Uno degli elementi costitutivi dell’illecito penale comune a tutte le teorie del reato (tripartita, quadripartita e bipartita) è, in uno all’elemento oggettivo e a quello soggettivo, il nesso eziologico che deve necessariamente intercorrere tra l’azione o l’omissione realizzata dal soggetto attivo e l’evento giuridico dal quale, la fattispecie astratta fa dipendere l’esistenza del reato.
Tale affermazione costituisce applicazione e manifestazione del principio di personalità della responsabilità penale sancito dall’articolo 27 della Carta Costituzione, ai sensi del quale, appunto, “la responsabilità penale è personale”.
Affinché, quindi, un soggetto possa essere rimproverato per la sua condotta, è necessario, non solo che la stessa sia espressamente prevista dalla legge come reato e perciò sia qualificata come illecita e antigiuridica, ma anche che l’evento dannoso o pericoloso cagionato e previsto dalla fattispecie delittuosa astratta, sia conseguenza della propria azione od omissione.
L’articolo 40 del codice penale dispone, infatti, che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”.
Una volta espressa la necessaria sussistenza di un collegamento materiale tra condotta ed evento al fine dell’integrazione di qualsivoglia illecito penale, il codice penale nulla più dispone circa la sua effettiva consistenza, tanto meno elenca, descrive o esprime i criteri ai quali l’interprete si deve attenere in sede di accertamento dell’esistenza del nesso di causalità in esame, lasciando in questo modo il compito di individuarli alla dottrina e alla giurisprudenza.
La teoria che ha avuto maggior successo è quella della condicio sine qua non, secondo la quale una condotta può dirsi causa dell’evento esclusivamente se, tolta la prima, l’evento non si sarebbe verificato.
Ai fini dell’accertamento, quindi, l’interprete dovrà effettuare un giudizio controfattuale su base ipotetica costituito in due fasi: nella idealizzazione del fatto concreto realmente accaduto e nella successiva eliminazione mentale e ipotetica della condotta e conseguente verificazione della realizzazione dell’evento indipendentemente dall’azione od omissione.
Nel caso in cui l’organo giudiziario constati che l’evento non si sarebbe verificato senza il comportamento posto in essere dal soggetto attivo, il collegamento materiale dovrà ritenersi integrato, mentre, nell’ipotesi in cui venga accertato che l’evento dannoso o pericoloso si sarebbe comunque verificato, il nesso eziologico non potrà ritenersi sussistente.
La teoria de qua, se da un lato ha il pregio di individuare un criterio concreto e non certamente discrezionale di accertamento, dall’altro espone il fianco ad una serie di critiche difficilmente obiettabili il cui accoglimento determina notevoli conseguenze applicative.
In primo luogo, se è vero che un evento può dirsi conseguenza di una condotta solo ed esclusivamente nell’ipotesi in cui da questa derivi, è altrettanto vero che la teoria condizionalistica esprime un collegamento materiale vuoto, in quanto privo di elementi in base ai quali poter effettivamente accertare la sostanza dello stesso.
In secondo luogo, portata alle sue estreme conseguenze la teoria in esame non è in grado di risolvere, o meglio, di trovare il nesso materiale in tutte quelle fattispecie concrete nelle quali si verifica la cosiddetta causalità addizionale, ovvero nelle quali vengono realizzate disgiuntamente ma in concomitanza, da parte di due soggetti, due condotte entrambe idonee alla causazione dell’evento. Si pensi a due soggetti che versano contemporaneamente due identiche dosi mortali di una sostanza velenosa nel bicchiere della vittima. In questo caso, applicando la teoria della condicio sine qua non nessuno dei due autori potrebbe essere ritenuto responsabile dell’evento morte, in quanto eliminando idealmente le rispettive condotte, questo si sarebbe verificato ugualmente.
Tale teoria, inoltre, non ha un “limite di arresto”, cosicché sarebbe possibile un regresso all’infinito che porterebbe, per esempio, a ritenere colpevole anche la madre dell’omicida, in quanto se non avesse partorito il soggetto, l’omicidio non sarebbe stato commesso.
Ancora, in caso di causalità alternativa ipotetica, nella quale cioè venga accertato che un altro processo causale diverso da quello verificatosi in concreto avrebbe comunque causato l’evento, come nel caso di omicidio di un soggetto che sarebbe comunque morto a distanza di breve tempo, la teoria in esame porterebbe ad escludere la rilevanza penale della condotta omicida.
