(Riferimento normativo: C.p.p. art. 521).
Il fatto
Il GM del Tribunale di Torino, con sentenza del 21/3/2018, all’esito di giudizio abbreviato conseguente a procedimento per direttissima, condannava A. M., riconosciutele le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti e recidiva, alla pena, già così ridotta per il rito, di mesi otto di reclusione ed euro quattrocento di multa per il reato continuato di cui agli artt.
81 cpv, 624, 625 nn. 2 e 7 cod. peli. perché, con più azioni esecutive, del medesimo disegno criminoso e al fine di trarne profitto, si impossessava di due mazzi di chiavi appartenenti a T. E., infermiera presso il reparto di Pediatria dell’Ospedale di …, che le deteneva inserite nella toppa della serratura della porta del proprio ambulatorio, e l’altro a S. P., che le deteneva in qualità di caposala del predetto reparto all’interno della serratura della porta, dell’antibagno annesso allo stesso, nonché di un borsello in pelle blu contenente varie monete, sottraendo tali ultimi beni a C. R., medico ospedaliero, in servizio al pari delle persone suddette preso l’Ospedale di … che li deteneva all’interno dell’armadietto chiuso a chiave lei assegnato nel locale spogliatoio medici di detto nosocomio.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Ricorreva per saltum ex artt. 569, 608 co. 1 e 4 in riferimento all’ art. 569 cod. proc. pen. il PG presso la Corte di Appello di Torino chiedendo annullarsi la sentenza impugnata per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 521 co. 1 cod. proc. pen. avendo a suo avviso il Tribunale torinese omesso di riqualificare il fatto, erroneamente ricondotto nella contestazione alla fattispecie di cui all’art. 624 cod. pen., quale violazione dell’art. 624 bis cod. pen., con conseguente errore nella pena irrogata e nel bilanciamento delle circostanze.
Tra le argomentazioni ivi addotte, il PG ricorrente ricordava essere pacifico, per giurisprudenza costante che si debba intendere luogo di privata dimora qualsiasi luogo, non aperto al pubblico, nel quale la persona compia, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata nel senso che è stato costantemente ritenuto luogo di privata dimora il locale spogliatoio.
Sosteneva altresì il PG ricorrente che i locali magazzino, in generale, essendo luoghi di lavoro non accessibili al pubblico, ed il bagno e l’antibagno connessi ai magazzino, in particolare, essendo riservati solo al personale, rientrano nel concetto di privata dimora così come precisato dalla giurisprudenza.
Oltre a ciò, si evidenziava che il Tribunale, pur giudicando con il rito abbreviato, avrebbe dovuto riqualificare il fatto ex art. 521 cod. proc. pen. avendo chiarito Sez. 6 n. 9213 del 26/09/1996, omissis, Rv. 206207 che il potere del giudice di dare in sentenza al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, previsto dall’art. 521, comma primo, cod. proc. pen., è esercitabile anche con la sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato non rilevando che in tale rito non sia applicabile, per l’esclusione fattane dall’art. 441, cod. proc. pen., l’art. 423 cod. proc. pen. in quanto tale ultima norma prevede soltanto la facoltà del pubblico ministero di modificare l’imputazione procedendo alla relativa contestazione, non avendo nulla a che vedere con l’autonomo ed esclusivo potere-dovere del giudice di dare al fatto una diversa definizione giuridica, contemplato dall’art. 521, comma primo, cod. proc. pen., applicabile, benché non specificamente richiamato in sede di giudizio abbreviato.
Con la riqualificazione del fatto si sarebbe dunque dovuto procedere ad una quantificazione della pena sulla base del minimo di armi 3 di reclusione ed E. 997 di multa e non si sarebbe potuto effettuare il bilanciamento delle circostanze ma operare il doppio computo ex art. 624 bis comma 4 cod. proc. pen..
Si chiedeva pertanto che venisse annullata con rinvio la sentenza impugnata.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
La Cassazione accoglieva il ricorso proposto alla luce delle seguenti considerazioni.
