Nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari coercitive la persona detenuta o internata ovvero sottoposta a misura in concreto limitativa della possibilità di partecipare all’udienza camerale può esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza stessa solo se ne ha fatto richiesta

(Ricorso dichiarato inammissibile)

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 309)

Il fatto

Il Tribunale del riesame di Napoli sostituiva con la misura degli arresti domiciliari con “braccialetto elettronico” la misura cautelare della custodia in carcere applicata dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Torre Annunziata in relazione all’imputazione provvisoria di partecipazione ad un’associazione per delinquere finalizzata al reato di corruzione elettorale ex D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, art. 86.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questo provvedimento, per il tramite del difensore, veniva proposto ricorso per cassazione articolando tre motivi così enunciati: 1) nullità dell’ordinanza impugnata: premesso che in data 23 aprile 2019 un detenuto aveva presentato una richiesta di partecipazione all’udienza camerale dinanzi al Tribunale del riesame e che la richiesta era stata rigettata in quanto non proposta contestualmente all’istanza di riesame, si sosteneva che l’art. 309 c.p.p., comma 6, prevede che l’imputato può, e non deve, chiedere di comparire personalmente con l’istanza di riesame sicché la richiesta doveva ritenersi tempestiva anche alla luce di un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità; 2) illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell’art. 309 c.p.p., commi 6 e 8-bis, se interpretati nel senso contrario a quello sostenuto con il primo motivo; 3) violazione di legge e vizio di motivazione sostenendosi, in un quadro di diffusi riferimenti alla giurisprudenza di legittimità in materia, come non fossero emersi il ruolo e il contributo dell’indagato nel sodalizio, nè la sua consapevolezza della partecipazione ad un’associazione; il ricorrente, inoltre, richiamava alcuni passaggi di intercettazioni telefoniche di conversazioni tra lo stesso istante ed un coindagato (S.), che avrebbero dimostrato l’estraneità del primo all’associazione essendo egli mosso da fini esclusivamente personali.

La richiesta formulata dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione

Con memoria il Sostituto Procuratore Generale aveva concluso per l’infondatezza del ricorso condividendo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari personali, il soggetto sottoposto a misura privativa o limitativa della libertà personale, che intenda esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza camerale ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 8-bis, deve formularne istanza, personalmente o a mezzo del difensore, nella richiesta di riesame.

L’ordinanza di rimessione

Investita della cognizione del ricorso, la Quinta Sezione penale lo rimetteva alle Sezioni Unite ravvisando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione posta con il primo motivo.

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Si osservava in via preliminare come, successivamente alla presentazione del ricorso, l’imputato, condannato a pena condizionalmente sospesa, fosse stato rimesso in libertà sicché il ricorso doveva, per la Corte, essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta mancanza di interesse in difetto di una specifica e motivata deduzione circa un perdurante interesse all’impugnazione (Sez. U, n. 7931 del 16/12/2010).

Premesso ciò, poiché la causa di inammissibilità era sopravvenuta al ricorso, le Sezioni unite, a norma dell’art. 618 c.p.p., comma 1-ter, ritenevano comunque di affrontare la questione di diritto in relazione alla quale il ricorso era stato ad esse rimesso che veniva sintetizzata nei seguenti termini: se, nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari personali, il soggetto sottoposto alla misura, che intenda esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza camerale ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 8-bis, debba formularne istanza nella richiesta di riesame oppure possa presentare la richiesta anche non contestualmente ad essa, ma comunque in tempo utile, per consentire di organizzare la tempestiva traduzione ai fini del regolare svolgimento del procedimento.

Orbene, veniva a tal proposito fatto presente che la questione si doveva porre in relazione alle modifiche apportate all’art. 309 c.p.p. dalla L. 16 aprile 2015, n. 47, art. 11.

Difatti, prima della novella, la disciplina della partecipazione all’udienza di riesame dell’imputato detenuto che ne avesse fatto richiesta era affidata all’art. 309 c.p.p., comma 6, e al rinvio operato dall’art. 309, comma 8, c.p.p. al procedimento in camera di consiglio ex art. 127, il cui comma 3 stabilisce che “se l’interessato è detenuto o internato in un luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice e ne fa richiesta, deve essere sentito prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo”.

Ebbene, ad avviso del Supremo Consesso, per un miglior inquadramento della questione rimessa alla cognizione delle Sezioni unite, era opportuno richiamare, sia pure a grandi linee, i diversi orientamenti formatisi nella giurisprudenza di legittimità – anche alla luce della giurisprudenza costituzionale – in relazione alla disciplina previgente.

Ciò posto, si evidenziava a tal riguardo come le Sez. U, n. 40 del 22/11/1995, avessero affermato, per un verso, che la mancata traduzione, perché non disposta o non eseguita, dell’imputato, indagato o condannato che ne abbia fatto richiesta, all’udienza di riesame determina la nullità assoluta e insanabile, a norma dell’art. 179 c.p.p., dell’udienza camerale e della successiva pronuncia del Tribunale sull’istanza di riesame e, per altro verso, che la nullità di tale ordinanza non comporta la cessazione di efficacia della misura coercitiva disposta e dunque questa pronuncia aveva avuto modo di sottolineare come la questione si ponesse negli stessi termini per l’indagato detenuto nell’ambito o fuori della circoscrizione del Tribunale dopo l’interpretazione dell’art. 127 c.p.p. offerta dalla sentenza n. 45 del 1991 della Corte costituzionale secondo cui, in tale seconda ipotesi, il giudice del riesame è tenuto ad assicurare la presenza dell’interessato dinanzi a sé qualora questi ne faccia specifica richiesta.

Si osservava ancora in questo arresto giurisprudenziale che la sentenza n. 45 del 1991 della Corte costituzionale, insieme con la sentenza n. 98 del 1982 sempre del giudice delle leggi, attribuisce “un rilievo decisivo, ai fini della corretta applicazione dell’art. 24 Cost., comma 2, e della conseguente interpretazione della legge conforme a tale norma, alla presenza all’udienza camerale dell’imputato detenuto che abbia manifestato espressamente la volontà di comparire in quanto unico mezzo idoneo a consentirgli di esprimere le sue ragioni, in special modo quando queste vertono su questioni di fatto” così come un’analoga valorizzazione delle indicazioni interpretative offerte dalla sentenza n. 45 del 1991 della Corte costituzionale si rinviene in una successiva pronuncia delle Sezioni unite, ossia in Sez. U, n. 9 del 25/03/1998, secondo cui l’indagato, detenuto in luogo esterno al circondario ove ha sede il tribunale competente a decidere, ha diritto alla traduzione per essere sentito davanti al magistrato di sorveglianza o a quello del riesame a condizione che vi sia stata una sua esplicita richiesta in questo senso pur se l’indicazione di tale diritto nell’avviso di udienza non è prevista da alcuna disposizione, nè la sua omissione può integrare alcuna nullità.
Sul tema della partecipazione dell’imputato all’udienza camerale di cui all’art. 127 c.p.p., erano inoltre intervenute le Sez. U, n. 35399 del 24/06/2010, concernente, in particolare, la partecipazione al giudizio camerale di appello ex art. 599 c.p.p., ma contenente anche indicazioni di portata più generale.

Richiamate la sentenza n. 45 del 1991 della Corte costituzionale e la sentenza del 1995 (richiamata già in precedenza) gli Ermellini evidenziavano inoltre come le Sezioni unite n. 35399 del 2010 escludessero, ai fini della partecipazione, la necessità che l’imputato sia ristretto nel medesimo distretto della corte d’appello sicché “l’imputato detenuto o soggetto a misure limitative della libertà, che manifesti in qualsiasi modo e tempestivamente la volontà di comparire, ha diritto di presenziare al giudizio camerale di appello avverso la sentenza pronunciata in giudizio abbreviato anche qualora sia ristretto in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice procedente” sottolineando altresì che un’interpretazione, in virtù della quale si escluda l’applicabilità del rigido e prefissato termine previsto dall’art. 127 c.p.p., comma 2, “garantisce maggiormente il soddisfacimento della volontà dell’imputato di partecipare all’udienza” ed appare pertanto più conforme ai principi costituzionali e di diritto internazionale pattizio.

Al problema della tempistica della richiesta di partecipazione all’udienza camerale, la sentenza n. 35399 del 2010 a sua volta dedicava particolare attenzione.

