(Riferimenti normativi: D.lgs. n. 274/2000, art. 60, c. 1; d.P.R. n. 313/2002, art. 25, c. 1, lett. i)).
Il fatto
Con il provvedimento impugnato, datato 14.12.2016, depositato il 13.2.2017, il Tribunale di Roma, in parziale riforma della sentenza emessa dal giudice di pace di Roma il 24.6.2014, assolveva M. G. C. dal reato di ingiuria a lui ascritto al capo A, per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, confermando la condanna ma riducendo la pena irrogata per il residuo reato di percosse (capo B) ad euro 400 di multa e riducendo, altresì, la condanna al risarcimento dei danni alla somma di euro 900, in considerazione del venir meno del reato depenalizzato.
I fatti erano avvenuti nell’ambito di una lite tra l’imputato e la vittima del reato, D. A., per ragioni di viabilità: M. aveva aggredito la persona offesa, “colpevole” di avergli contestato la modalità di parcheggio della propria autovettura, con cui aveva bloccato il traffico.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il citato provvedimento proponeva ricorso per cassazione l’imputato, tramite il proprio difensore deducendo quattro motivi di ricorso.
Con il primo motivo si argomentava vizio di violazione di legge in relazione al reato di percosse ed all’attribuzione soggettiva della condotta all’imputato stante il fatto che nessuna ragione era stata indicata in sentenza sulla volontarietà dell’aggressione avendo tentato invece il ricorrente di sottrarsi alla aggressione che nei suoi confronti stava ponendo in essere la persona offesa (come prova anche il certificato medico del pronto soccorso acquisito in atti).
Con il secondo motivo si deduce la stessa doglianza sotto il profilo del vizio di motivazione manifestamente illogica giacchè, ad avviso della difesa, sarebbero mancati nella sentenza impugnata precisi riferimenti alla condotta della persona offesa nonostante sulle sue dichiarazioni (e su quelle di altri testi d’accusa) si sia fondata l’affermazione di responsabilità tenuto conto altresì del fatto che sarebbero state altresì ingiustificate le critiche in sentenza all’atto di appello che si assumeva aver avuto un contenuto di censura solo formalistico essendo evidente, invece, la specificità delle doglianze difensive che avevano offerto anche una ricostruzione alternativa dell’accaduto.
Il terzo motivo di ricorso lamentava manifesta illogicità della motivazione ed erronea valutazione delle prove nonché il loro travisamento e l’erronea applicazione degli artt. 191, 192 e 234 cod. proc. pen. avendo il Tribunale ignorato alcuni elementi di prova a favore del ricorrente e precisamente: a) la presentazione di querela prima della persona offesa (che invece l’aveva sporta solo un mese dopo) essendo irrilevante l’argomento utilizzato dal giudice d’appello per superare l’analogo motivo proposto nell’impugnazione di merito secondo cui sarebbe valida la denuncia presentata oralmente nell’immediatezza dei fatti dal D. alla polizia giudiziaria intervenuta sul posto; b) la documentazione medica acquisita al fascicolo del dibattimento ritenuta erroneamente non significativa perché dimostrerebbe solo l’avvenuto contatto fisico tra i due litiganti mentre, invece, da essa sarebbero emerse circostanze che riscontravano perfettamente il ruolo di vittima e non di aggressore del ricorrente; c) le dichiarazioni di alcuni testimoni oculari che erano ritenute irrilevanti dal Tribunale perché irritualmente acquisite in allegato alla querela del M. contro il D. senza contraddittorio tra le parti e senza che un’ordinanza in tal senso venisse emessa dal giudice di pace, e ciò avrebbe contraddetto il verbale d’udienza del 20.12.2011 nel quale, invece, si dava atto della ritualità di tali acquisizioni al fascicolo dibattimentale; si concludeva sostenendo, pertanto, come vi fosse stato travisamento della prova da parte del Tribunale; d) il quarto motivo lamentava la mancata assunzione di una prova decisiva, richiesta dall’imputato con riferimento ai testi indicati dalla difesa deducendosi la pretestuosità dell’argomento utilizzato al riguardo dal giudice d’appello e riferito al fatto che la assenza dei testi della difesa all’udienza del 24.6.2014 dinanzi al giudice di pace (da cui il Tribunale deduce la legittimità della revoca del loro esame, secondo la giurisprudenza di legittimità) era stata indice di intento dilatorio rilevata altresì la mancanza di motivazione del provvedimento impugnato sulla richiesta difensiva di rinnovazione istruttoria e di esame di detti testi a discarico citandosi all’uopo la giurisprudenza sui poteri officiosi ex art. 507 cod. proc. pen. nel caso di prova da ritenersi decisiva; e) con il quinto ed ultimo motivo si argomentava violazione di legge in relazione al diniego dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione stante l’incensuratezza dell’imputato e l’evidente occasionalità del reato per l’assenza di qualsiasi motivazione riguardo a tale decisione.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
I motivi di ricorso venivano considerati inammissibili alla stregua delle seguenti considerazioni.
