principi generali, la corte di cassazione ha rilevato che, nel caso oggetto di esame, la corte territoriale ligure aveva accertato che la parte attrice non aveva fornito la prova che, qualora fosse stata adeguatamente informata dai sanitari circa i rischi connessi alla terapia abortiva, la stessa non si sarebbe sottoposta all’aborto e avrebbe quindi proseguito la gravidanza. Pertanto, applicando il principio di cui sopra al caso di specie, la corte ha ritenuto corretta la decisione della corte di appello di Genova.

In conclusione, appare interessante rilevare come, per quanto concerne la regolamentazione delle spese di lite del giudizio di cassazione, i giudici supremi abbiano ritenuto di compensare le spese processuali tra le parti, proprio in considerazione del fatto che la giurisprudenza che è stata impiegata dalla Corte per definire la controversia è ancora in corso di consolidamento.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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