In particolare, si denotava che, a differenza del giudizio ordinario, nel giudizio camerale di appello “l’imputato detenuto ha l’onere di comunicare al giudice di appello la sua volontà di comparire” e il diritto alla partecipazione è correlato alla regolarità e alla tempestività dell’adempimento ossia alla circostanza che “la comunicazione sia fatta con modalità tali da permettere la traduzione dell’imputato per l’udienza”, non potendosi prescindere da un “bilanciamento tra il diritto fondamentale dell’imputato di essere presente e la necessità di rispettare le caratteristiche di snellezza e celerità del rito prescelto dal medesimo imputato e di assicurare che la durata del processo non sia irragionevolmente e senza necessità prolungata per effetto di condotte dell’imputato maliziose o non giustificate”.

Le indicazioni delle Sezioni unite e quelle della Corte costituzionale, tuttavia, rammentavano le Sezioni Unite, non avevano fugato tutti i dubbi sulla questione tanto che, ancora in epoca prossima all’introduzione della L. n. 47 del 2015, permaneva un contrasto circa la riconoscibilità – e in quali termini – del diritto dell’imputato detenuto fuori dalla circoscrizione del giudice a partecipare all’udienza di riesame.

Difatti, l’indirizzo maggioritario propendeva per il riconoscimento di tale diritto dato che, anche alla stregua dei principi affermati dalla già richiamata sentenza n. 45 del 1991 della Corte costituzionale, l’orientamento in esame sottolinea come “qualora l’interessato, detenuto o internato in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice, avanzi richiesta di essere sentito personalmente, il giudice sia vincolato, a pena di nullità, a disporne la traduzione davanti a sé, senza possibilità di alcuna valutazione discrezionale” (Sez. 2, n. 1099 del 04/12/2006) ferma restando la condizione che “la sollecitazione dell’indagato detenuto fuori dalla circoscrizione del giudice sia tempestiva in relazione al momento in cui lo stesso ha ricevuto la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza” (Sez. 6, n. 44415 del 17/10/2013; conf. Sez. 5, n. 37034 del 27/09/2006): tempestività correlata alla ragionevole immediatezza della ricezione della notificazione dell’avviso della data fissata per l’udienza camerale dinanzi al tribunale del riesame (Sez. 6, n. 42710 del 04/10/2011, omissis, Rv. 251277; Sez. 2, n. 20883 del 30/04/2013) e, al riguardo, metteva conto rimarcare che, secondo l’impostazione di alcune decisioni, la necessità di un’istanza “tempestiva” per la partecipazione all’udienza di riesame era riferita a tutti gli imputati e non solo a quelli detenuti fuori circoscrizione: “nell’ipotesi in cui l’imputato detenuto, in qualunque istituto si trovi ristretto e dunque anche al di fuori della circoscrizione del giudice che procede, manifesti tempestivamente la volontà di comparire nel giudizio camerale di riesame disciplinato dagli artt. 127 e 309 c.p.p., ne (deve) essere disposta la traduzione ed assicurata la possibilità di presenziare all’udienza (…), a pena di nullità assoluta ed insanabile” (Sez. 2, n. 42158 del 06/11/2002).

In una diversa prospettiva, invece, si era sostenuto che l’indagato detenuto in luogo esterno alla circoscrizione del giudice non ha il diritto di essere sentito all’udienza fissata per il riesame della misura cui è stato sottoposto ma solo il diritto ad essere sentito dal magistrato di sorveglianza (Sez. 4, n. 39834 del 12/07/2007; conf. Sez. 2, n. 24245 del 25/02/2004): audizione, questa dinanzi al magistrato di sorveglianza, sostitutiva dell’intervento in udienza (Sez. 4, n. 26993 del 29/05/2013).

Una prospettiva parzialmente diversa, a sua volta, riconosceva sì all’imputato il diritto di presenziare all’udienza di riesame ma ne condizionava l’esercizio ad un duplice dato “contenutistico” correlato alla volontà di rendere dichiarazioni e all’oggetto delle stesse: esclusa l’esistenza di “un diritto pieno ed indiscutibile dell’interessato, detenuto in un luogo esterno al circondario, ad essere sentito nell’udienza camerale fissata per il riesame della misura cautelare proprio dal Giudice del riesame, poiché la regola generale prevista dall’art. 127 c.p.p., comma 3, è quella dell’audizione, a richiesta, da parte del Giudice di Sorveglianza”, si era rimarcato che detta regola “può, anzi deve essere disattesa quando l’indagato voglia interloquire per contestare le risultanze probatorie ed indicare – anche con la produzione di documenti – circostanze a lui favorevoli avendo egli diritto di esplicare quelle attività che non possono essere adeguatamente ed efficacemente svolte davanti al Giudice di Sorveglianza delegato” (Sez. 2, n. 29602 del 27/06/2006) ossia quando vengano in rilievo “ipotesi nelle quali sono prese in esame questioni di fatto concernenti la condotta dell’interessato, ovvero quando costui voglia contestare le risultanze probatorie ed indicare eventualmente circostanze a lui favorevoli, restando invece ferma la facoltà del giudice di disattendere richieste di audizione formulate genericamente o a fini puramente defatigatori” (Sez. 6, n. 15717 del 04/02/2003; Sez. 2, n. 6023 del 05/11/2014).

Ciò posto, terminato questo excursus ermeneutico, si osservava come la L. 16 aprile 2015, n. 47, art. 11, avesse apportato varie modifiche alla disciplina dettata dall’art. 309 c.p.p., modifiche volte, ad uno sguardo complessivo, a rafforzare la tutela dei tempi prescritti dal codice per la definizione del procedimento di riesame e, allo stesso tempo, a consentire all’imputato di fruire di un maggior periodo di tempo per preparare la propria difesa.

Ai due termini alla cui inosservanza è associata l’inefficacia della misura cautelare applicata (quello della trasmissione degli atti entro cinque giorni dalla richiesta e quello della decisione entro dieci giorni dalla ricezione), la novella del 2015, difatti, ha aggiunto un ulteriore termine – quello del deposito dell’ordinanza (entro trenta giorni, prorogabile fino a quarantacinque) – per la cui inosservanza è pure comminata la perdita di efficacia della misura.

Comminatorie di inefficacia, quelle previste dalla prima parte dell’art. 309 c.p.p., comma 10, rafforzate dalla novella di cui alla L. n. 47 del 2015 attraverso la previsione che, in tali casi, la misura coercitiva può essere rinnovata solo in presenza di eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate.

Inoltre, ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 9-bis introdotto dalla L. n. 47 del 2015, art. 11, l’imputato, entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, può chiedere, personalmente, il differimento della data di udienza, differimento che il tribunale dispone da un minimo di cinque ad un massimo di 10 giorni qualora dall’istanza emergano giustificati motivi.

Il differimento della data di udienza comporta il corrispondente differimento del termine per la decisione e di quello per il deposito (art. 309 c.p.p., comma 9-bis, ultimo periodo).

Le ulteriori innovazioni introdotte dalla L. n. 47 del 2015, art. 11, dal canto loro, chiamano immediatamente in causa la questione controversa all’esame delle Sezioni unite: l’art. 11, comma 1 ha aggiunto alla fine del primo periodo dell’art. 309 c.p.p., comma 6 le parole “e l’imputato può chiedere di comparire personalmente” mentre sempre il cit. art. 11., comma 2, ha aggiunto alla fine dell’art. 309, comma 8 bis, il periodo “L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente”.

Orbene, tali modifiche riprendono le proposte avanzate dalla Commissione per elaborare proposte di interventi in tema di processo penale istituita con D.M. 10 giugno 2013 (cd. “Commissione Canzio“) la quale ne aveva indicato la ratio rilevando che “nei commi 6 e 8-bis è stato previsto il diritto dell’imputato di comparire personalmente, oggi rimesso alla discrezionalità del giudice secondo l’art. 127, talvolta ancora interpretato, anche dopo l’intervento della Corte costituzionale, nel senso che la richiesta dell’imputato non sia vincolante”.

Se, dunque, osservavano le Sezioni Unite, la ragione ispiratrice delle modifiche era ricollegata alle divergenze giurisprudenziali sopra richiamate, i primi commenti dottrinali le salutarono come foriere del superamento di tali divergenze; auspicio che, però, non si era realizzato posto che sulla nuova disciplina era sorto il contrasto tra i due orientamenti richiamati nell’ordinanza di rimessione.