Si osservava prima di tutto come le prime tre ragioni del ricorso richiedevano alla Corte di legittimità una diversa ricostruzione delle risultanze probatorie senza peraltro confrontarsi, ad avviso del Supremo Consesso, con le argomentazioni del giudice d’appello che, invece, erano stimate dagli ermellini coerenti e logiche nella indicazione degli elementi di prova che hanno portato all’affermazione di responsabilità del ricorrente come autore delle percosse ai danni della vittima.
Infatti – una volta preso atto che, là dove si argomentano violazione di legge in relazione alla attribuzione soggettiva del reato all’imputato – il quale, invece, secondo la difesa, avrebbe solo cercato di sottrarsi alla condotta aggressiva della persona offesa – ed altrettanti vizi motivazionali, pur adducendosi un difetto della struttura ricostruttiva in fatto e processuale della sentenza, si proponevano, piuttosto, diversi approdi delle risultanze processuali e di prova e si chiedeva in ultima analisi, non già di pronunciarsi sulla bontà e correttezza del percorso motivazionale adottato dal provvedimento impugnato, bensì di valutarne l’esattezza degli snodi decisionali rispetto ad una alternativa ricostruzione della piattaforma fattuale utilizzata – i giudici di piazza Cavour facevano presente come un’operazione siffatta non fosse consentita al giudice di legittimità posto che, secondo una giurisprudenza consolidata, non sono sindacabili da parte della Cassazione i profili ricostruttivi della prova e della versione dei fatti articolata dai giudici di merito in assenza di vizi di manifesta illogicità della motivazione ovvero di profili di travisamento della prova (cfr. ex multis Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, omissis, Rv. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, omissis, Rv. 265482 vedi anche Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, omissis, Rv. 226074; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, omissis, Rv. 214794) dato che esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, omissis, Rv. 207944; Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, omissis, Rv. 238215; Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, omissis, Rv. 235716; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, omissis, Rv. 253099; Sez. 6, n. 13809 del 17/3/2015, 0., Rv. 262965).
A fronte di ciò, si metteva in risalto il fatto che, nel caso di specie, la motivazione impugnata si fosse saldata con quella di primo grado a formare il canone valutativo della cd. doppia pronuncia conforme cui si connettono limiti anche dal punto di vista della deducibilità del vizio di travisamento della prova – dedotto nel terzo motivo di ricorso – vizio che, secondo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità, è circoscritto, in tal caso, alle ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice ovvero a quella in cui entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, omissis, Rv. 256837; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, omissis, Rv. 269217; Sez. 2, n. 5336 del 9/1/2018, L, Rv. 272018).
Ebbene, ad avviso della Corte, i tre elementi di prova, indicati dal ricorrente come oggetto del travisamento, erano stati, invece, ben valutati da entrambi i giudici di merito in modo sostanzialmente conforme tra loro ed avevano portato a ricostruire la vicenda nel senso del comportamento aggressivo del ricorrente nonostante la situazione di palese suo torto per aver parcheggiato l’autovettura in modo da ostacolare pesantemente la regolare viabilità e, in particolare, la persona offesa, cui era stato arrecato sicuramente il maggior disagio.
Quanto al quarto motivo difensivo, riferito alla violazione delle regole di assunzione della prova testimoniale decisiva e, in particolare, alla revoca dei testi della difesa, gli ermellini rilevavano come il Tribunale avesse ben applicato la giurisprudenza in materia di mancata citazione dei testi da parte di chi li abbia inseriti nella propria lista già ammessa e non avesse adempiuto, tuttavia, all’onere di citarli, cui segue – per tale ragione – la revoca della loro ammissione, costituendo la mancata citazione anche rinuncia implicita alla loro assunzione pervenendo a siffatto assunto sulla scorta di quell’orientamento secondo cui la mancata citazione dei testimoni già ammessi dal giudice comporta la decadenza della parte dalla prova poichè il termine per la citazione dei testimoni è inserito in una sequenza procedimentale che non ammette ritardi o rinvii dovuti alla mera negligenza delle parti ed ha, pertanto, natura perentoria (Sez. 6, n. 594 del 21/11/2017, dep. 2018, omissis, Rv. 271939; Sez. 2, n. 14439 del 27/2/2013, omissis, Rv. 255548) sicchè legittimamente il giudice provvede a revocare l’ammissione dei predetti testi (Sez. 4, n. 22585 del 25/1/2017, omissis, Rv. 270170; Sez. 6, n. 2324 del 7/1/2015, omissis, Rv. 261922) mentre la mancata citazione del teste per l’udienza può essere valutata dal giudice come comportamento significativo della volontà della parte richiedente di rinunciare alla prova già ammessa, anche per l’orientamento che nega la decadenza della prova in tal caso (Sez. 3, n. 2103 del 11/11/2008, dep. 2009, omissis, Rv. 242346; Sez. 3, n. 20267 del 8/4/2014, omissis, Rv. 259668; Sez. 3, n. 20851 del 11/3/2015, omissis, Rv. 263774).
