La struttura sanitaria non risponde dell’esame omesso se questo non avrebbe comunque modificato le possibilità dell’evento dannoso. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica
Indice
1. I fatti: l’omissione dell’esame della struttura sanitaria
A causa di dolori uterini, una signora incinta si era presentata al Pronto Soccorso di un ospedale pugliese, dove le era stato diagnosticato il giorno successivo un aborto “ritenuto”. In ragione delle conseguenti procedure di revisione della cavità uterina, la signora era stata sottoposta ad un elettrocardiogramma da cui risultava una “verosimile onda delta”.
Un anno dopo, la medesima signora, nuovamente incinta, si era recata presso un altro ospedale dove le era stato eseguito un altro elettrocardiogramma senza che vi fosse alcun cenno alla presenza di una “onda delta”. Circa un mese dopo, la signora aveva effettuato un parto cesareo, facendo nascere il figlio.
Poco meno di un anno dopo, la signora era colta da un malore improvviso e priva di coscienza, di battito cardiaco e senza respiro, veniva trasportata all’ospedale, dove inizialmente veniva dichiarata morta con diagnosi di arresto cardiocircolatorio.
Fortunatamente, poche ore dopo, a seguito delle manovre di rianimazione, riprendeva l’attività cardiaca della paziente, che veniva quindi ricoverata al reparto di anestesia e rianimazione e poi dimessa, con postumi da invalidità permanenti pari al 75%.
A seguito della consulenza cardiologica effettuata durante l’ultimo evento drammatico che aveva visto coinvolta la signora, veniva accertato che la signora aveva avuto un arresto cardiaco con presenza di onda delta da sindrome tipo WPW.
La paziente aveva quindi convenuto in giudizio il primo ospedale chiedendo la sua condanna al risarcimento dei danni subiti, stante l’inadempienza dei sanitari per aver sottovalutato la comparsa dell’onda delta e per aver eseguito la revisione della cavità uterina senza prendere in visione gli esami preliminari prima di adottare le procedure chirurgiche.
La struttura sanitaria si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda, stante la sua infondatezza, in ragione della mancanza di responsabilità dei sanitari della causazione dei danni lamentati. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica
Manuale pratico operativo della responsabilità medica
La quarta edizione del volume esamina la materia della responsabilità medica alla luce dei recenti apporti regolamentari rappresentati, in particolare, dalla Tabella Unica Nazionale per il risarcimento del danno non patrimoniale in conseguenza di macrolesioni e dal decreto attuativo dell’art. 10 della Legge Gelli – Bianco, che determina i requisiti minimi delle polizze assicurative per strutture sanitarie e medici. Il tutto avuto riguardo all’apporto che, nel corso di questi ultimi anni, la giurisprudenza ha offerto nella quotidianità delle questioni trattate nelle aule di giustizia. L’opera vuole offrire uno strumento indispensabile per orientarsi tra le numerose tematiche giuridiche che il sottosistema della malpractice medica pone in ragione sia della specificità di molti casi pratici, che della necessità di applicare, volta per volta, un complesso normativo di non facile interpretazione. Nei singoli capitoli che compongono il volume si affrontano i temi dell’autodeterminazione del paziente, del nesso di causalità, della perdita di chances, dei danni risarcibili, della prova e degli aspetti processuali, della mediazione e del tentativo obbligatorio di conciliazione, fino ai profili penali e alla responsabilità dello specializzando. A chiusura dell’Opera, un interessante capitolo è dedicato al danno erariale nel comparto sanitario. Giuseppe Cassano, Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche della European School of Economics di Roma e Milano, ha insegnato Istituzioni di Diritto Privato presso l’Università Luiss di Roma. Avvocato cassazionista, studioso dei diritti della persona, del diritto di famiglia, della responsabilità civile e del diritto di Internet, ha pubblicato numerosissimi contributi in tema, fra volumi, trattati, voci enciclopediche, note e saggi.
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2. Le valutazioni del Tribunale
La responsabilità della struttura sanitaria riveste carattere contrattuale.
La stessa può derivare dall’inadempimento del contratto concluso tra detta struttura e il paziente (il contratto di spedalità, che si perfeziona al momento dell’accettazione del paziente all’interno della struttura), da cui insorgono a carico della struttura delle obbligazioni di natura mista: quelle derivanti da un rapporto di carattere alberghiero e quelle derivanti dall’organizzazione di strutture e dotazioni, anche umane, per l’esecuzione della prestazione medica.