Nel dettaglio, il primo, di gran lunga maggioritario, orientamento propende per la tesi secondo cui, nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari personali, per effetto della modifica dell’art. 309 c.p.p., commi 6 e 8-bis, operata dalla L. n. 47 del 2015, il soggetto sottoposto a misura privativa o limitativa della libertà personale può esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza camerale solo se ne ha fatto richiesta, anche per il tramite del difensore, nell’istanza di riesame, mentre non sono più applicabili le disposizioni di cui all’art. 127 c.p.p., comma 3 e art. 101 disp. att. c.p.p. che prevedono il diritto dell’interessato detenuto o internato fuori dal circondario ad essere sentito dal magistrato di sorveglianza (Sez. 2, n. 13707 del 11/03/2016; ex plurimis, Sez. 5, n. 34181 del 26/06/2019; Sez. 3, n. 16785 del 19/02/2019; Sez. 6, n. 43296 del 03/07/2018; Sez. 6, n. 35939 del 14/06/2017; Sez. 1, n. 31400 del 11/04/2017 nonché Sez. 6, n. 54048 del 03/10/2017 ove si sottolinea che la richiesta di comparizione personale ai sensi dell’art. 309 c.p.p., commi 6 e 8-bis può essere presentata anche dal difensore con la richiesta di riesame).

Le modifiche introdotte dalla L. n. 47 del 2015, infatti, sono volte ad “affermare, in modo inequivoco, il diritto del ricorrente di comparire all’udienza camerale fissata per la trattazione, anche se eventualmente detenuto fuori distretto” mentre la possibilità di esercitare tale diritto “risulta strettamente correlata, per l’impugnante detenuto o internato, alla formulazione della richiesta nell’atto di riesame”: invero, dall’”inequivoco significato letterale delle disposizioni in commento” discende che esse “subordinano il “diritto di comparire personalmente” attribuito all’”imputato” – espressione, quest’ultima, che, ovviamente, va intesa estensivamente ricomprendendovi anche l’”indagato”, ai sensi dell’art. 61 c.p.p., comma 1, – all’adempimento/condizione di averne fatto richiesta “ai sensi del comma 6”, ovvero contestualmente alla istanza di riesame (“Con la richiesta di riesame… l’imputato può chiedere di comparire personalmente”)” mentre, ad “opinare diversamente, disancorando, quindi, il diritto dell’interessato di comparire dalla previa “richiesta ai sensi del comma 6″, si finirebbe con il privare il comma 8-bis di un qualsivoglia ambito di pratica applicazione, facendo di detto comma una norma inutiliter data” (Sez. 1, n. 49882 del 06/10/2015; conf., ex plurimis, Sez. 6, n. 50211 del 05/10/2017; Sez. 2, n. 7997 del 01/02/2017; Sez. 4, n. 28596 del 25/05/2016; Sez. 1, n. 49284 del 17/03/2016).

Orbene, ad avviso della Suprema Corte, nell’impostazione del primo orientamento, se è pacifico anche per le decisioni riconducibili al secondo orientamento che “l’esercizio del diritto di presenziare resta comunque subordinato alla possibilità di garantire la presenza e perciò pur sempre condizionato da un limite temporale, non si vede per quale ragione non possa ritenersi ragionevole che il legislatore preveda tale limite in modo certo per ogni situazione, richiedendo un semplicissimo adempimento, di persona o del difensore, nello stesso momento della presentazione dell’istanza di riesame, senza che comunque da tale anticipazione possa poi derivare alcun pregiudizio, essendo manifestabile la rinunzia con ogni mezzo in ogni momento” (Sez. 1, n. 41935 del 19/07/2019).

Oltre a ciò, veniva fatto presente che, ai rilievi tesi a valorizzare il dato testuale delle disposizioni in questione, le decisioni riconducibili al primo orientamento associano una serie di argomenti di ordine sistematico.

In particolare, muovendo dalla considerazione della “struttura semplificata dell’impugnazione avverso i provvedimenti che dispongono vincoli cautelari personali”, struttura che “risponde all’esigenza di offrire una tutela immediata alle persone ristrette da vincoli che limitano la libertà personale, generando un diritto alla revisione tempestiva dell’ordinanza genetica”, si è sottolineato che “tale diritto deve essere tuttavia coniugato con il diritto alla partecipazione, declinazione del più generale diritto al contraddittorio nella dimensione dell’oralità, che trova la sua matrice sia nell’art. 111 della Carta costituzionale, che nell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti umani, la cui tutela nella cognizione cautelare è stata riconosciuta espressamente dalla Corte costituzionale” (con la citata sentenza n. 45 del 1991): in questa prospettiva, la novella legislativa, così come interpretata dal primo orientamento, realizza ex lege “un equilibrato bilanciamento tra la tutela del diritto alla partecipazione e quello alla celerità del procedimento incidentale di revisione dell’ordinanza cautelare”, che non necessita di “amplificazioni interpretative, essendo già coerente con le indicazioni costituzionali e convenzionali che richiedono anche la tutela del diritto di eguaglianza” (Sez. 2, n. 12854 del 15/01/2018; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 9976 del 20/12/2017) dato che, se la volontà dell’imputato detenuto di comparire personalmente non fosse sottoposta a decadenze e, dunque, potesse essere manifestata anche oltre il termine indicato dall’art. 309 c.p.p., comma 6, alla sola condizione che la traduzione non costituisca un pregiudizio per la celerità del procedimento di riesame, “l’effettiva tutela di un diritto fondamentale, come la partecipazione all’udienza, sarebbe affidato in via esclusiva alla capacità di organizzare in modo tempestivo la traduzione, ovvero ad una competenza amministrativa disomogenea nel territorio nazionale, e prevedibile fonte di diseguaglianze” mentre, al contrario, la previsione generale contenuta nell’art. 309, commi 6 e 8-bis, c.p.p. “garantisce una tutela omogenea del diritto fondamentale in questione”, assicurando l’equilibrata tutela del diritto alla partecipazione e di quello alla celerità del procedimento incidentale di revisione dell’ordinanza cautelare in linea con le previsioni costituzionali e convenzionali “che richiedono anche la tutela del diritto di eguaglianza” (Sez. 1, n. 30714 del 10/05/2019).

Nella prospettiva tesa a rimarcare l’articolarsi del procedimento di riesame secondo scansioni temporali rigidamente predeterminate dal legislatore, si è sottolineato per di più come la “peculiarità del procedimento de libertate (che esclude assimilazioni con altri procedimenti di tipo camerale), caratterizzato dai tempi stringenti della decisione” imponga “scansioni certe e prestabilite nell’interesse precipuo dello stesso soggetto sottoposto a cautela il cui obbiettivo primario è quello di giungere nella maniera più celere possibile al risultato finale”: ne consegue che la previsione di un termine, certo, quale quello ancorato alla richiesta di riesame si risolve, in definitiva, “in una garanzia di certezza e di effettività dell’esercizio del diritto medesimo di comparire” (Sez. 5, n. 34181 del 2019).

Superando le asimmetrie derivanti dal luogo di detenzione dell’imputato, l’assetto normativo prefigurato dalla L. n. 47 del 2015 “riconosce il diritto di partecipare all’udienza pieno ed identico per ogni indagato, senza differenze derivanti dal luogo della detenzione” (Sez. 4, n. 12998 del 23/02/2016; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017; Sez. 4, n. 45874 del 20/06/2017) oltre tutto dirimendo ogni incertezza ed “eliminando la relativa discrezionalità in capo ai giudici de libertate, in ordine alla individuazione della concreta nozione di “tempestività” (della richiesta di comparire)” attraverso l’ancoraggio del diritto del detenuto a comparire all’udienza di riesame “ad un dato obiettivo, certo e incontrovertibile – insuscettibile di interpretazioni “elastiche” e volto a prevenire eventuali atteggiamenti dilatori e/o di mera ostruzione – costituito dall’inserimento della richiesta di comparire nel corpo dell’istanza di riesame, che sia questa sottoscritta dall’interessato o dal suo difensore” (Sez. 1, n. 49882 del 2015).

Pertanto, la richiesta ai sensi dell’art. 309 c.p.p., commi 6 e 8-bis, se tempestivamente avanzata, “trasforma l’istante in un soggetto “a partecipazione necessaria” e genera in capo all’autorità procedente il correlato obbligo di traduzione, il mancato adempimento del quale produce la nullità assoluta ed insanabile dell’udienza camerale ai sensi degli artt. 178 e 179 c.p.p., restando impregiudicata l’efficacia della misura imposta” (Sez. 2, n. 12854 del 2018; conf. ex plurimis, Sez. 2, n. 363 del 30/10/2018).