Tra l’altro, proseguiva la Corte nel suo ragionamento giuridico, pur a voler accedere all’orientamento differente (cfr. Sez. 6, n. 11400 del 12/2/2015, omissis, Rv. 262783; Sez. 3, n. 24302 del 12/5/2010, L., Rv. 247878; Sez. 3, n. 8159 del 26/11/2009, dep. 2010, Rv. 246255) che ritiene si configuri, invece, nel caso di revoca del teste precedentemente ammesso in ragione della sua mancata citazione da parte della difesa, una nullità a regime intermedio la cui eccezione andrebbe proposta al momento del provvedimento di revoca, nella fattispecie in questione non era stato dedotto specificamente dal ricorrente che ciò fosse stato fatto.
Posto ciò, i giudici di legittimità ordinaria deducevano come le carenze argomentative del ricorso si fossero manifestate anche in relazione alla omessa compiuta indicazione proprio della necessità e non superfluità della prova nulla dicendo il ricorso sulle circostanze decisive che i testi revocati avrebbero dovuto attestare limitandosi soltanto a prospettarne una generica necessità e di conseguenza, ad opinione della Cassazione, anche le pronunce che ritengono che la mancata citazione del teste per l’udienza non comporti la decadenza della parte richiedente dalla prova, salvo che quest’ultima sia superflua o la nuova autorizzazione alla citazione per un’udienza successiva comporti il ritardo della decisione (Sez. 4, n. 48303 del 27/9/2017, omissis, Rv. 271143; Sez. 3, n. 13507 del 18/2/2010, omissis, Rv. 246604 e Sez. 5, n. 29562 del 1/4/2014, S., Rv. 262523) non assumevano alcun rilievo nel caso di specie.
Si evidenziava oltre tutto che, anche nell’esporre la mancanza di motivazione dedotta in relazione al motivo d’appello riferito all’omessa attivazione dei poteri istruttori d’ufficio da parte del giudice, il ricorso non teneva conto della implicita risposta negativa a tale addotta necessità di prova avendo il Tribunale ampiamente argomentato sulle ragioni in base alle quali aveva ritenuto sufficiente la piattaforma probatoria già presente ed utilizzabile nel processo a ricostruire la vicenda con caratteri di certezza e chiarezza quanto alla affermazione di responsabilità dell’imputato e dunque, seppur implicitamente, aveva affermato la superfluità di una qualsiasi, eventuale ed ulteriore rinnovazione istruttoria mentre il mancato esercizio del potere del giudice del dibattimento di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova a norma dell’art. 507 cod. proc. pen. non richiede un’espressa motivazione quando, dalla effettuata valutazione delle risultanze probatorie, possa implicitamente evincersi la superfluità di un’eventuale integrazione istruttoria (Sez. 4, n. 7948 del 3/10/2013, dep. 2014, omissis, Rv. 259272).
Infine, il quinto ed ultimo motivo di ricorso, sempre secondo la Corte, aveva dedotto egualmente ragioni inammissibili di doglianza quanto al diniego dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione ribadendosi quanto affermato da Sez. 5, n. 36791 del 22/6/2015, omissis, e cioè che la disciplina codicistica in materia di sospensione condizionale non si applica alle pene irrogate dal giudice di pace (art. 60, comma 1, d. Igs. n. 274 del 2000); mentre, quanto al beneficio della non menzione, deve rammentarsi che, ai sensi dell’art. 25, comma 1, lett. i), del d.P.R. n. 313 del 2002, nel certificato penale sono riportate le iscrizioni esistenti nel casellario giudiziale ad eccezione di quelle relative, tra l’altro, ai provvedimenti giudiziari emessi dal giudice di pace.