Si osservava prima di tutto come fosse fondata la censura inerente la violazione di legge laddove il giudice di merito non aveva ritenuto che i fatti contestati andassero sanzionati ai sensi dell’art. 624 bis cod. pen., e ciò in quanto le Sezioni Unite avevano chiarito che, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (Sez. Un. n. 31345 del 23/3/2017, omissis, Rv. 270076) rilevandosi al contempo come questo arresto giurisprudenziale fosse stata confermato successivamente anche da parte delle Sezioni semplici.
Orbene, dopo aver esaminato siffatte pronunce, gli ermellini rilevavano come, applicando il principio di diritto di cui alte SS.UU. D’Amico al caso in questione, fosse fondata la doglianza secondo si sarebbe dovuto riqualificare il fatto ai sensi dell’art. 521 co. 1 cod. proc. pen. con riferimento all’art. 624 bis cod. pen. aggravato ex art. 625 co. 2 cod. pen. dalla violenza sulle cose in quanto, pur essendosi proceduto con il rito abbreviato, il potere del giudice di dare in sentenza al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, previsto dall’art. 521, comma primo, cod. proc. pen., è esercitabile anche con la sentenza emessa a seguito di questo rito speciale.
In particolare, ad avviso della Corte, il giudice di primo grado ben avrebbe potuto condannare l’imputata per il più grave reato di cui all’art. 624 bis cod. proc. pen. in quanto il fatto cristallizzato nell’imputazione è quello indipendentemente dal mancato riferimento alla norma in questione.
Difatti, una volta fatto presente che la giurisprudenza della Corte di legittimità è costante nell’affermare che per “fatto nuovo“, regolato dall’art. 518 cod. proc. pen., si intende un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, ossia un episodio storico che non si sostituisce ad esso, ma che eventualmente vi si aggiunge, affiancandolo quale autonomo thema decidendi, trattandosi di un accadimento naturalisticamente e giuridicamente autonomo mentre il “fatto diverso“, cui si riferisce il secondo comma dell’art. 521 cod. proc. pen., è, invece, non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una correlativa puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato e una volta dedotto che, anche per il giudice delle leggi, l’operazione di rivalutazione che il giudice può compiere, senza far scattare il precetto del comma 2 dell’art. 521 cod. proc. pen., è soltanto quella che non va a modificare né l’elemento oggettivo del reato (condotta, evento e nesso causale) né quello soggettivo; o, quantomeno, che non va a stravolgere detti elementi, rendendoli incompatibili rispetto ad un effettivo esercizio del diritto di difesa, i giudici di piazza Cavour giungevano alla conclusione secondo cui sussiste diversità del fatto e perciò, in caso di condanna, si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, se il fatto contestato sia mutato nei suoi elementi essenziali così da provocare una situazione di incertezza e di cambiamento sostanziale della fisionomia dell’ipotesi accusatoria capace di impedire o menomare il diritto di difesa dell’imputato (Sez. 6, n. 6346 del 09/11/2012, dep. il 2013, omissis, Rv. 254888) occorrendo quindi una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa che nel caso di specie non c’era stata fermo restando che in ogni caso l’indagine volta ad accertare la violazione del principio non si esaurisce nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vedendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (cfr. Sez. Un. n. 36551 del 15/07/2010, omissis, Rv. 248051; Sez. Un. n. 16 del 19/06/1996, omissis Rv. 205619).
Posto ciò, un altro tema affrontato dal Supremo Consesso in questa decisione riguardava il fatto se sia ammissibile che il giudice di primo grado, una volta ritiratosi in camera di consiglio, possa uscirne con una decisione, per certi versi, “a sorpresa” rispetto alla qualificazione giuridica di quel fatto che era stata data in imputazione.