Le decisioni ascrivibili al primo orientamento hanno infine affrontato il tema dei rapporti tra la disciplina introdotta dalla L. n. 47 del 2015 e quella anteriore, rappresentata dal rinvio dell’art. 309, comma 8, al procedimento in camera di consiglio ex art. 127 c.p.p., rilevando come non sia dubbio che, dopo l’introduzione dell’art. 309 c.p.p., commi 6 e 8-bis, “le disposizioni di cui all’art. 127 c.p.p., comma 3 e art. 101 disp. att. c.p.p., debbano intendersi non più applicabili all’udienza di riesame, in quanto, se lo fossero, comporterebbero una irragionevole “rimessione in termini” a beneficio esclusivo di chi è detenuto o internato in luogo posto fuori del circondario del Tribunale competente (Sez. 1, n. 49882 del 2015; conf., ex plurimis, Sez. 2, n. 13707 del 2016; Sez. 1, n. 30714 del 2019; Sez. 6, n. 46801 del 03/07/2018).

Il secondo orientamento, invece, propende per la tesi secondo cui il diritto della persona sottoposta a restrizione della libertà di partecipare all’udienza dinanzi al tribunale del riesame non è sottoposto a limitazioni o decadenze quando la relativa richiesta sia stata tempestivamente esercitata in modo da permettere, senza interruzioni, il regolare ed ordinato svolgimento del procedimento di cui all’art. 309 c.p.p. (Sez. 2, n. 36160 del 03/04/2017).

Anche questo orientamento fa leva su argomenti letterali e argomenti di ordine sistematico.
Quanto ai primi, si è sottolineato che “l’art. 309 c.p.p., comma 6 stabilisce che l’imputato, con la richiesta di riesame “può” chiedere di comparire, e non che “deve” farlo” e che la disposizione “non prevede alcuna sanzione processuale espressa, per il caso che ciò non avvenga” mentre il medesimo periodo, non oggetto di modifiche da parte della novella del 2015, stabilisce “che, sempre con la richiesta di riesame, “possono” essere enunciati anche i motivi d’impugnazione: e nessuno revoca in dubbio – secondo un’interpretazione ormai sedimentatasi nei decenni di vigenza immutata di tale disciplina – che quelli possano essere proposti anche con atto separato e successivo rispetto a quello introduttivo dell’incidente cautelare”; in ordine poi all’art. 309 c.p.p., comma 8-bis, in esso ben può essere ravvisata “l’affermazione, con specifico riguardo al sottosistema delle procedure cautelari, del diritto di comparire in udienza dell’imputato (o indagato, va da sé, ex art. 61 c.p.p.), purché esercitato nelle forme previste dalla disposizione specifica che lo regola: appunto, il precedente comma 6”; così interpretata, la disposizione non sarebbe superflua, perché segnerebbe comunque “un mutamento rispetto alla, meno netta, disciplina generale dell’art. 127 c.p.p., anteriormente applicabile, e trovando perciò una sua ragion d’essere nella necessità di dirimere ogni incertezza interpretativa sullo specifico punto” (Sez. 6, n. 24894 del 07/03/2019).

Sul piano sistematico, il secondo orientamento, richiamando la giurisprudenza costituzionale, ma anche fonti sovranazionali (quali la direttiva 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali), sottolinea la particolare valenza difensiva del diritto di partecipazione all’udienza di riesame dato che l‘”intento del legislatore di individuare un momento certo e preciso per avanzare la richiesta di comparire deve opportunamente bilanciarsi con la valenza difensiva del diritto di partecipare all’udienza camerale e con le concorrenti esigenze di concreta garanzia dell’esplicazione delle facoltà e dei diritti dell’interessato, la cui effettività non può essere formalisticamente compressa cristallizzandone l’esercizio in un momento (la presentazione della richiesta di riesame) ancora inevitabilmente connotato dalla fluidità delle strategie difensive, il cui orientamento ben potrebbe richiedere, nelle more, delle modifiche o integrazioni, finanche attraverso la facoltà di enunciare nuovi motivi prima dell’inizio della discussione dinanzi al giudice del riesame” sicché la richiesta di presenziare può essere formulata anche successivamente alla richiesta di riesame, comunque “in tempo utile per organizzare la traduzione senza pregiudicare la celerità del procedimento, nell’interesse della stessa persona in vinculis” (Sez. 6, n. 21779 del 22/03/2019).

Invero, “il diritto dell’interessato di partecipare personalmente al giudizio, tanto più se egli sia sottoposto a restrizioni della libertà personale”, costituisce “espressione qualificata del fondamentale diritto di difesa” e non può essere “recessivo rispetto ad esigenze di tipo organizzativo della pubblica amministrazione, quali sono quelle che l’opposta tesi in discussione verrebbe a salvaguardare” sicché “pur dopo la modifica normativa dell’art. 309 c.p.p., comma 6, apportata dalla L. n. 47 del 2015, la richiesta di presenziare all’udienza nel procedimento di riesame non deve necessariamente essere presentata dall’indagato o imputato con l’atto introduttivo del giudizio, ma può essere formulata con atto separato ed anche successivo; in quest’ultimo caso, il tribunale sarà tenuto ad accoglierla, disponendo quanto necessario alla traduzione dell’interessato od autorizzandolo a comparire senza accompagnamento, purché la richiesta pervenga in tempo utile, in concreto, a predisporre tali incombenze, potendo altrimenti respingere detta richiesta, tuttavia dando conto delle relative ragioni nel provvedimento di rigetto o nell’ordinanza emessa all’esito della procedura incidentale” (Sez. 6, n. 24894 del 2019).

Conclusa la disamina di questi orientamenti nomofilattici, gli Ermellini evidenziavano come si dovesse pervenire a una soluzione della questione controversa che prendesse le mosse dall’impostazione del primo orientamento ma valorizzasse anche la facoltà di chiedere il differimento dell’udienza al fine di consentire all’imputato di essere sentito su specifici temi ritenendosi come convergessero verso questa soluzione argomenti incentrati sul dato letterale delle disposizioni come modificate dalla novella del 2015 e ragioni di ordine sistematico inerenti, per un verso, alla serrata scansione temporale del procedimento di riesame e al rigoroso ed articolato apparato di rimedi posti a presidio di detta scansione e, per altro verso, alla nuova disciplina di cui l’art. 309 c.p.p., comma 9 bis, fermo restando come fosse anche
necessaria una puntualizzazione che contribuiva a definire la stessa portata della questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni unite.

La disciplina in esame sull’esercizio del diritto di comparizione dinanzi al giudice del riesame trova applicazione nei confronti dell’imputato detenuto o internato ovvero sottoposto a misura coercitiva in concreto limitativa della possibilità di partecipare all’udienza: fuori da questi casi e, dunque, in presenza di una misura coercitiva che in concreto non limiti tale possibilità, la necessità stessa di disciplinare l’esercizio del diritto di comparizione risulterebbe del tutto irragionevole e, in buona sostanza, estranea al sistema sicché nessuna limitazione alle modalità di esercizio del diritto può essere correlata alla disciplina in esame.

Chiarito ciò, per una migliore disamina dei problemi posti dalla questione controversa, era per le Sezioni Unite opportuno un ulteriore approfondimento del quadro normativo che viene in rilievo nel senso che il riferimento alla sentenza n. 45 del 1991 della Corte costituzionale è senz’altro ineludibile nella parte in cui il giudice delle leggi ha affermato il diritto dell’imputato detenuto a comparire all’udienza di riesame; diritto che l’assetto scaturito dalla L. n. 47 del 2015, superando le incertezze che attraversavano la giurisprudenza di legittimità fino alla vigilia della novella, garantisce a tutti gli imputati e indipendentemente dal luogo di detenzione e da qualsiasi valutazione del giudice del riesame collegata a determinazioni o all’attività dell’amministrazione penitenziaria (nel senso di seguito chiarito).

Quanto agli ulteriori rilievi della sentenza n. 45 del 1991, gli stessi non possono essere valutati senza considerare la rilevante evoluzione legislativa successiva al 1991 che ha modificato il quadro normativo di riferimento sotto profili centrali ai fini della valutazione della coerenza costituzionale delle diverse soluzioni.

Modifiche, queste, intervenute, per così dire, “a monte” del procedimento di riesame ossia nella disciplina relativa ai segmenti processuali che ne precedono l’instaurazione con riguardo al medesimo procedimento e a “momenti” della vicenda processuale successivi ad esso.

Sotto il primo profilo, viene in rilievo il progressivo rafforzamento della conoscibilità degli atti posti a sostegno dell’ordinanza cautelare sancito, innanzitutto, dalle modifiche all’art. 293 c.p.p., comma 3, introdotte dalla L. 8 agosto 1995, n. 332, art. 10, che, al deposito presso la cancelleria del giudice che ha emesso l’ordinanza dello stesso provvedimento applicativo, ha aggiunto la prescrizione del deposito anche della richiesta del pubblico ministero e degli atti presentati con la stessa.
Con la sentenza n. 192 del 1997, la Corte costituzionale ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 293, comma 3, c.p.p. nella parte in cui non prevede la facoltà per il difensore di estrarre copia, insieme con l’ordinanza che ha disposto la misura cautelare, della richiesta del pubblico ministero e degli atti presentati con la stessa: il giudice delle leggi richiamò la ratio del deposito degli atti in cancelleria a disposizione delle parti che, di regola, deve comportare necessariamente, insieme con il diritto di prenderne visione, la facoltà di estrarne copia.
La giurisprudenza di legittimità ha valorizzato la ratio garantistica della disciplina del deposito degli atti ex art. 293 c.p.p., comma 3.

