Indice:
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
- Volume consigliato
Il fatto
La Corte di Appello di Catanzaro confermava una pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Cosenza con la quale gli imputati erano stati condannati alla pena di mesi quattro di reclusione ed euro 100 di multa ciascuno oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile per il reato di truffa continuata in concorso.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso detta sentenza, nell’interesse degli imputati, era proposto ricorso per Cassazione con cui erano addotti i seguenti motivi: 1) motivazione illogica e contraddittoria in relazione alla mancanza della condizione di procedibilità; 2) motivazione carente, illogica e contraddittoria in relazione alla falsità delle firme e all’inesistenza dei traenti.
Si legga anche:
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Il legale rappresentante della società di capitali può esercitare il diritto di querela
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
I ricorsi erano stimati inammissibili per le seguenti ragioni.
Quanto al primo motivo, esso era considerato manifestamente infondato.
In particolare, la Suprema Corte era addivenuta a siffatta conclusione rilevando innanzitutto che, quale soggetto deputato ad occuparsi di una delle sedi dell’istituto di credito, il direttore ha anche un potere di rappresentanza sostanziale e processuale riconosciuti dall’art. 2203 cod. civ., osservandosi al contempo che la persona offesa dal reato, titolare del diritto di querela a norma dell’art. 120 cod. pen., deve essere individuata nel soggetto titolare dell’interesse direttamente protetto dalla norma penale e la cui lesione o esposizione a pericolo costituisce l’essenza dell’illecito, fermo restando come occorra altresì considerare che l’imprenditore, nello svolgimento della propria attività, spesso si avvale della collaborazione di altri soggetti fra cui gli “institori“, la cui disciplina giuridica è contenuta nel titolo II “Del lavoro nell’impresa” del libro V “del lavoro” del codice civile (artt. 2203-2205).
Ciò posto, si evidenziava a tal riguardo, una volta fatto presente che l’art. 2203 cod. civ. recita testualmente: “E’ institore colui che è preposto dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale. La preposizione può essere limitata all’esercizio di una sede secondaria o di un ramo particolare dell’impresa. Se sono preposti più institori, questi possono agire disgiuntamente, salvo che nella procura sia diversamente disposto”, che, di norma, la figura dell’institore si identifica con il direttore generale dell’impresa o di una filiale o di un settore produttivo della stessa, trattandosi di soggetto il quale ha il potere di rappresentanza sostanziale e processuale.
Precisato ciò, veniva altresì fatto presente che, se, nel caso della rappresentanza sostanziale, anche senza espressa procura, l’institore può compiere in nome dell’imprenditore tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa o del ramo al quale è preposto, non può invece compiere atti che travalicano dalla gestione dell’impresa, nel caso della rappresentanza processuale, costui può stare in giudizio, sia come “attore“, sia come “convenuto“, per le obbligazioni che dipendono da atti compiuti nell’esercizio dell’impresa alla quale è preposto (ex art. 2204, comma 2, cod. civ.) e, quindi, non soltanto per gli atti compiuti da lui, ma anche per gli atti posti in essere direttamente dall’imprenditore.
A loro volta i poteri rappresentativi determinati dalla legge nei confronti dell’institore possono essere ampliati oppure limitati dall’imprenditore, sia all’atto della preposizione, sia successivamente.
In definitiva, osservava il Supremo Consesso nella decisione qui in esame, è il codice civile che attribuisce a chi materialmente gestisce un ramo di impresa il potere di compiere tutti gli atti inerenti l’esercizio di quella impresa, atti cui devono essere compresi il diritto di sporgere querela per fatti inerenti strettamente l’esercizio commerciale.
Da quanto appena enunciato gli Ermellini ne facevano conseguire che, nella fattispecie, con riferimento alla truffa contestata riguardante una posizione gestita da una filiale di un istituto di credito, trova applicazione il principio di legittimità che esclude, con riferimento all’art. 337, comma 3, cod. proc. pen., la nullità della querela che sia priva delle indicazioni della fonte dei poteri di rappresentanza conferiti al legale rappresentante della persona che ha proposto l’istanza di punizione e ciò in forza del principio di tassatività delle cause di nullità sancito dall’art. 177 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 7845 del 30/04/1999), tenuto conto altresì del fatto che la stessa disposizione di legge di cui all’art. 337, comma 3, cod. proc. pen. si limita a richiedere l’indicazione della fonte dei poteri di rappresentanza da parte del soggetto che la presenta e non già la prova della veridicità delle dichiarazioni di quest’ultimo sul punto, in guisa tale che siffatta veridicità deve presumersi fino a contraria dimostrazione e non incombe alla parte alcun onere di allegazione documentale (cfr., Sez. 5, n. 1469 del 16/01/1997; Sez. 6, n. 1131 del 12/12/1996).