Ebbene, ad avviso della Corte, la risposta è positiva sulla base di una corretta interpretazione del principio costituzionale di cui all’art. 111, comma 3, della Costituzione che si giova delle sentenze della Corte E.D.U. nel caso Drassich contro Italia Sez. 2 dell’11/12/2007 e Sez. 1 del 24/2/2018, dalla dottrina comunemente indicate come sentenze “Drassich 1” e “Drassich 2”.
Una volta illustrate le vicende giudiziarie che hanno contrassegnato questi procedimenti penali, la Cassazione rilevava in particolare, che l’art. 111, comma 3, della Costituzione che costituisce la trasposizione, pressoché letterale, della corrispondente disposizione contenuta nell’art. 6, comma 3, lett. a), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, secondo cui “ogni accusato ha più specificamente diritto a: a) essere informato (..) in un modo dettagliato della natura e dei motivi della accusa elevata a suo carico» dunque, sancisce il diritto della persona accusata di un reato a essere informata (..) della natura e dei motivi della accusa” e che l’inequivocabile tenore della sua formulazione, secondo il diritto vivente, alla luce delle pronunce della Corte E.D.U. sopra ricordate, porta ad escludere che tale informazione possa essere limitata ai meri elementi fattuali posti a fondamento della accusa e ad imporre, invece, anche l’enunciazione della qualificazione giuridica dei fatti addebitati, che necessariamente concorre a definirne la “natura” dell’addebito alla quale l’ordinamento riconnette, in esito all’accertamento giudiziario, le conseguenze sanzionatorie atteso che, ad avviso della Corte, solo così, infatti, è assicurata, nella sua interezza, la possibilità di effettivo esercizio del diritto di difesa nel “giusto processo” attraverso il quale si attua la giurisdizione.
Oltre a ciò, si deduceva altresì come il diritto alla informazione in ordine alla “natura della accusa” che, in rapporto alla evoluzione del procedimento nella fase processuale, si traduce nel diritto alla contestazione della “imputazione” vera e propria, consistente nella “enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge” (art. 405 cod. proc. pen.; art. 417 cod. proc. pen., comma 1, lett. b); art. 429 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), debba essere correlato al potere del giudice, previsto dall’art. 521 c.p.p, comma 1, “di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella contenuta nel capo di imputazione” evidenziandosi al contempo come tale contemperamento sia certamente possibile attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 521 cod. proc. pen., comma 1 la quale condizioni l’esercizio del potere di una diversa qualificazione giuridica alla preventiva instaurazione ad opera del giudice del contraddittorio tra le parti sulla quaestio iuris relativa oppure alla possibilità che tale contraddittorio sia instaurato anche in un grado successivo.
Chiarito ciò, i giudici di legittimità ordinaria mettevano in risalto il fatto che la stessa Suprema Corte avesse nel corso degli anni conformato la sua giurisprudenza ai principi di cui alle pronunce della Corte E.D.U. nel caso Drassich precisando che, nel giudizio di legittimità, il potere della Corte di attribuire una diversa qualificazione giuridica ai fatti accertati non può avvenire con atto a sorpresa e con pregiudizio del diritto di difesa imponendosi, per contro, la comunicazione alle parti del diverso inquadramento prospettabile con concessione di un termine a difesa (così Sez. 6, n. 3716 del 24/11/2015 – dep. il 2016, omissis, Rv. 266953; conf. Sez. 4, n. 2340 del 29/11/2017 dep. il 2018, omissis, Rv. 271758; Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017 dep. il 2018, omissis, Rv. 272263) mentre, in altro caso, i giudici di legittimità avevano ravvisato la violazione irrimediabile del diritto di difesa considerato che, anche alla luce dei vincoli posti dalla giurisprudenza della Corte EDU, è diritto dell’imputato essere informato tempestivamente e dettagliatamente tanto dei fatti materiali posti a suo carico, quanto della qualificazione giuridica ad essi attribuiti (Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, omissis, Rv. 260209).