Al fine di colmare tali lacune, la dottrina e la giurisprudenza hanno introdotto diversi correttivi quali quello della causalità adeguata che reputa sussistente il nesso causale quando l’evento si configura quale sviluppo normale, probabile e prevedibile, ovvero costituisce concreta manifestazione del rischio che la norma mirava a neutralizzare e la teoria della causalità umana, secondo la quale possono considerarsi causati dall’uomo solamente gli eventi che quest’ultimo sia in grado di dominare e che rientrano nella sua sfera di signoria.
La teoria della condicio sine qua non è inoltre priva di elementi idonei al fine di poter affermare che un determinato evento è conseguenza di una determinata azione od omissione.
Si tratta di un problema che determina notevoli conseguenze applicative.
In merito a ciò, la giurisprudenza ha compiuto un percorso logico che può essere riassunto come segue.
In un primo momento accolse il cosiddetto metodo individualizzante, cioè sosteneva la sussistenza del nesso eziologico sulla base della mera connessione tra eventi.
In un secondo momento nell’accertamento del nesso materiale si affidò alle cosiddette massime di esperienza.
Entrambi i criteri su esposti vennero ampiamente criticati in dottrina in quanto lasciavano al Giudice ampio margine di discrezionalità con la conseguenza di rendere incerta la verificazione della sussistenza del nesso causale.
Negli anni ’90, al fine di rispettare il principio di legalità e di tassatività è stata ufficialmente affermata l’esigenza di utilizzare leggi scientifiche di copertura per l’accertamento dei meccanismi causali.
Da ciò deriva che, attualmente, un evento può essere considerato conseguenza di una condotta quando è la migliore scienza a ad aver dimostrato che esso rientra nel novero degli accadimenti che, sulla base di una successione regolare di eventi, sono regolarmente causati da quel determinato comportamento.
Le leggi scientifiche di copertura possono portare ad un accertamento certo ed assoluto se sono caratterizzate da universalità, ovvero se sono inidonee ad essere contraddette oppure possono portare ad un accertamento non assoluto ma probabile o possibile. In quest’ultimo caso il nesso di causalità è verficato mediante leggi statistiche, cioè da leggi attestanti che il verificarsi di un evento ( in questo caso la condotta) è accompagnato dal prodursi di un altro evento (dannoso o pericoloso) in una certa percentuale di casi.
È stato proprio il costante utilizzo delle leggi statistiche e probalistiche a far sorgere il quesito del quando e raggiunta quale percentuale un evento può dirsi causato da un altro.
A tali domande hanno dato risposta le Sezioni Unite con la sentenza Franzese, la quale, al fine dell’accertamento della sussistenza del collegamento eziologico, ha stabilito che oltre alla probabilità statistica deve essere verificata anche la probabilità logica.
Secondo la sentenza dell’11 settembre 2002, n. 30328, nell’accertare un determinato collegamento materiale, il Giudice non può limitarsi all’utilizzo di regole statistiche ma deve necessariamente analizzare l’evidenza probatoria al fine di escludere o ritenere sussistente un’altra logica e alternativa ragione sottesa alla verificazione dell’evento.
Da ciò ne consegue che sulla base delle prove raccolte in giudizio può evincersi l’insussistenza nel nesso eziologico nel caso in cui l’evento sia stato causato da una circostanza estranea alla condotta del soggetto agente anche se la legge scientifica di copertura lo annovera tra le conseguenze altamente probabili di quest’ultima.
Con la sentenza franzese, quindi, è venuto meno qualsiasi tipo di automatismo tra l’elevato coefficiente di probabilità e l’esito dell’accertamento giudiziale, con la conseguenza che possono ritenersi causati da quella determinata condotta anche eventi che, secondo la migliore scienza, non costituiscono conseguenza altamente probabile della stessa, ma che sono ritenuti tali in quanto, nel giudizio non si è evinta alcuna causa alternativa, mentre possono non essere ritenute causative di quell’evento condotte che statisticamente hanno un elevatissimo coefficiente di probabilità causale se all’interno del giudizio vi è stata prova della sussistenza di un evento alternativo idoneo.
Ciò detto, il codice penale dopo aver sancito la clausola di equivalenza tra condotte attive ed omissive, con la locuzione “ “non impedire un evento, che si ha l’obbligo di impedire, equivale a cagionarlo” di cui al secondo comma dell’articolo 40 c.p., disciplina il concorso di cause.
Ai sensi dell’articolo 41 del codice penale “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”.
In relazione alle cause preesistenti e simultanee, nulla quaestio, non sono mai idonee ad interrompere il nesso causale per l’ovvia ragione che, essendo antecedenti alla condotta sono conoscibili dal soggetto agente che quindi è posto in grado di porre in essere la propria condotta nella consapevolezza della loro esistenza.
