Fatto
Un paziente aveva convenuto in giudizio un ospedale di Roma e il medico che lo aveva seguito nel proprio percorso diagnostico-terapeutico, chiedendo al tribunale di Roma la condanna solidale di entrambi i convenuti al risarcimento dei danni dal medesimo subiti.
In particolare, il paziente sosteneva che il 6 luglio 2000 era stato ricoverato presso la struttura sanitaria, dove era rimasto fino al successivo 16 agosto, a causa di una febbre di origine sconosciuta e che al momento delle dimissioni l’ospedale e il medico, nonostante una serie di accertamenti diagnostici effettuati, non avevano individuato l’origine della febbre e della patologia del paziente. Quest’ultimo, poi, proseguiva sostenendo che il successivo mese di settembre era stato nuovamente ricoverato, sempre presso lo stesso ospedale, per oltre due mesi, con la solita diagnosi di febbre di origine sconosciuta e con la somministrazione di una cura a base di farmaci steroidei e immunostimolanti. Successivamente, precisamente nel gennaio del 2001, in considerazione del fatto che i sintomi persistevano veniva nuovamente ricoverato e poi dimesso dopo essere stato sottoposto ad un ciclo di chemioterapia, con una diagnosi di mieloma multiplo in secondo stadio. Ancora, nel marzo del 2001, il paziente veniva nuovamente ricoverato perché accusava forti dolori a carico della colonna vertebrale e veniva dimesso con la diagnosi di algia al rachide a causa della compressione data dal mieloma multiplo. Infine, il paziente che, nel maggio del 2001, era stato sottoposto ad un intervento di scheletrizzazione dorsale dal quale risultava la presenza di materiale purulento che era stato trattato con un antibiotico.
In conclusione di tale excursus, il paziente sosteneva di esser rimasto paraplegico e che le conseguenze di tale situazione erano ormai irreversibili, addebitando la responsabilità di ciò alla condotta omissiva della struttura sanitaria e del medico che non avevano accertato la causa della patologia.
Il tribunale di Roma, tuttavia, rigettava la domanda risarcitoria formulata dall’attore e successivamente la corte d’appello, adita da quest’ultimo, confermava la bontà della sentenza di primo grado.
Il paziente proponeva, quindi, ricorso alla corte di cassazione basandosi su una serie di motivi, fra i quali – per quanto qui di interesse – quello inerente la erronea interpretazione da parte della corte territoriale delle regole relative alla ripartizione dell’onere probatorio fra le parti.
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La decisione della Corte di Cassazione
Preliminarmente la corte di cassazione ha esaminato in maniera accurata il motivo di ricorso invocato dal paziente e relativo al riparto della distribuzione dell’onere probatorio tra le parti in materia di responsabilità contrattuale.
In particolare, il ricorrente ha evidenziato che la consulenza tecnico d’ufficio svolta nel giudizio di merito, nonostante avesse individuato che all’interno della cartella clinica mancavano le immagini della risonanza magnetica e della TAC, avrebbe omesso di indicare le conseguenze dal punto di vista medico legale di tale mancanza, nonostante tale mancanza delle immagini avrebbe impedito di individuare i motivi per cui il medico e la struttura sanitaria avessero omesso di diagnosticare la patologia di cui soffriva il paziente. In considerazione di ciò, secondo il ricorrente, la corte d’appello – respingendo il gravame per mancata prova del nesso di causalità – avrebbe così agevolato i convenuti, sui quali grava l’obbligo di provare che l’omessa diagnosi non avesse causato il danno subito dal paziente. Infatti, sempre secondo il ricorrente, la responsabilità contrattuale gravante sulla struttura sanitaria e sul medico determinerebbe a carico di questi ultimi l’onere di dimostrare di non essere inadempienti oppure che non vi sia alcun collegamento causale tra l’inadempimento lamentato dall’attore e il danno da quest’ultimo subito: conseguentemente, l’incertezza circa il nesso causale sarebbe sfavorevole per i convenuti, determinando il mancato assolvimento dell’onere probatorio sui medesimi gravanti.
In altri termini, secondo il ricorrente, il paziente, nell’ipotesi di responsabilità contrattuale, deve soltanto dimostrare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di una nuova patologia. Invece, spetta al convenuto dimostrare il proprio adempimento oppure che non sussiste un nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno subito dal paziente: pertanto, secondo il ricorrente, l’incertezza circa il fatto che il mieloma riscontrato del paziente avesse provocato la paraplegia da quest’ultimo lamentata, avrebbe dovuto condurre la corte d’appello a riconoscere la responsabilità dei convenuti e non invece a sostenere (come invece fatto nel caso di specie), che non fosse stato provato il nesso di causalità fra danno e inadempimento.
La corte di cassazione ha ritenuto infondata l’argomentazione difensiva invocata dal ricorrente, ritenendo che la modalità con cui la corte di appello avesse distribuito l’onere probatorio nel giudizio de quo fosse corretta ed in linea con l’orientamento dominante della stessa suprema corte, secondo cui il creditore (in questo caso, il paziente danneggiato) deve dimostrare il nesso di causalità tra la condotta posta in essere dal debitore e l’evento dannoso che egli lamenta: pertanto, la causa ignota dell’evento dannoso va a discapito del creditore stesso.
Nello specifico, gli Ermellini hanno richiamato una propria precedente pronuncia del novembre 2019 secondo cui la ripartizione dell’onere causale probatorio, così come ricostruita dal ricorrente, risulta ingiustificata, in quanto il suo accoglimento determinerebbe l’eliminazione dell’elemento del nesso di causalità dalla fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento per inadempimento contrattuale.
In considerazione di ciò, la corte di Cassazione ritiene che il creditore che agisce per il risarcimento danni da inadempimento contrattuale deve provare l’esistenza del nesso di causalità fra la condotta del debitore e l’evento dannoso lamentato e nel fornire la prova di ciò può avvalersi anche delle presunzioni. Una volta dimostrato il primo ciclo causale (e soltanto dopo tale dimostrazione), spetterà al debitore convenuto dimostrare di aver adempiuto alla propria prestazione oppure che l’inadempimento è dipeso dall’impossibilità di eseguire la prestazione per causa a lui non imputabile.
In considerazione di tutto quanto sopra, gli ermellini ritengono che, nel caso in cui non venga dimostrata la causa dell’evento dannoso, anche attraverso l’utilizzo di presunzioni, tale mancata prova va a discapito del creditore e pertanto si dovrà ritenere che lo stesso non ha assolto all’onere probatorio su di lui gravante. Invece, nel caso in cui sia ignota la causa che ha reso impossibile la prestazione del sanitario ovvero non sia stato dimostrato che la causa che ha reso impossibile la prestazione era imprevedibile ed inevitabile, sarà il debitore convenuto a subire le conseguenze negative di tale mancata prova, dovendosi ritenere che egli non ha assolto all’onere probatorio gravante. Con la precisazione finale che, come evidenziato dalla stessa cassazione, tale secondo onere probatorio sorge (e deve conseguentemente essere assolto dal debitore convenuto) soltanto nel caso in cui il creditore abbia già dimostrato il primo ciclo causale.
In conclusione, la corte di cassazione ha rigettato il ricorso e confermato la decisione dei giudici di merito.
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