Si prendeva dunque atto, alla luce di questi approdi ermeneutici, come la giurisprudenza elaborata in sede nomofilattica avesse dunque in varie prospettive circoscritto la portata del principio e della regola di sistema espressa dalla Corte europea dei diritti con la sentenza Drassich 1 rifuggendo un’interpretazione meramente formalistica ed andando a ritenerlo applicabile a quei soli casi in cui, effettivamente, l’imputato non avesse avuto modo di rielaborare la propria linea difensiva.
Tal che se ne faceva conseguire come costituisse pertanto ius receptum il principio che non sussiste violazione del diritto al contraddittorio quando l’imputato abbia avuto modo di interloquire in ordine alla nuova qualificazione giuridica attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione, non solo davanti al giudice di secondo grado, ma anche davanti al giudice di legittimità (Sez. 6, n. 10093 del 14/02/2012, omissis, Rv. 251961; Sez. 2, n. 32840 del 09/05/2012, omissis, Rv. 253267; Sez. 5, n. 7984 del 24/09/2012 15 19/02/2013, omissis, Rv. 254649; Sez. 3, n. 2341 del 07/11/2012 – 17/01/2013, omissis, Rv. 254135; Sez. 2, n. 45795 del 13/11/2012, omissis, Rv. 254357) e, in tale prospettiva, era stato perciò ritenuto come la diversa qualificazione del fatto effettuata dal giudice di appello non determinasse alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio perché l’imputato può contestarla nel merito con il ricorso per cassazione (Sez. 2, n. 17782 del 11/04/2014, omissis, Rv. 259564; Sez. 5, n. 19380 del 12/02/2018, omissis, Rv. 273204) evidenziandosi a tal proposito che, in un caso simile a quello trattato dalla Cassazione in siffatta pronuncia, si era concluso nel senso che il diritto al contraddittorio, in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l’imputato è chiamato a rispondere, sancito dall’art. 111, comma terzo, Cost. e dall’art. 6 CEDU, comma primo e terzo, lett. a) e b), così come interpretato nella sentenza della Corte EDU nel proc. Drassich c. Italia, è garantito anche quando il giudice di primo grado provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l’imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo impugnazione (Sez. 3, n. 2341 del 07/11/2012 – dep. il 2013, omissis, Rv. 254135).
Per quanto invece attiene la riqualificazione giuridica del fatto dinanzi alla Corte di Cassazione, secondo il Supremo Consesso, l’unico limite è rappresentato dal fatto che la stessa non può avvenire “a sorpresa“, all’atto della deliberazione, occorrendo che le parti siano poste in grado di interloquire – e soprattutto la difesa di spiegare appieno le proprie strategie difensive – in ordine alla possibilità di una diversa qualificazione giuridica a nulla rilevando il fatto che i limiti del giudizio di legittimità non consentirebbero l’esercizio di un’adeguata attività difensiva posto che la questione della qualificazione giuridica del fatto (e non dell’accertamento materiale dello stesso) rientra fra i casi tipici del ricorso per cassazione (art. 606, lett. b, cod. proc. pen.) può essere adeguatamente discussa anche in ultima istanza essendo stato ormai ampiamente superato l’orientamento, già minoritario, espresso in tre sentenze della Suprema Corte (Sez. 1, n. 18590 del 29/04/2011, omissis, Rv. 250275; Sez. 6, n. 20500 del 19/02/2010, omissis, Rv. 247371; Sez. 5, n. 6487 del 28/10/2011 dep. il 2012, omissis, Rv. 251730) le quali avevano ritenuto configurabile una nullità a seguito della riqualificazione dell’imputazione operata in sentenza senza il previo contraddittorio.
Tal che, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, gli ermellini addivenivano a formulare i principi di diritto secondo i quali, immutato il fatto in contestazione, il giudice può dare in sentenza una diversa qualificazione giuridica allo stesso: 1. senza alcuna preventiva informazione alle parti, sia in primo grado che in appello, potendo le difese in ordine alla diversa qualificazione giuridica essere pienamente dispiegate nei successivi gradi di giudizio, quindi, rispettivamente, dinanzi al giudice di appello o a quello di legittimità; 2. nel giudizio in cassazione, sempreché le parti siano state rese edotte della possibilità di diversa qualificazione giuridica o direttamente vertendo sulla stessa l’atto di impugnazione oppure attraverso un’informativa, anche orale, alle stesse, da parte del PG in sede di requisitoria o anche da parte del Collegio prima della discussione.