Per ciò che concerne, invece, le cause sopravvenute, il secondo comma dell’articolo 41 del codice penale stabilisce che sono idonee ad escludere il nesso eziologico quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. Il terzo comma, ancora, prevede che la disposizione di cui sopra trovi applicazione anche nel caso in cui la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consista nel fatto illecito altrui.
La norma in esame ha dato causa a numerosi orientamenti. Secondo alcuni il secondo comma fa riferimento a cause sopravvenute del tutto autonome ed operanti in assoluta indipendenza rispetto alla condotta del soggetto, cosicché l’evento non può dirsi conseguenza della condotta analizzata in giudizio quando è riconducibile in via esclusiva alla causa sopravvenuta.
Tale affermazione suscita numerose critiche considerato il fatto che, se le cause inidonee ad escludere il nesso eziologico fossero solo quelle del tutto autonome rispetto alla condotta posta in essere, la norma non sarebbe altro che una mera ripetizione del primo comma.
Secondo un altro orientamento, invece, la causa sopravvenuta di cui al secondo comma dell’articolo 41 consiste in un processo causale che, seppur non completamente avulso dalla condotta dell’agente, deve comunque caratterizzarsi per atipicità, anormalità ed eccezionalità.
All’interno di questa corrente vi è chi ritiene che l’evento debba essere ricollegato alla condotta quando ne costituisce sviluppo normale, logico e prevedibile o comunque non improbabile. In questo caso il Giudice dovrebbe, nel compiere una prognosi postuma sulla base dei dati esistenti al momento della condotta, confrontare il decorso causale effettivamente verificatosi con quello che invece era prevedibile.
Altra dottrina considera la causa sopravvenuta idonea da sola ad escludere il nesso di causalità solo quella che fuoriesce dalla sfera di signoria del soggetto sfuggendo, quindi, al suo potere di controllo.
Ciò posto, i principi sopra enunciati trovano applicazione anche in tutte quelle ipotesi in cui il l’organo giudicante è chiamato a pronunciarsi e ad accertare il nesso eziologico in presenza di condotte colpose del soggetto offeso dal reato.
Secondo costante giurisprudenza, infatti, il collegamento materiale non è escluso in quanto chi pone in essere situazioni di pericolo risponde anche delle conseguenze derivanti dai comportamenti imprudenti delle vittime.
Il principio in esame resta fermo anche qualora la condotta consista in comportamenti omissivi da parte di chi aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento così come disposto dalla clausola di equivalenza di cui all’articolo 40 cod. pen. Sopra citato.
L’applicazione della clausola di equivalenza di cui all’articolo 41, secondo comma e quello della sussistenza del nesso causale anche in presenza di una condotta colposa della vittima, è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza in materi di infortuni sul lavoro.
In linea generale si ritiene che il datore di lavoro, colpevole di non aver predisposto le misure di prevenzione antinfortunistiche, risponde anche se l’evento si è verificato per un comportamento imprudente del lavoratore salvo che quest’ultimo si caratterizzi per anormalità ed imprevedibilità.
Queste caratteristiche si potrebbero configurare nel caso in cui il lavoratore ponga in essere, di sua iniziativa, un comportamento anomalo, non rientrante, per esempio, nell’ambito della fasi di lavoro a lui affidate.
Affinché il datore di lavoro possa invocare l’esimente della causa sopravvenuta, non solo è necessario il comportamento abnorme del lavoratore ma dovrà, inoltre e soprattutto dimostrare di aver adempiuto alle prescrizioni antinfortunistiche anche sotto il profilo della prevenzione tecnica, ossia l’adeguamento degli impianti alla tecnologia più evoluta sul mercato.
Dovrà dimostrare di aver adempiuto al dovere informativo e formativo che impone di rendere edotti o lavoratori dell’uso corretto di tutti gli strumenti, nonché di aver effettuato un adeguata sorveglianza e vigilanza circa il rispetto, nei locali aziendali, della normativa antinfortunistica e delle prescrizioni dettate dal datore stesso.
Diverso dalla verifica circa l’interruzione del nesso causale da parte della condotta colposa del lavoratore è, invece, il criterio di accertamento del nesso eziologico nel caso in cui l’evento si verifichi a distanza di tempo dal fattore causante.
Questa è l’ipotesi, per esempio, del mesotelioma pleurico, un affezione tumorale che ha una stretta relazione con l’inalazione di polveri di amianto.
