Il fatto
E’ questa l’argomentazione con cui la Corte di Cassazione, terza sezione civile, con ordinanza n. 16342 del 21 giugno 2018, ha respinto le ragioni di alcuni clienti, i quali avevano citato in giudizio il proprio avvocato, onde sentir accertare la sua responsabilità professionale ex art. 1176 comma 2 c.c. per non aver provveduto a riassumere in tempo un atto di citazione per risarcimento danni da sinistro stradale. Per effetto di ciò, il relativo diritto era stato dichiarato definitivamente prescritto. Pertanto i ricorrenti chiedevano che il legale fosse condannato al pagamento, nei loro confronti, nella somma pari all’ammontare del risarcimento richiesto.
La controversia è giunta sino alla Corte di Cassazione, la quale, confermando quanto già dedotto in secondo grado, non ha ravvisato la lamentata responsabilità professionale del legale, non avendo gli attori dato prova che la loro pretesa nei confronti dell’assicurazione (laddove l’avvocato si era reso negligente per mancata riassunzione della causa) sarebbe stata con tutta probabilità accolta, trattandosi tra l’altro di una somma che fuoriusciva dal limite indicato nel massimale di polizza.
In altri termini, il fatto che il diritto a ulteriori somme si sia prescritto per inattività processuale determinata dall’inerzia del professionista, non significa che l’azione intentata per farlo valere fosse fondata in tutti i suoi presupposti, essendo detta azione preordinata a far valere degli importi ulteriori rispetto al massimale previsto dalla polizza assicurativa, già interamente versato alla parte danneggiata.
Niente responsabilità professionale, manca la prova del danno effettivo
Pertanto la Corte d’Appello, che aveva già a suo tempo respinto la domanda attorea – sentenzia la Cassazione – ha correttamente ragionato in termini di carenza di prova del danno, costituente presupposto indefettibile dell’azione di responsabilità professionale, il cui onere incombe su chi agisce. Va in proposito dato seguito all’orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema di responsabilità professionale dell’avvocato per omesso svolgimento di un’attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, non si applica solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo – quale elemento costitutivo della fattispecie – e le conseguenze dannose risarcibili; atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell’omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante giudizio prognostico sull’esito che avrebbe potuto avere l’attività professionale omessa.
Al legale spetta il compenso
La Cassazione respinge parimenti la censura dei ricorrenti relativa alla illegittimità del corrisposto compenso professionale – cui erano stati condannati su domanda riconvenzionale del legale – siccome gli stessi avevano ricevuto un danno proprio a causa della condotta negligente del professionista.
Sul punto gli Ermellini sottolineano che la prestazione di un avvocato si configura per lo più come un’obbligazione di mezzi e non di risultato. Ciò che pone a carico del cliente che recede dal contratto d’opera, il pagamento del compenso per l’attività svolta, indipendentemente dall’utilità che ne sia derivata (salvo espressa deroga per comune volontà delle parti, nella specie non rinvenibile). Conseguentemente, nell’ipotesi in cui un’azione giudiziale svolta nell’interesse del cliente non abbia potuto conseguire alcun risultato per negligenza od omissione del professionista, non è solo per questo ravvisabile un’automatica perdita del diritto al compenso da parte del professionista medesimo, ove non sia dimostrata la sussistenza di una condotta negligente causativa dell’effettivo danno, corrispondente al mancato riconoscimento di una pretesa con tutta probabilità fondata.
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