Una volta formulati tali criteri ermeneutici, i giudici di piazza Cavour osservavano come nel caso di specie il fatto fosse rimasto immutato in tutti i suoi elementi e il giudice di merito ben avrebbe potuto modificarne la qualificazione giuridica, inquadrandolo,del tutto correttamente, nella fattispecie incriminatrice dell’art. 624 bis cod. pen. aggravato dalla violenza sulle cose in luogo di quella dell’art. 624, 625 n. 2 e 7 cod. pen. vertendosi in un caso di mera riqualificazione giuridica della fattispecie nell’esercizio del potere del giudice di applicare la norma di diritto al fatto sottopostogli (narra mihi factum, dabo tibi ius) e il diritto di difesa rispetto alla nuova qualificazione giuridica sarebbe stato pienamente garantito alla M. nei successivi gradi di giudizio.
Si faceva però al contempo presente che tale diversa qualificazione giuridica, tuttavia, ben potesse essere operata dalla Cassazione in ragione del fatto che, secondo i principi affermati dalla Corte E.D.U. nella più volte richiamata pronuncia del 22/2/2018 Drassich 2, la difesa dell’imputata, dal ricorso per cassazione del PG di Torino del 28/5/2018 alla data della udienza e della decisione (28/3/2019), com’era accaduto nel caso analizzato dalla Corte di Strasburgo per il ricorso ex art. 625 bis cod. pen. del Drassich, avrebbe avuto tutto il tempo per articolare le proprie difese in relazione alla richiesta di riqualificazione dei fatti come furto in abitazione aggravato dalla violenza sulle cose su cui era imperniata l’impugnazione della parte pubblica mentre, per una sua legittima scelta processuale, la difesa aveva deciso di non presentare memorie e nemmeno di comparire in udienza pur essendogli stato garantito il contraddittorio.
Da ciò se ne faceva conseguire l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Torino.
Conclusioni
La sentenza in questione chiarisce che, immutato il fatto in contestazione, il giudice può dare in sentenza una diversa qualificazione giuridica allo stesso: 1) senza alcuna preventiva informazione alle parti, sia in primo grado che in appello, potendo le difese in ordine alla diversa qualificazione giuridica essere pienamente dispiegate nei successivi gradi di giudizio, quindi, rispettivamente, dinanzi al giudice di appello o a quello di legittimità; 2) nel giudizio in cassazione, sempreché le parti siano state rese edotte della possibilità di diversa qualificazione giuridica o direttamente vertendo sulla stessa l’atto di impugnazione oppure attraverso un’informativa, anche orale, alle stesse, da parte del PG in sede di requisitoria o anche da parte del Collegio prima della discussione.
Difatti, la Cassazione, avvalendosi anche di una precedente giurisprudenza formatasi sul punto, ha ritenuto come non sia leso il diritto di difesa essendo questo garantito, nel primo e nel secondo grado di giudizio, attraverso l’impugnazione, e, nel giudizio in cassazione, non solo attraverso l’impugnazione, ma anche attraverso una informativa resa dalla Procura generale in sede di requisitoria purchè ciò avvenga prima della discussione.
Questa decisione, di conseguenza, deve essere presa nella dovuta considerazione ogniqualvolta si verifichi una situazione processuale analoga a quella trattata in tale provvedimento.
Pertanto, colui, che dissente sulla diversa qualificazione giuridica data dal giudice in sentenza, può contestarla o attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione, o, in sede di legittimità, attraverso le facoltà processuali a lui riconosciute che lo mettano in condizione di fare ciò (come può essere, ad esempio, il deposito di una memoria difensiva).
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