Tre sono i problemi interpretativi sorti in relazione a tali malattie: la dimostrazione della causa delle stesse dal contatto con l’amianto, la dimostrazione della responsabilità delle condotte poste in essere da soggetti diversi e succedutisi nel tempo in capo ai quali vigeva la responsabilità della direzione degli impianti e, in ultimo luogo, la dimostrazione dell’omissione, da parte di questi soggetti, delle cautele idonee ad evitare la patologia o comunque ad attenuare il rischio di insorgenza della stessa.
Tutti e tre i quesiti su esposti sono stati affrontati recentemente dai processi “Montefibre 2011”.
La vicenda oggetto di accertamento giudiziale riguardava la mancata adozione da parte della dirigenza dell’azienda, della cautele idonee ad escludere o comunque ad attenuare l’inalazione di polveri di amianto da parte dei lavoratori dipendenti.
In primo grado. Il Giudice ha ritenuto di differenziare, sotto il profilo causale, le patologie contratte dalle vittime, riconoscendo il collegamento materiale tra inalazione e patologia solamente ai lavoratori colpiti da asbestosi e non da mesotelioma pleurico, con la conseguenza che i dirigenti dell’azienda vennero riconosciuti colpevoli di omicidio colposo relativamente alle morti per asbestosi. A tali conclusioni il Giudicante era pervenuto sulla base delle conoscenze medico scientifiche disponibili che permetteva l’accertamento del nesso causale solamente nel caso in cui l’aumento delle dosi di amianto inalate accelerava i processi degenerativi della malattia cancerogena.
Se la dipendenza della riduzione dei tempi di latenza della malattia dalla quantità di amianto inalata poteva dirsi accertata, non era così per il mesotelioma pleurico, relativamente al quale, in campo scientifico, vi erano due teorie inconciliabili: secondo la prima il mesotelioma non era dose-dipendente, per la seconda, invece, si tratta di una malattia la cui insorgenza e o gravità dipendente dalle dosi di amianto inalate ed il contatto con le sue polveri, successivo all’insorgere della malattia, accelera i tempi di latenza, anticipando l’evento morte.
La Corte di Cassazione annullò con rinvio la sentenza di secondo grado in quanto carente di motivazione nella parte in cui ha ritenuto più affidabile la teoria scientifica che individuava nel mesotelioma pleurico una malattia indipendente dalle dosi di inalazione di amianto.
La sentenza dei giudici di legittimità non fa sorgere esclusivamente problemi di natura processuale relativi alla gestione della prova scientifica e il suo utilizzo in sede di motivazione, ma ha indubbi rilievi sostanziali pertinenti all’accertamento del nesso eziologico e, precisamente, da rilievo alla cosiddetta “credibilità razionale”.
I Giudici, infatti, nella verifica della sussistenza del collegamento materiale devono accertare non solo il collegamento mediante leggi scientifiche di copertura me devono anche verificare la sussistenza o meno di spiegazioni scientifiche (basate sull’evidenza probatoria) alternative di per sé idonee ad escludere il nesso.
In questo modo la Corte di Cassazione impone ai giudici di merito un attenta analisi circa la scelta della legge scientifica di copertura che deve necessariamente avvenire utilizzando il criterio della credibilità razionale secondo quanto statuito con la sentenza Franzese.
In questo frangente e come già evidenziato sopra, sebbene si ritenga che sia più difficile l’accertamento della sussistenza del collegamento materiale, la giurisprudenza ritiene l’idoneità dei criteri della probabilità statistica accompagnata da quella logica, così come affermato nella sentenza Franzese.
Per completezza espositiva si rileva che il processo Montefibre si concluse con una sentenza di assoluzione nel merito per assenza di una valida legge scientifica di copertura idonea a spiegare il collegamento materiale tra la condotta degli imputati e le morti dei lavoratori. Specificamente, i Giudici non potevano essere in grado di scegliere tra due leggi scientifiche altrettanto valide ed attendibili, quella idonea ad essere applicata al caso concreto, tanto meno di motivare tale scelta.
Per completezza occorre rilevare che la sentenza della Corte di legittima, oltre ad analizzare i criteri di accertamento del nesso eziologico, si sofferma non solo sulla posizione di garanzia dei soggetti imputati, ma, una volta ritenuta sussistente questa, anche sul problema legato alla responsabilità dei vari soggetti preposti alla dirigenza e o dei loro delegati che si sono succeduti nel tempo. In questo frangente, la sentenza merita essere richiamata nella parte in cui dispone che “ in caso di successione di posizioni di garanzia, in base al principio dell’equivalenza delle cause, il comportamento colposo del garante sopravvenuto non è sufficiente ad interrompere il rapporto di causalità tra la violazione di una norma precauzionale operata dal primo garante e l’evento, quando tale comportamento non abbia fatto venir meno la situazione di pericolo originariamente determinata”.
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