La responsabilità della struttura però può derivare anche dall’inadempimento della prestazione svolta direttamente dal medico quale ausiliario necessario della struttura anche in assenza di un rapporto di lavoro subordinato.
In ragione della qualificazione come contrattuale, della responsabilità della struttura sanitaria, derivano le regole di ripartizione dell’onere probatorio a carico delle parti.
Il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto di spedalità e l’evento dannoso, consistente nell’aggravamento della preesistente patologia o della sua inalterazione oppure nell’insorgenza di una nuova condizione patologica del paziente, nonché che detto evento sia causalmente riconducibile alla condotta commissiva o omissiva della struttura sanitaria o dei medici.
In particolare, il paziente è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale tra condotta del medico in violazione delle regole di diligenza ed evento dannoso, non essendo sufficiente la semplice allegazione dell’inadempimento del professionista.
Invece, la struttura sanitaria dovrà provare che la prestazione professionale sia stata eseguita secondo la migliore scienza ed esperienza medica e che l’evento infausto sia stato determinato da un evento imprevisto e imprevedibile, ovvero causalmente estraneo all’operato del personale medico, ovvero che l’inadempimento, ove pur esistente, non sia stato la causa dell’evento dedotto, o comunque sia rimasto alieno alla sua sfera soggettiva di signoria, non essendo imputabile alla struttura medesima.
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3. La decisione del Tribunale
Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto che – anche in base a quanto emerso dalla relazione dei CTU – non sussistesse il nesso di causalità fra l’evento dannoso lamentato dalla paziente e la condotta omissiva imputata ai sanitari della convenuta.
In particolare, i periti nominati d’ufficio hanno accertato che i risultati dell’elettrocardiogramma eseguito dai medici della convenuta non avrebbe permesso, in assenza di altri dati o di sintomi riportati dalla paziente, di diagnosticare la sindrome WPW di cui era affetta l’attrice. Infatti, secondo i periti, per poter definire la presenza di detta sindrome avrebbero dovuto esserci dei sintomi correlati all’aritmia (come palpitazioni, dolore toracico, sincope, morte cardiaca improvvisa), che però non nel caso di specie non sussistevano.
In altri termini, al momento del ricovero della paziente nel primo ospedale, non vi era alcun sintomo dalla medesima lamentato che potesse far presupporre, anche in via indiretta, che la stessa fosse affetta dalla sindrome di WPW.
In secondo luogo, i CTU hanno accertato che i trattamenti chirurgici cui è stata sottoposta la paziente (in particolare, la revisione della cavità uterina per aborto nel primo ospedale e il parto cesareo nel secondo ospedale) si sono svolti senza alcuna complicanza che potesse far pensare in qualche misura alla anomalia cardiaca di cui la paziente era affetta. Infatti, gli interventi si sono svolti senza complicanze cardiologiche e/o anestesiologiche.
Pertanto, i CTU hanno ritenuto che i medici non disponessero di ulteriori elementi per diagnosticare tempestivamente la patologia.
In considerazione di quanto sopra, il giudice ha ritenuto che al momento in cui la paziente è stata ricoverata nella struttura sanitaria convenuta non vi era alcuna indicazione che imponesse ai medici di eseguire degli interventi capaci di ridurre al minimo qualsivoglia rischio aritmico correlato alla presenza della sindrome di cui era affetta la paziente.
Inoltre, quand’anche i medici avessero fatto effettuare la valutazione cardiologica sulla paziente, ciò non avrebbe comunque modificato concretamente la possibilità di verificazione dell’arresto cardiaco, perché le risultanze non avrebbero comunque portato i medici ad eseguire i predetti interventi (stante l’elevato rischio di complicanze peri-procedurali che, secondo un rapporto rischi/benefici, ne avrebbe sconsigliato l’esecuzione).
Tenuto conto di ciò, il giudice non ha ritenuto provato il nesso causale tra la condotta omissiva addebitata ai sanitari dei convenuti e l’arresto cardiaco subito dalla paziente (che aveva determinato poi la sua invalidità al 75%) ed ha così rigettato la domanda attorea.
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