Tal che se ne faceva conseguire come entrambe le ragioni di ricorso contenute nel motivo in esame fossero inammissibili per manifesta infondatezza non avendo alcun interesse l’imputato a dedurle visto che, da un lato, la non menzione non ha ragione di essere richiesta essendo già collegata al fatto che nel certificato penale – per espresso dettato normativo (art. 25, comma 1, lett. i), del d.P.R. n. 313 del 2002) – non vengono riportate le iscrizioni del casellario giudiziale relative ai provvedimenti giudiziari emessi dal giudice di pace, quale era quello di condanna nel caso di specie, dall’altro, il beneficio della sospensione condizionale della pena è costantemente ricostruito dalla giurisprudenza di legittimità come inapplicabile alle pene inflitte dal giudice di pace e tale limitazione è stata anche più volte valutata compatibile con il quadro dei principi costituzionali dettati dalla nostra Carta fondamentale posto che è stata dichiarata manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 60 del d. Igs. n. 274 del 2000 nella parte in cui esclude, per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, l’applicabilità della sospensione condizionale della pena in quanto il legislatore, nella sua discrezionalità, ha ritenuto, per ragioni di politica criminale, di dover privilegiare, in tale ipotesi, il principio dell’effettività della sanzione penale e tale scelta non concreta alcun irragionevole trattamento discriminatorio (Sez. 2, n. 28850 del 8/5/2013, omissis, Rv. 256354; Sez. 4, n. 41992 del 15/11/2006, Rv. 235678; Sez. 4, n. 14815 del /10/2003, dep. 2004, omissis, Rv. 228057).
Si sottolineava a tal proposito come l’inapplicabilità del beneficio in questione dipendesse dalla natura delle sanzioni irrogabili dal giudice di pace del tutto diverse da quelle in ordine alle quali la sospensione era concedibile e dalla facoltà del legislatore di stabilire una diversa regolamentazione relativamente alle differenti pene ed ai differenti sistemi sanzionatori previsti nel procedimento penale ordinario ed in quello di competenza del giudice di pace, differenziazione che non viola, di per sè, l’art. 3 della Costituzione dato che la scelta del legislatore di privilegiare, per ragioni di politica criminale, il principio di effettività della sanzione penale nel procedimento davanti al giudice di pace non si traduce in alcun irragionevole trattamento discriminatorio né in una violazione dell’art. 24 della Costituzione poiché non viene in gioco un diverso livello di tutela del diritto di difesa tenuto conto altresì del fatto che tale impostazione è coerente con la ratio legislativa desumibile dalla Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo sulla istituzione del Giudice di pace in cui si è evidenziata l’opportunità di intervenire sul funzionamento della sospensione condizionale in vista di un suo adattamento al mutato scenario sanzionatorio, contraddistinto da istituti che tendono alla composizione del conflitto ed alla valorizzazione delle istanze della vittima e proprio per questo motivo, cioè per favorire il funzionamento dei “filtri” di natura conciliativa, il legislatore ha ritenuto necessario munire il Giudice di pace di un potere di irrogare sanzioni miti ma destinate comunque ad esplicare una qualche funzione dissuasiva e, soprattutto, capaci di invogliare le parti alla composizione del conflitto; in conseguenza di ciò, in tale ambito, è stata offerta all’imputato un’ampia gamma di opzioni che consentono di evitare la pronuncia di una sentenza di condanna a patto, però, di una composizione del conflitto con la vittima e, a tale fine, ad opinione della Corte,risulta corretta e costituzionalmente orientata la scelta di precludere la sospensione della pena nell’intento di conciliare la mitezza degli istituti collegati alla giurisdizione del Giudice di pace con una loro reale effettività, in modo tale da costituire un incentivo concreto all’obiettivo tendenziale e primario di ricomporre il conflitto con la vittima.
Da ciò la Suprema Corte giungeva a postulare il seguente principio di diritto: “nel processo dinanzi al giudice di pace non sono applicabili gli istituti della sospensione condizionale della pena e della non menzione e tale opzione è compatibile con il principio di eguaglianza e con il diritto di difesa previsti dagli artt. 3 e 24 della Costituzione, alla luce degli obiettivi finali che si propone il sistema procedimentale e sanzionatorio di cui al d.Igs. n. 274 del 2000”.
Conclusioni
La sentenza in questione è sicuramente condivisibile in quanto il frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico.
In particolare, tra le questioni affrontate, si ribadisce un costante orientamento nomofilattico secondo il quale nel processo dinanzi al giudice di pace non sono applicabili gli istituti della sospensione condizionale della pena e della non menzione e tale opzione è compatibile con il principio di eguaglianza e con il diritto di difesa previsti dagli artt. 3 e 24 della Costituzione, alla luce degli obiettivi finali che si propone il sistema procedimentale e sanzionatorio di cui al d.Igs. n. 274 del 2000.
Del resto, a conferma della bontà di tale approdo ermeneutico, la Consulta, come evidenziato dalla stessa Cassazione in siffatta pronuncia, per quanto attiene la sospensione condizionale della pena, non ha ravvisato nessun profilo di criticità costituzionale.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, dunque, si ribadisce, non può che essere positivo.
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