Premessa
Asor Rosa sottolinea che la disfatta italiana del XVI secolo, tra i suoi effetti negativi e durativi nel tempo, fece emergere un concetto di politica fondato sull’arte di sfruttare a proprio vantaggio tutte le occasioni possibili, anziché di cercare di pilotare gli eventi, questo al fine della pura sopravvivenza ( A. Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta, Einaudi, 2019).
Se è pur vero che la politica è l’arte del possibile, vi deve essere comunque un equilibrio tra l’adattarsi e il cercare di porre equilibri più avanzati, che pieghino gli eventi a proprio favore e della comunità che si rappresenta.
Viene a mancare una élite permanente che, fornita di proprie “virtù”, sia in grado di produrre nel tempo personalità di statura e non solo navigatori a vista, forniti di visioni stagionali.
La Chiesa ne risulta in parte causa ma anche comodo capo espiatorio per le mancanze delle élite, della loro rissosità, favorita dalle differenze culturali dovute al corso della storia e alla sua frammentazione politica comunale di una visione unitaria.
Un politicismo e moralismo che nasconde in sé un amoralismo, i cui comportamenti apertamente opportunistici hanno legittimato e favorito.
Per sfuggire alla decadenza vi è la necessità di un riferirsi ai principi su cui è stata fondata la comunità e questo non può che avvenire per pressioni esterne o prudenza intrinseca.
Tuttavia il ritorno ai principi è sottoposto a una doppia condizione, che questi siano chiaramente riconosciuti e rettamente intesi, ma anche oggettivamente definite e riconosciute le condizioni storiche entro cui effettuare il ritorno. Oggettività storica e realismo politico ne sono le condizioni.
Non si può in questo agire fare calcolo sulla buona volontà degli uomini, essendo l’essere impastato di cattiva e buona volontà. Vi è pertanto la necessità di rispondere al male con il male, sorge tuttavia il dubbio se questa sia la via corretta non solo per acquisire il potere, ma soprattutto per mantenerlo.
Machiavelli osserva che si sono mantenuti al potere solo coloro che una volta giunti hanno convertito il male in bene, dando utilità ai sudditi. Costoro “possono con Dio o con gli uomini avere allo stato loro qualche rimedio” (Princ. 8).
I limiti sono pertanto in Machiavelli all’interno dell’agire politico, nella responsabilità del politico che presuppone una libertà dell’uomo, ma anche una problematicità storica.
Se la fortuna è metà dell’agire, solo una “ordinata virtù” ne può porre i limiti e in questo vi è la necessità di rifarsi alle salde radici del passato ( Princ. 25).
Vi è quindi una tensione tra fortuna e libertà, dove l’impossibilità di eliminare qualsiasi rischio è limitata da una propria coscienza dell’agire storico, evitando giravolte inconcludenti e bruschi cambiamenti di fortune. ( Disc. II, 30).
(N. Abbagnano, Storia della filosofia, Machiavelli, Vol. II, UTET, 1974)
Analisi
Nicolò Machiavelli fonda la moderna scienza politica, che attraverso la costituzione dello Stato moderno del XVII secolo, il pensiero di Locke, Hobbes, Montesquieu,la Rivoluzione inglese e francese, l’idealismo tedesco, il romanticismo, sfocia nel corso del Novecento con Mongenthau nella nascita della scienza delle relazioni internazionali (Bonanate).
La personalità di Machiavelli può definirsi nell’unità del compito politico e dell’indagine storiografica. Tutta la vita del Machiavelli è dedicata al tentativo di realizzare una comunità politica italiana.
“Il Principe” e “I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio” (1513) sono le opere che meglio rivelano la caratteristica del pensiero di Machiavelli e che fa di lui il primo scrittore politico dell’età moderna.
Uno dei principi fondamentali del pensiero del Machiavelli è che l’indagine, in qualsiasi campo si faccia, non può essere condotta che sul terreno della esperienza. Fedeltà alle cose, umiltà di fronte alle cose, lasciare che siano esse a dirci la “verità”.
Occorre pertanto essere fedeli alle origini, alla spontaneità dell’agire e dell’essere umano nel suo specifico ambito naturale.
Nei fatti storici vi è una radice segreta che va scoperta e illustrata, questa radice è la “necessità” dei fatti storici. Necessità che distrugge gli Stati nonostante la buona volontà dei sovrani o la saggezza degli stessi .