Oltre a ciò, era altresì messo in risalto il fatto come tale approccio ermeneutico apparisse essere, del resto, in linea, oltre che con le disposizioni del codice civile citate, con il costante orientamento della Cassazione Civile secondo cui l’attività posta in essere da filiali o succursali di una banca – prive di personalità giuridica, così come indicato nella Direttiva CEE n. 780 del 12/12/1977 ed espressamente ribadito dall’art. 1, lett. e), del d.lgs. n. 385 del 1993 – va imputata all’istituto di credito di cui costituiscono un’articolazione periferica; tuttavia, ai dirigenti preposti a tali filiali è di regola riconosciuta la qualità di institore ex art. 2203 cod. civ., dalla quale deriva la loro legittimazione attiva e passiva in giudizio in nome della banca preponente, con imputazione a quest’ultima dell’attività giudiziaria da essi svolta (Sez. 1 civ., n. 1365 del 26/01/2016).
Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, i giudici di piazza Cavour giungevano alla conclusione secondo cui, nel caso di una querela proposta dal “direttore” di una società, l’imputato, il quale sostenga che il preposto non sia autorizzato dallo statuto, dalla procura generale o da una successiva delibera a vagliare di volta in volta l’opportunità di proporre l’istanza di punizione, deve dare la prova del proprio assunto, perchè la querela venga dichiarata priva di rilievo (cfr., Sez. 2, n. 31860 del 08/07/2020).
Ebbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, considerato come non apparisse essere (per la Corte di legittimità) comprensibile la contestazione difensiva sulla necessità della “diretta conoscenza“, come indicato nel punto 20 della procura generale, inciso che non poteva che riferirsi, per il ruolo svolto dal direttore, a quanto direttamente appreso dai dipendenti della filiale da lui rappresentata, gli Ermellini facevano derivare da ciò l’assenza di prova della tesi difensiva in ordine alla mancanza di poteri a proporre l’istanza punitiva in capo al direttore.
Ciò posto, aspecifico e comunque manifestamente infondato era reputato anche il secondo motivo, osservandosi a tal proposito come la Corte territoriale, in uno con le valutazioni del Tribunale (si era in presenza di una c.d. doppia conforme che consente la lettura congiunta delle due pronunce di merito costituenti un unico corpo decisionale, essendo stati rispettati i parametri del richiamo della pronuncia di appello a quella di primo grado e dell’adozione – da parte di entrambe le sentenze – dei medesimi criteri nella valutazione delle prove: cfr., Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019), con argomentazioni (stimate) assorbenti del tutto prive di vizi logico-giuridici, aveva fondato il giudizio di falsità delle cambiali in contestazione, non solo sul narrato di uno degli apparenti emittenti, ma anche sulla base delle anomalie evidenziate dallo stesso esame dei titoli.
Con queste argomentate conclusioni, ad avviso del Supremo Consesso, i ricorrenti avevano omesso di confrontarsi preferendo la “strada“, conducente all’inammissibilità, della reiterazione del motivo di appello.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito cosa è tenuto a fare l’imputato perché la querela venga dichiarata priva di rilievo, quando essa sia proposta dal “direttore” di una società.
Difatti, in tale pronuncia, sulla scorta di un recente precedente conforme, si afferma che, nel caso di una querela proposta dal “direttore” di una società, l’imputato, il quale sostenga che il preposto non sia autorizzato dallo statuto, dalla procura generale o da una successiva delibera a vagliare di volta in volta l’opportunità di proporre l’istanza di punizione, deve dare la prova del proprio assunto perché la querela venga dichiarata priva di rilievo.
Non è pertanto sufficiente che l’imputato sostenga genericamente che il preposto non sia autorizzato dallo statuto, dalla procura generale o da una successiva delibera a vagliare di volta in volta l’opportunità di proporre l’istanza di punizione, essendo per contro necessario, affinchè una querela possa ritenersi priva di effetto, che costui dia la prova di un assunto di tal genere.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ove si voglia sollevare una eccezione di questo genere.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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