In una prima direzione, invero, è stato chiarito che l’interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare, prescritto dall’art. 294 c.p.p., è viziato da nullità a regime intermedio – a prescindere dalla dimostrazione di un concreto e reale pregiudizio – qualora non sia stato preceduto dal deposito nella cancelleria del giudice, a norma dell’art. 293, comma 3, c.p.p., dell’ordinanza applicativa, della richiesta del pubblico ministero e degli atti con essa presentati: soluzione, questa, idonea a garantire “l’esercizio del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. in una delle sue componenti essenziali, rappresentata dalla necessità di ampia e congrua conoscenza, necessità riconosciuta dal giudice delle leggi ed attualmente ribadita dall’art. 111 Cost.” (Sez. U, n. 26798 del 28/06/2005; conf., ex plurimis, Sez. 4, n. 44187 del 17/10/2019; Sez. 6, n. 13309 del 22/02/2018 che ha sottolineato come l’omessa notifica al difensore dell’avviso di deposito dell’ordinanza cautelare prima dell’interrogatorio non determini alcuna nullità di quest’ultimo, la quale consegue esclusivamente alla mancata disponibilità, per lo stesso difensore, degli atti – ordinanza, richiesta del P.M. e documenti su cui la richiesta si fonda – nella cancelleria del giudice che ha emesso l’ordinanza).

In una ulteriore prospettiva, la giurisprudenza della Cassazione ha messo in luce che il termine, per la proposizione della richiesta di riesame dell’ordinanza che dispone una misura coercitiva, decorre, per il difensore dell’imputato, dal giorno in cui gli è stato notificato, a norma dell’art. 309 c.p.p., comma 3, l’avviso del deposito dell’ordinanza che dispone la misura insieme con la “richiesta del pubblico ministero e gli atti presentati con la stessa” e non da quello della sua partecipazione all’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p. o di altro evento che faccia presumere la sua conoscenza, altrimenti conseguita, del provvedimento medesimo (Sez. U, n. 18751 del 26/02/2003; conf., ex plurimis, Sez. 6, n. 26045 del 15/05/2018; Sez. 6, n. 52596 del 04/11/2016).

Quanto alla peculiare disciplina del deposito delle registrazioni intercettate ed utilizzate ai fini dell’adozione di una misura cautelare, veniva ricordata la declaratoria di illegittimità dell’art. 268 c.p.p. “nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate” (Corte Cost., sent. n. 336 del 2008).

Sez. U, n. 20300 del 22/04/2010, a loro volta, hanno ritenuto che la richiesta del difensore volta ad accedere, prima del loro deposito ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 4, alle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate e sommariamente trascritte dalla polizia giudiziaria nei cc.dd. brogliacci di ascolto, utilizzati ai fini dell’adozione di un’ordinanza di custodia cautelare, determini l’obbligo per il pubblico ministero di provvedere in tempo utile a consentire l’esercizio del diritto di difesa nel procedimento incidentale de libertate: dunque, anche se non posta in correlazione con gli adempimenti esecutivi di cui all’art. 293 c.p.p., la decisione della Corte costituzionale assicura comunque l’accesso alle registrazioni in tempo utile a consentire l’esercizio del diritto di difesa nel procedimento del riesame.

D’altra parte, il D.Lgs. 29 dicembre 2017, n. 216 (oggetto di varie proroghe quanto all’entrata in vigore) ha “codificato“, con l’art. 3, comma 1, lett. f), il dictum del giudice delle leggi inserendo, alla fine dell’art. 293 c.p.p., comma 3, due periodi in forza dei quali al difensore era riconosciuto il diritto di esame e di estrazione di copia dei verbali e delle conversazioni e, in ogni caso, alla trasposizione su supporto idoneo alla riproduzione dei dati delle relative registrazioni.

Tali periodi, in un primo momento, sono stati soppressi dal D.L. 30 dicembre 2019, n. 161, art. 2, comma 1, lett. i); tuttavia, in sede di conversione del decreto-legge, approvata definitivamente dalla Camera dei deputati il 27 febbraio 2020 e promulgata con la L. 28 febbraio 2020, n. 7, il testo dell’art. 293 c.p.p., comma 3 come modificato dal D.Lgs. n. 216 del 2017 è stato sostanzialmente ripristinato (art. 2, comma 1, lett. i D.L. come modificato dalla legge di conversione) sicché è destinata ad essere stabilita una piena conoscibilità anche dei risultati delle intercettazioni fin dal deposito degli atti successivo all’esecuzione della misura.

Inoltre, un altro rafforzamento della disciplina tesa ad assicurare all’imputato la conoscenza degli elementi sui quali si fonda la misura si è registrato con il D.Lgs. 1 luglio 2014, n. 101 (con il quale si è data attuazione alla Direttiva 2012/13/UE sul diritto all’informazione nei procedimenti penali), il cui art. 1, comma 1, lett. a), ha sostituito l’art. 293 c.p.p., comma 1, stabilendo che la comunicazione scritta alla quale si accompagna l’ordinanza applicativa deve informare l’imputato, tra l’altro, del diritto di accedere agli atti sui quali si fonda il provvedimento; previsione, questa, che si salda a quella di cui al sempre art. 293 c.p.p., comma 3.

Vista nel suo insieme, la disciplina del segmento della complessiva vicenda cautelare che intercorre tra l’esecuzione della misura e la richiesta di riesame consegna un assetto in virtù del quale alla difesa è assicurata un’ampia conoscenza degli atti e degli elementi posti a sostegno dell’applicazione della misura coercitiva, conoscenza per di più stimolata dall’espressa indicazione contenuta nella comunicazione scritta destinata ad accompagnare l’ordinanza cautelare; l’interrogatorio di garanzia, che presuppone, a pena di nullità, il previo deposito nella cancelleria del giudice dell’ordinanza applicativa, della richiesta del pubblico ministero e della documentazione presentata unitamente alla domanda cautelare, si svolge in un contesto che ha consentito alla difesa l’accesso agli atti con conseguente possibilità di attivare, in quella sede, un effettivo confronto con le ragioni dell’accusa; il termine per la presentazione della richiesta di riesame da parte del difensore decorre dalla notifica dell’avviso del deposito di cui all’art. 293 c.p.p., comma 3, ossia dal momento in cui è possibile acquisire, nei termini indicati, la conoscenza (e la copia) degli atti posti a sostegno della misura applicata.

Ebbene, i dati normativi richiamati, per le Sezioni Unite, convergono nel riconoscimento che l’ancoraggio della richiesta di comparire all’udienza camerale alla presentazione della richiesta di riesame si inserisce in un quadro nel quale è assicurata, in quel momento, la conoscenza degli elementi in base ai quali operare la scelta sulla comparizione dell’imputato: il che rende ragione del rilievo che, al momento della presentazione della richiesta di riesame, la difesa è senz’altro in grado di operare le valutazioni sottese alla partecipazione o meno del detenuto all’udienza camerale.

A ciò si aggiunga che, sempre rispetto al quadro normativo nel quale si collocò la sentenza n. 45 del 1991 della Corte costituzionale, la L. n. 332 del 1995, art. 13, ha inserito, nel corpo dell’art. 299 c.p.p., il comma 3-ter in forza del quale se l’istanza di revoca o sostituzione è basata su elementi nuovi o diversi da quelli già valutati, il giudice deve assumere l’interrogatorio dell’imputato che ne ha fatto richiesta trattandosi di una sorta di “valvola di garanzia” che, anche dopo la definizione del procedimento incidentale di riesame, consente all’imputato, con la deduzione di elementi nuovi o diversi rispetto a quelli già valutati, di far valere, attraverso il diretto contatto con il giudice, le proprie ragioni, anche qualora quest’ultimo ritenga non concludenti o non decisivi gli elementi posti alla base della richiesta (ex plurimis, Sez. 3, n. 55122 del 29/09/2016).