Il mutamento, il moto dei tanti e vari fatti storici avviene in uno schema interno, uno schema di necessità perché la natura (secondo l’aristotelismo) è ciclo compiuto, nel quale si trovano tutte le vicende che si sono svolte e che si ripeteranno, non resta quindi che coglierne il ritmo tipico, che ritroveremo poi in ogni avvenimento.
I Romani, insomma, ci insegnano ad affrontare le varie vicende storiche che attraversiamo.
Questo naturalismo rinascimentale, che sembra sottovalutare la stessa volontà umana (la cui esaltazione il Machiavelli sente fortemente), viene conciliato con la libertà della volontà umana nel concetto di “virtù”, o abilità, che si esplica insieme, ossia in rapporto al concetto di “fortuna”.
Libertà umana e necessità naturale possono armonizzarsi: pur nei limiti della “fortuna” (caso, arbitrio, necessità); l’atto umano si inserisce efficacemente, se “virtuoso”, se abile. Abilità: fredda, prudente, forte valutazione delle possibilità concesse dalla realtà.
Così è indispensabile (oltre la prudenza e la fredda valutazione) apprezzare l’energia, la “fortezza”: “io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che rispettivo, perché la fortuna è donna: et è necessario, volendola tener sotto, batterla e urtarla”.
Prudenza e freddezza dunque, ma anche energico e ragionato intervento.
Questa simpatia, anche estetica, per l’azione e per l’aggressione della realtà, non è per nulla in contraddizione con le premesse testé ricordate. Infatti, sarebbe grave errore considerare Machiavelli un teorico della politica, un filosofo della politica e dimenticare il trasporto, il pathos del militante politico che lo ha animato per tutta la sua esistenza. Machiavelli è infatti un politico impegnato e la sua operazione politica possiede un senso organico.
Dopo gli studi di Chabod e Sasso, è ormai un dato scontato che “Il Principe” nasce dalla presa di coscienza della crisi politica italiana alla fine del ‘400. Il suo pensiero politico è la risposta alla possibilità di soluzione positiva di quella crisi. Il “Principe” va inteso come un manifesto politico, un manifesto di partito, con relativo programma:
- Organizzazione di un nuovo Stato, fondato sulla :
- alleanza delle classi produttive urbane (borghesia) e
- delle classi rurali.
Un programma che esprime le esigenze delle forze produttive borghesi, cui Machiavelli si rivolge per persuaderle delle necessità di avere un capo.
Per educarle, cioè, alla necessità politica costituita dalle monarchie assolute (e il grosso successo della Francia sotto Luigi XI è lì a dimostrarlo).
E’ evidente che la classe borghese trova nel quadro statale della monarchia assoluta un potere egemonico, dove, la stessa può svolgere con successo il proprio ruolo storico.
Questi concetti vengono esposti dal Machiavelli sia nel Principe (capitolo IX) che nel I° Libro dei Discorsi , dove propone al “principe nuovo” una particolare “politica delle alleanze”, dove si precisa la struttura di classe del nuovo Stato e la Francia era già in tal senso strutturata.
Il quadro teorico è molto chiaro: uno Stato progredisce se la tensione di classe e lo sviluppo delle forze produttive trovano espressione adeguata nella “costituzione” dello Stato stesso.
Decadono invece gli Stati, quando le tensioni tra le classi non hanno sbocchi giuridici e istituzionali, interviene allora la necessità di una radicale riforma, di un adeguamento degli istituti alla logica dello sviluppo del sociale.
Machiavelli, nel parlare di questa conflittuale realtà del sociale, prende apertamente partito : egli sa che la feudalità è mortale per un qualsiasi ordinato sviluppo dello Stato. Discorsi: “Questi tali, i gentiluomini che oziano vivono delle rendite delle loro possessioni, sono perniziosi in ogni provincia e in ogni repubblica, ma più perniziosi sono quelli che oltre alle predette fortune comandano a castella, et hanno sudditi che ubbidiscono a loro, talché colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una repubblica, non la può fare se prima non li spegne tutti”, (dove il ricordo dell’opera di Luigi XI Valois è sin troppo evidente). I disordini politici sono attuati sempre da “chi possiede”, si ché “tali generazioni di uomini sono al tutto i nemici di ogni civiltà” (Discorsi, 1, 55).