Delineato il quadro normativo alla luce del quale veniva esaminata la questione controversa, la Corte di legittimità, a questo punto della disamina, prendeva le mosse dagli argomenti letterali a proposito dei quali erano già state richiamate le modifiche apportate dalla L. n. 47 del 2015, art. 11, commi 1 e 2, rispettivamente, all’art. 309 c.p.p., commi 6 e 8-bis: modifiche, queste, del tutto allineate nell’identificare, indipendentemente dal luogo in cui il detenuto si trova ristretto, nella richiesta di riesame la sede esclusiva in cui l’imputato – anche per il tramite del difensore, non trattandosi di atto personalissimo (Sez. 6, n. 54048 del 2017, omissis, cit.) – deve esercitare il diritto di comparire personalmente posto che il chiaro tenore del dato testuale è univoco nello stabilire che la richiesta di comparizione personale dell’imputato dev’essere avanzata con la richiesta di riesame di cui all’art. 309 c.p.p., comma 6.

Le pronunce riconducibili al secondo orientamento, svalutano il dato letterale sottolineando, per un verso, l’utilizzo, nel corpo dell’art. 309 c.p.p., comma 6, del verbo “può“, anziché del verbo “deve” (“… l’imputato può chiedere di comparire personalmente”) e, per altro verso, che il comma 8-bis del medesimo articolo “nulla dice sui tempi e sulle modalità di presentazione della richiesta di comparire, rinviando interamente, sul punto, alla regola del comma 6” (Sez. 6, n. 24894 del 2019).

Orbene, ad avviso delle Sezioni Unite, nessuno dei due argomenti è convincente.

Quanto al primo, secondo la Cassazione, all’utilizzo della locuzione verbale “può” deve riconoscersi semplicemente valenza ricognitiva della configurazione legislativa del procedimento di riesame come a partecipazione eventuale dell’interessato e, dunque, della sua riconducibilità nel genus del procedimento in camera di consiglio ossia nel modello delineato dall’art. 127 c.p.p. la cui disciplina di base è “diretta ad esaltare i profili di garanzia del contraddittorio orale mediante la – eventuale – partecipazione delle parti” (Sez. U, n. 26156 del 28/05/2003).

Il legislatore del 2015 ha dunque confermato la collocazione del procedimento di riesame nell’ampia categoria dei procedimenti in camera di consiglio a partecipazione eventuale delle parti: la locuzione verbale “può” deve dunque essere letta, semplicemente, in questa prospettiva.
Quanto all’art. 309 c.p.p., comma 8-bis, esso ribadisce che il diritto di comparizione personale dinanzi al giudice del riesame deve essere esercitato attraverso la “richiesta di cui al comma 6” ossia con la richiesta di riesame sicché l’innovazione normativa non si risolve nell’accreditare il primo dei due orientamenti affermatisi nella vigenza della disciplina anteriore alla novella ma instaura una correlazione in termini di contestualità tra richiesta di riesame e richiesta di comparizione personale.

La ricostruzione della portata della novella in linea con il tenore letterale delle due disposizioni modificate dalla L. n. 47 del 2015 conduce a rilevare che la diversa tesi priverebbe il rinvio esclusivo alla richiesta di riesame operato dal citato comma 8-bis di qualsiasi significato normativo.
D’altra parte, una conferma dell’univoca significatività delle due disposizioni in esame si trae, a contrario, dalle varie disposizioni che attribuiscono al detenuto la facoltà di comparire a sua richiesta (“L’imputato che ne fa richiesta…”: art. 666 c.p.p., comma 4, in tema di procedimento di esecuzione; “Se l’interessato è detenuto… e ne fa tempestiva richiesta…”: D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 7, in tema di procedimento di prevenzione) senza le specificazioni (“Con la richiesta di riesame… “, il comma 6; “L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6…”, il comma 8-bis) rinvenibili, invece, in quelle modificate dalla L. n. 47 del 2015.

La nuova formulazione delle disposizioni indicate, ad avviso delle Sezioni Unite, ha determinato l’inapplicabilità, in quanto incompatibile, della norma di cui all’art. 309 c.p.p., comma 8 e art. 127 c.p.p., comma 3, nella sola parte relativa alla comparizione dell’interessato all’udienza di riesame, nonché dell’art. 101 disp. att. c.p.p., comma 2, posto che tratto essenziale della disciplina introdotta dalla novella è il pieno riconoscimento del diritto dell’imputato a comparire dinanzi al giudice del riesame e, con esso, il superamento di qualsiasi differenza nella disciplina della partecipazione all’udienza di riesame correlata al luogo di detenzione: sia al detenuto in un luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice, sia al detenuto entro la medesima circoscrizione, è assicurato il diritto di comparire personalmente dinanzi al tribunale della libertà a condizione che la relativa istanza sia stata avanzata con la richiesta di riesame.

Invero, centrale nella ratio della nuova disciplina è il riconoscimento, in modo non equivoco, del “diritto del ricorrente di comparire all’udienza camerale fissata per la trattazione, anche se eventualmente detenuto fuori distretto” (Sez. 1, n. 49882 del 2015) così configurando “un diritto di partecipazione uguale per ciascun indagato, cioè senza differenze originate dal luogo di detenzione” (Sez. 5, n. 34181 del 2019, omissis, cit.).

Tal che se ne faceva conseguire, da una parte, la sopravvenuta incompatibilità delle norme relative alla possibilità, per il detenuto al di fuori della circoscrizione, di rendere dichiarazioni, nel procedimento ex art. 309 c.p.p., al magistrato di sorveglianza (art. 101 disp. att. c.p.p., comma 2) dato che tale possibilità ripristinerebbe profili di distinzione tra le modalità di esercizio del diritto di comparizione che la nuova disciplina ha voluto superare in toto ferma restando, naturalmente, la possibilità, sussistendone le condizioni di legge, di procedere all’esame a distanza ai sensi dell’art. 45-bis disp. att. c.p.p.; dall’altra, come conseguenza del superamento della distinzione indicata, l’incompatibilità sopravvenuta, anche della norma di cui all’art. 309 c.p.p., comma 8 e art. 127 c.p.p., comma 4, nella parte in cui, sempre con esclusivo riferimento al procedimento di riesame, esclude la posizione del detenuto o dell’internato in un luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice del riesame dalla disciplina del rinvio dell’udienza per legittimo impedimento (ferma restando l’applicabilità dell’art. 101 disp. att. c.p.p., comma 1, in tema di decorrenza del termine per la decisione).

La già richiamata contestualità necessaria tra richiesta di riesame e richiesta di comparizione personale, per la Corte, non introduce (come ritenuto da alcune pronunce espressive del primo orientamento: Sez. 2, n. 12854 del 2018; Sez. 1, n. 30714 del 2019) una decadenza dalla facoltà di comparire all’udienza di riesame posto che tale istituto presuppone la previsione – e l’inosservanza – di termini ex art. 172 c.p.p., termini assenti nella disciplina introdotta dalla L. n. 47 del 2015.

L’art. 309 c.p.p., commi 6 e 8-bis, nella formulazione introdotta dalla legge ora citata, si limitano, invece, a disciplinare le modalità di esercizio del diritto a comparire dinanzi al giudice del riesame prescrivendo la contestualità della relativa richiesta rispetto a quella di riesame secondo un modello che vede l’esercizio di un diritto disciplinato in modo da prescriverne appunto la contestualità con una domanda o una richiesta, già previsto a proposito di altri istituti codicistici.

Ad esempio, come si è puntualmente osservato nel dibattito dottrinale, è il caso dell’art. 461 c.p.p., comma 3, in forza del quale, con l’atto di opposizione al decreto penale di condanna, l’imputato può chiedere i riti alternativi; contestualità, quella prevista dall’art. 461 c.p.p., comma 3, per l’opposizione e la richiesta di riti alternativi alla quale si ricollega la preclusione di cui all’art. 464 c.p.p., comma 3, (cfr., ex plurimis, Sez. 4, n. 36782 del 03/07/2015; Sez. 3, n. 20517 del 12/05/2005).

D’altra parte, l’imprescindibile necessità di definire un limite alle modalità di esercizio del diritto a comparire dinanzi al giudice del riesame si coglie per la Suprema Corte anche nelle pronunce espressive del secondo orientamento lì dove riconoscono che la manifestazione della volontà di comparire deve essere “tempestivamente esercitata dalla persona interessata, cioè in modo tale da permettere, senza interruzioni, il regolare ed ordinato svolgimento dell’iter procedimentale descritto dall’art. 309 c.p.p.” (Sez. 2, n. 36160 del 2017): l’affermazione generale del diritto a comparire viene così modulata in funzione del regolare e ordinato svolgimento del procedimento di riesame il che, invece, conferma la ragionevolezza dell’opzione legislativa concretizzatasi in un pieno riconoscimento del diritto di partecipazione per tutti i detenuti associato ad una disciplina delle modalità di esercizio di tale diritto che in nessun modo si risolve in una sua menomazione.