Il popolo invece, non aspira ad altro che a non subire soprusi o oppressioni e “i desideri dei popoli liberi (ovviamente dalla feudalità) rade volte sono perniciosi alla libertà”. Per cui la tutela della libertà va affidata piuttosto al “popolo” che ai “grandi” e il principe che voglia assicurarsi un minimo di stabilità politica non può che appoggiarsi al popolo. (Discorsi, 1, 16).
Ed è una soluzione che s’impone specie nei momenti di crisi politica, quando cioè il quadro sociale è sconvolto dagli appetiti dei “grandi”. Perciò il “Principe”, per questo la necessità, per risolvere la crisi italiana, di una grossa personalità, che senza scrupoli e remore di alcun genere, spazzi via la riottosa e pericolosa feudalità, unifichi l’anarchia italiana in una monarchia assoluta, poggiante sul popolo.
“Colui che arriva al principato col favore popolare, vi si trova solo, e ha intorno nessuno o pochissimi che non siano parati a obbedire” (Principe, IX). E non si tratta soltanto di una tecnica politica che assicura il potere. Si tratta, invece, di una proposta politica: realizzare in Italia una sorta di “blocco storico” che saldi il potere centrale alle masse produttive borghesi, sul modello eminente della Francia e anche delle altre monarchie assolute.
Ecco perché il Machiavelli porta ad esempio di principe, il Valentino, Cesare Borgia, che restaura in Romagna l’ordine compromesso dall’anarchia feudale, dallo strapotere dei vari signori riottosi. Infatti, nel momento del tracollo della politica dei Borgia, lo Stato creato da Cesare resiste, mostra la sua stabilità, “ché la Romagna lo aspettò più di uno mese”. E nel cap. XIX, le lodi alla monarchia francese, al suo rigido controllo “dell’ambizione dei potenti e la insolenza loro”.
E nel fondamentale capitolo XXIV Machiavelli descrive senza mezzi termini la stessa decadenza italiana, che si spiega solo con l’incapacità dei principi italiani di stabilire un legame organico, una solidarietà organica con la base popolare.
Ed è ancora in questa prospettiva che si intende molto bene l’organicità della soluzione del problema militare.
Il suo radicale rifiuto del sistema dei mercenari e l’appassionata richiesta di milizie “cittadine”: cioè, l’organica partecipazione del polo (borghesia e i suoi clienti) alla vita dello Stato, rendere facile la costruzione di eserciti che difendono lo stato stesso. “Buone armi” e “buone leggi” sono da Machiavelli sempre associate: le buone leggi fanno ovviamente buoni cittadini e questi saranno anche buoni soldati, perché avranno da difendere le ragioni stesse della loro esistenza. Chi identifica sé con lo Stato, ne sarà anche il miglior difensore.
C’è dunque nel pensiero del Segretario fiorentino una precisa indicazione di classe, un’ispirazione democratica; democrazia che si identifica, nell’epoca, con la monarchia assoluta. Democrazia significa qui, consenso attivo delle masse popolari per la monarchia assoluta, in quanto imitatrice e distruttrice della feudalità riottosa e anarchica e capace di limitare se non di contestare il potere assoluto dei Papi.
Monarchia assoluta che è in grado di fondare vasti stati nazionali (nel nostro caso, l’unità della Penisola), di governare efficacemente con l’aiuto del “popolo” (borghesia), poggiando sullo strumento dell’esercito nazionale, centralizzato, stabile. In questo senso, si spiega il significato rivoluzionario, per il contesto italiana, del pensiero di Machiavelli.
Quanto descritto e analizzato da Machiavelli e da lui riferito al Valentino, quale esempio, può con più successo rifarsi alla creazione e consolidamento dell’Impero Ottomano avvenuto tra ‘400 e ‘500. In questo si trovano molti modi di agire e pensare che il Machiavelli auspicava in un principe italiano al fine dell’unificazione della penisola, come in particolare la necessità primaria di mantenere l’unità di comando, circostanza più volte ripetutasi nella storia, con risultati spesso molto differenti tra loro.
D’altronde non può tutto ridursi all’uso cieco della forza e della paura, se si vuole che una struttura permanga e sopravviva al suo creatore, atti di magnanimità devono intervenire, come il fiorire di una cultura in cui riconoscersi ed il premiare la capacità creativa in qualsiasi campo si esprima, dall’arte all’economia.
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