Le ragioni di ordine sistematico che concorrono nel confermare la soluzione accolta, a loro volta, ineriscono alla configurazione, del tutto peculiare, del procedimento di riesame e al suo articolarsi secondo una serrata scansione temporale presidiata dalla comminatoria della perdita di efficacia della misura coercitiva in caso di superamento dell’arco temporale previsto per ciascun segmento procedimentale; comminatoria dal canto suo rafforzata dalla previsione di presupposti molto rigorosi per la rinnovazione della misura che ha visto perdere la propria efficacia per l’inosservanza della tempistica stabilita dall’art. 309 c.p.p..

Già nella configurazione originaria dell’art. 309 c.p.p. era infatti previsto, nella prospettiva di assicurare la “caratteristica di rapidità coessenziale” al procedimento di riesame, un termine massimo per la decisione alla cui inosservanza conseguiva l’effetto per cui “la misura cautelare disposta con l’ordinanza assoggettata a riesame deve ritenersi immediatamente caducata” (Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, in Supp. Ord. n. 2 alla G.U. n. 250 del 24 ottobre 1988 – Serie generale); disciplina, questa, in linea, del resto, con quella stabilita dall’art. 263-ter del previgente codice di rito.

Le vicende normative successive, da ultimo innescate dalla L. n. 47 del 2015, hanno avuto quale tratto comune il rafforzamento della disciplina volta ad assicurare tempi rapidi e certi al procedimento di riesame, rafforzamento assicurato, prima di tutto, dall’ampliamento del catalogo dei termini a tutela dei quali la legge prevede la perdita di efficacia della misura.

Un prima tappa di questo rafforzamento è rappresentata dalla L. 8 agosto 1995, n. 332, il cui art. 16 ha modificato, tra l’altro, l’art. 309 c.p.p., comma 10, assimilando alla disciplina del termine per la decisione quella del termine per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame da parte dell’autorità procedente.

Anche a questo secondo termine il legislatore ha associato, per l’ipotesi dell’inosservanza, la comminatoria dell’inefficacia della misura così superandosi un’obiettiva inadeguatezza della disciplina originaria del codice che prevedeva sì un termine perentorio per la decisione ma innestandolo su una procedura cadenzata su un dies a quo non rigidamente predeterminato ma “mobile” (e privo di sanzioni in caso di inosservanza): come ha osservato il giudice delle leggi, “la ratio del nuovo termine perentorio stabilito dal legislatore del 1995 per la trasmissione degli atti è quella di impedire che il termine per la decisione decorra da un dies a quo lasciato alla determinazione degli organi giudiziari, non astretti nei loro adempimenti a vincoli temporali assistiti da sanzione processuale”, lacuna superata dalla riforma del 1995 attraverso il “conferimento del carattere di perentorietà, a pena di decadenza della misura, anche al termine per la trasmissione degli atti” (Corte Cost., sent. n. 232 del 1998).

La più recente riforma introdotta dalla L. n. 47 del 2015 ha previsto altresì un termine per il deposito della motivazione dell’ordinanza del tribunale del riesame stabilendo anche in relazione ad esso la perdita di efficacia della misura in caso di inosservanza.

L’assetto complessivo, che deriva dalla novella del 2015, vede una serrata articolazione di segmenti del procedimento del riesame ciascuno dei quali presidiato, quanto all’osservanza dei termini, dalla comminatoria dell’inefficacia della misura.

Tale comminatoria, dunque, riguarda la fase iniziale del procedimento cautelare (la trasmissione degli atti), il suo svolgimento, fino alla decisione, e, da ultimo, il deposito della motivazione e, quindi, l’impugnabilità della decisione.

Ciò posto, le comminatorie di inefficacia previste dall’art. 309 c.p.p., comma 10, prima parte per i tre termini in cui è scandito il procedimento di riesame sono state ulteriormente rafforzate dalla previsione, introdotta sempre dalla L. n. 47 del 2015, che, in tali casi, la misura coercitiva può essere rinnovata solo in presenza di eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate: la norma, come ha osservato la Corte costituzionale escludendone profili di illegittimità in riferimento agli artt. 3, 101 e 104 Cost., si colloca in un quadro di innovazioni con le quali è stata affrontata in maniera unitaria la tematica delle impugnazioni cautelari così da “rendere più certa la tempistica del giudizio di riesame (anche in sede di rinvio) ed effettiva la previsione della perdita di efficacia conseguente all’inosservanza dei termini perentori fissati” (Corte Cost., sent. n. 233 del 2016).
Orbene, a fronte di tale quadro normativo, le modifiche della disciplina della partecipazione dell’imputato all’udienza di riesame si inseriscono nel quadro appena descritto nei suoi profili essenziali.

Come hanno sottolineato, nella prospettiva dell’interpretazione sistematica, alcune decisioni espressive del primo orientamento, la nuova disciplina risulta “finalizzata a dirimere ogni incertezza, eliminando la relativa discrezionalità in capo ai giudici de libertate, in ordine alla individuazione della concreta nozione di “tempestività” (della richiesta di comparire)” ancorando, allo stesso tempo, il diritto dell’imputato a comparire “ad un dato obiettivo, certo e incontrovertibile – insuscettibile di interpretazioni “elastiche” e volto a prevenire eventuali atteggiamenti dilatori e/o di mera ostruzione – costituito dall’inserimento della richiesta di comparire nel corpo dell’istanza di riesame” (Sez. 1, n. 49882 del 2015) rilevandosi al contempo come “la previsione di un termine, certo, quale quello ancorato alla richiesta di riesame si risolva, in definitiva, in una garanzia di certezza e di effettività dell’esercizio del diritto medesimo di comparire” (Sez. 5, n. 34181 del 2019).

Dunque, la nuova disciplina della comparizione dell’imputato all’udienza di riesame solleva il giudice del riesame dall’onere di valutare la “tempestività” della richiesta di comparizione (assumendo una decisione suscettibile di risultare controversa e, come si è osservato in dottrina, di alimentare un contenzioso che appesantirebbe senza necessità la materia del procedimento di riesame); svincola l’esercizio del diritto partecipativo da fattori rimessi, in larga misura, alle determinazioni dell’amministrazione penitenziaria (cfr. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 85) e, comunque, estranee alla sfera di “governabilità” del tribunale del riesame; infine, mette al riparo la tempistica dello svolgimento del procedimento di riesame da variabili quali quelle relative all’interazione con il magistrato di sorveglianza (ai sensi dell’art. 101 disp. att. c.p.p., comma 2, da ritenersi non più applicabile).

In altri termini, l’interpretazione della disciplina in esame qui delineata consente, fin dal momento della fissazione dell’udienza (o delle udienze, in caso di pluralità di detenuti richiedenti) di riesame, una programmazione tendenzialmente affidabile del lavoro dei giudici del riesame: condizione, questa, decisiva per assicurare, al contempo, l’osservanza dei termini perentori per la decisione e per il deposito della motivazione previsti dal legislatore a tutela della certezza dei tempi della decisione stessa e della sua eventuale impugnazione ed è, dunque, in questo legame tra l’affidabilità della programmazione dei lavori del tribunale del riesame (all’evidenza di assoluto rilievo, in particolare, nei casi di ordinanze applicative relative a più – talora molti – indagati) e la disciplina dei termini resa ancora più rigorosa dalla L. n. 47 del 2015, che si coglie la valenza sistematica dell’interpretazione qui accolta: interpretazione, questa che a sua volta valorizza l’ulteriore arricchimento del patrimonio di garanzie del detenuto sancito dalla L. n. 47 del 2015 con l’attribuzione all’imputato della possibilità di ottenere, in presenza di giustificati motivi, il differimento della data di udienza ex art. 309 c.p.p., comma 9-bis.

Tra le varie ipotesi potenzialmente idonee a giustificare il differimento, va senz’altro annoverata quella dell’imputato che, personalmente, può esercitare non già il diritto, bensì la facoltà di chiedere con l’istanza di differimento, entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, di essere sentito su specifici temi (riguardanti, eminentemente, la quaestio facti): qualora la richiesta e le allegazioni su cui si fonda siano ritenute idonee a dar corpo a giustificati motivi, attinenti ad esigenze di difesa sostanziale e non meramente pretestuosi (Sez. 6, n. 13050 del 03/03/2016), il tribunale del riesame disporrà, a norma dell’art. 309 c.p.p., comma 9-bis, il differimento della data di udienza così come stabilito dalla disposizione (da cinque a dieci giorni) e con le conseguenze in punto di proroga dei termini per la decisione e per il deposito dalla stessa previsti.

Attraverso l’“utilizzazione” dell’istituto del differimento dell’udienza (con il conseguente “slittamento” dei vari termini, idoneo a salvaguardare le esigenze connesse alla programmazione del lavoro del tribunale del riesame), nella disciplina codicistica, sotto il profilo qui in esame, viene così prevista la facoltà dell’imputato di chiedere, pur dopo la presentazione della richiesta ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 6, di essere sentito nell’udienza camerale¸trattandosi di una facoltà che, sussistendo i presupposti di legge, offre all’imputato uno strumento per far valere le ragioni alla base della rivalutazione – rispetto al momento della richiesta di riesame – dell’opzione relativa al suo intervento all’udienza: tale strumento completa l’assetto normativo del procedimento di riesame, che, anche attraverso l’esercizio della facoltà di chiedere il differimento ex art. 309 c.p.p., comma 9-bis, in funzione della partecipazione dell’imputato all’udienza camerale, risponde alle esigenze di fondo sottese al secondo orientamento in termini del tutto coerenti con il quadro sistematico descritto.

Orbene, le conclusioni sin qui raggiunte consentono, per le Sezioni Unite, di escludere che la soluzione della questione controversa accolta comporti una deminutio del patrimonio di garanzie del detenuto che richiede il riesame dell’ordinanza applicativa: essa, al contrario, risulta del tutto in linea con la fisionomia del procedimento di riesame, un procedimento “non inerente al merito della pretesa punitiva (non diretto, cioè, a stabilire se l’imputato sia colpevole o innocente) ma finalizzato esclusivamente a verificare, in tempi ristrettissimi e perentori, la sussistenza dei presupposti della misura cautelare applicata”, sedes non “deputata all’acquisizione della prova” e destinata a sfociare in una decisione “intrinsecamente provvisoria” (Corte Cost., sent. n. 263 del 2017).

Al riguardo, veniva sottolineato come la soluzione accolta non potesse essere contraddetta instaurando un’insuperabile correlazione tra comparizione del detenuto all’udienza di riesame e possibilità – ex art. 309 c.p.p., comma 6, – di enunciare motivi nuovi prima dell’inizio della discussione (un cenno, in tal senso, si rinviene in Sez. 6, n. 24894 del 2019) visto che una siffatta correlazione presupporrebbe, come regola (e non come eventualità), la presenza del detenuto in udienza sicché risulterebbe incompatibile anche con il secondo orientamento (che ancora la facoltà di chiedere la comparizione personale successivamente alla richiesta di riesame alla circostanza che essa sia comunque esercitata in tempo utile per organizzare la tempestiva traduzione: cfr. Sez. 6, n. 24894 del 2019) e, a ben vedere, con la stessa configurazione dell’udienza camerale ex art. 127 c.p.p. fermo restando che, naturalmente, nella prospettiva qui accolta, la difesa non perde la possibilità di enunciare motivi nuovi anche a ridosso dell’avvio della discussione in udienza camerale ma, nel caso in cui il detenuto non abbia chiesto di comparire contestualmente alla richiesta di riesame e non abbia fruttuosamente esercitato la facoltà di chiedere il differimento, tale possibilità ben potrà essere coltivata dal difensore, tanto più che, anche sotto questo profilo, potrà essere valorizzata la stessa facoltà ex art. 309 c.p.p., comma 9-bis al fine di approntare al meglio, nel confronto con il difensore, le più opportune deduzioni difensive.

Il rilievo consente di riprendere, per un ulteriore, conclusivo, approfondimento, quanto già osservato a proposito del collegamento assicurato, sul piano sistematico, dalla soluzione qui accolta – tra la possibilità dei giudici del riesame di organizzare il proprio lavoro sulla base di un’affidabile programmazione (in uno con il venir meno dell’onere di valutare la “tempestività” della richiesta di comparizione sulla base di variabili rimesse all’amministrazione penitenziaria) e la rigida disciplina dei termini che scandiscono – dall’inizio fino al deposito della motivazione del provvedimento adottato, l’iter del procedimento di riesame.

Il riferimento alla possibilità di organizzazione del lavoro del tribunale del riesame e all’alleggerimento dei suoi compiti decisionali – l’una e l’altro associabili alla soluzione qui accolta – non va inteso in termini di adesione ad una prospettiva di mera efficienza organizzativa non essendo in discussione che “un processo non “giusto”, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata” (Corte Cost., sent. n. 317 del 2009) dato che nella prospettiva accolta dalle Sezioni Unite, al contrario, la disciplina codicistica assicura un bilanciamento – non più, dunque, rimesso al giudice, ma definito dalla legge – all’evidenza non irragionevole tra, da un lato, le modalità di esercizio del diritto del detenuto alla partecipazione all’udienza camerale (diritto messo al riparo dalle interferenze riconducibili a determinazioni non “governabili” dal giudice del riesame) e, dall’altro, la celerità del procedimento ex art. 309 c.p.p. che rappresenta essa stessa una fondamentale componente del patrimonio di garanzie dell’imputato.

A tutela di tale componente e, dunque, della certezza dei tempi della decisione di riesame e della sua impugnabilità, la disciplina codicistica fa leva su un regime assai rigoroso incentrato sulle varie ipotesi di inefficacia della misura cautelare (oltre che sugli stringenti limiti per la rinnovazione della misura dichiarata inefficace) rispetto al quale le esigenze lato sensu organizzative assicurate dalla nuova disciplina dell’esercizio del diritto di partecipazione dell’imputato all’udienza ex art. 309 c.p.p. si pongono in rapporto servente,fermo restando che detta nuova disciplina, nel collocare la richiesta di comparizione in un segmento della vicenda cautelare in cui la difesa ha ampia contezza degli atti posti a sostegno dell’ordinanza applicativa, ha avuto la possibilità di confrontarsi con le ragioni dell’accusa nell’interrogatorio di garanzia e ha un congruo termine a disposizione per la richiesta di riesame, risulta – anche in virtù della facoltà di chiedere il differimento, nei termini indicati – senz’altro idonea ad assicurare l’effettività di tale diritto.

Alla stregua delle argomentazioni sin qui esposte, veniva pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “Nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari coercitive la persona detenuta o internata ovvero sottoposta a misura in concreto limitativa della possibilità di partecipare all’udienza camerale può esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza stessa solo se ne ha fatto richiesta, anche per il tramite del difensore, con l’istanza di riesame, ferma restando la facoltà di chiedere di essere sentita su specifici temi con l’istanza di differimento ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 9-bis”.

Conclusioni

La decisione in esame è condivisibile in quanto la motivazione ivi addotta è il frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico fondato sia su valutazioni di ordine prettamente normativo, che su considerazioni di ordine giurisprudenziale.

Ciò posto, in questa decisione, come appena visto, le Sezioni Unite sono addivenute a formulare il principio di diritto secondo il quale, nel procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari coercitive la persona detenuta o internata ovvero sottoposta a misura in concreto limitativa della possibilità di partecipare all’udienza camerale può esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza stessa solo se ne ha fatto richiesta, anche per il tramite del difensore, con l’istanza di riesame, ferma restando la facoltà di chiedere di essere sentita su specifici temi con l’istanza di differimento ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 9-bis.

Spetta dunque alla persona detenuta o internata ovvero sottoposta a misura in concreto limitativa di chiedere di comparire personalmente all’udienza fissata per procedimento di riesame avverso provvedimenti impositivi di misure cautelari coercitive emessi a suo carico fermo restando la sua facoltà di chiedere di essere sentita su specifici temi con l’istanza di differimento ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 9-bis (norma questa che, come è noto, dispone quanto segue: “Su richiesta formulata personalmente dall’imputato entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, il tribunale differisce la data dell’udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni se vi siano giustificati motivi. In tal caso il termine per la decisione e quello per il deposito dell’ordinanza sono prorogati nella stessa misura”) dovendosi intendere, per “temi specifici” quelli riguardanti eminentemente la quaestio facti nonchè esigenze di difesa sostanziale e non meramente pretestuosi.

Alla luce di questo arresto giurisprudenziale, dunque, ogniqualvolta verrà presentata richiesta di riesame a norma dell’art. 309 c.p.p., (a prescindere che sia fatta personalmente dal richiedente o dal difensore) in essa dovrà essere fatta apposita richiesta di comparire personalmente all’udienza stessa dato che l’istanza di differimento, di cui all’art. 309, c. 9-bis, c.p.p., potrà essere presentata solo ove la persona detenuta o internata ovvero sottoposta a misura in concreto limitativa voglia essere ascoltata su specifici temi (nei termini appena enunciati).

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, di conseguenza, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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