Non è esperibile il procedimento di esecuzione penale nel caso in cui siano revocati i trattamenti previdenziali a norma dell’art. 58, c. 2, legge, 28/06/2012, n. 92

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(Ricorso rigettato)

(Normativa di riferimento: Legge, 28 giugno 2012, n. 92, art. 58, c. 2)

Il fatto

M. espiava pene concorrenti, inserite nel relativo provvedimento adottato dal pubblico ministero competente ai sensi dell’art. 663 cod. proc. pen., che includeva una condanna inflitta per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., rientrante nell’elencazione di cui all’art. 2, comma 58, legge n. 92 del 2012; condanna divenuta irrevocabile anteriormente all’entrata in vigore di tale legge.

A norma dell’art. 2, comma 61, di quest’ultima, l’Istituto nazionale della previdenza sociale, ricevuta comunicazione della condanna da parte del Ministero della Giustizia, revocava, con effetto ex nunc, la prestazione assistenziale dell’assegno sociale (ex art. 3, comma 6, legge n. 335 del 1995), di cui M. era titolare.

Di tale determinazione il condannato si era doluto proponendo incidente di esecuzione dinanzi alla Corte di assise di appello di Palermo, vale a dire il giudice che aveva pronunciato la sentenza divenuta per ultima irrevocabile, chiedendo fosse ordinata all’Istituto erogatore la riattivazione del trattamento, previo promovimento, se del caso, di apposita questione di legittimità costituzionale della disciplina legislativa in applicazione.

Il Presidente della Corte, con decreto pronunciato inaudita altera parte, ex art. 666, comma 2, cod. proc. pen., aveva dichiarato inammissibile l’istanza osservando che la revoca era stata decisa dall’Ente pubblico, titolare del rapporto pensionistico, in diretta applicazione del citato art. 2, comma 61, legge n. 92 del 2012 che è la norma transitoria volta ad assicurare l’efficacia della novella legislativa rispetto ai titoli definitivi anteriori, e nei quali la «sanzione accessoria» della revoca, introdotta a regime dal precedente comma 58 quale clausola della condanna, non poteva essere contenuta.

Tal che l’organo giudicante ne faceva discendere come non da una tale clausola, contenuta nel titolo, dipendesse dunque il provvedimento amministrativo adottato sicché, quale che fosse l’esatta natura giuridica della sanzione anzidetta, non vi era spazio per l’esercizio della giurisdizione esecutiva radicata solo da questioni concernenti l’esistenza o l’eseguibilità del titolo e le relative modalità.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso tale decisione M. ricorreva per cassazione, con il ministero del difensore di fiducia, deducendo i seguenti motivi: a) violazione di legge penale sostanziale e processuale dato che l’istanza presentata non avrebbe esorbitato dall’ambito di cognizione del giudice dell’esecuzione – il quale avrebbe, dunque, dovuto fissare apposita udienza per la trattazione dell’incidente – giacché a quest’ultimo era ormai dalla giurisprudenza riconosciuto un ampio potere d’intervento in relazione al giudicato, e non vi era dubbio che la disposta revoca fosse in stretta correlazione con la formazione di quest’ultimo, dalla quale dipende; nel caso di specie, la misura contestata avrebbe mantenuto natura sanzionatoria, anche quando derivasse da sentenza già divenuta irrevocabile, e le questioni, che la riguardavano, erano, dunque, per definizione, all’esecuzione del titolo; tal che, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, la difesa sosteneva come, operando in tal guisa, si sarebbe venuta a creare un’applicazione retroattiva incompatibile con il principio di legalità delle pene (estensibile ad ogni misura di carattere afflittivo, anche di natura accessoria), avente copertura costituzionale (art. 25, secondo comma, Cost.) e convenzionale (art. 7 CEDU) e a tale stato di cose il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto rimediare o in forza d’interpretazione adeguatrice o mediante il promovimento della questione di legittimità costituzionale; b) violazione di legge penale e di norme di cui tener conto nell’applicazione della legge penale, oltre che il vizio della motivazione giacchè, avendo M. espiato per intero la quota parte di pena imputabile al delitto mafioso-associativo, la Corte di assise di appello, nulla replicando alla relativa obiezione, si sarebbe anche sottratta al compito di verificare l’esistenza di tutti i presupposti legittimanti la disposta revoca del trattamento previdenziale.

Vedi anche:” La Consulta interviene sul codice antimafia (e non solo): vediamo come”

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva ritenuto infondato alla stregua delle seguenti considerazioni.

Si osservava prima di tutto come la legge 28 giugno 2012, n. 92, all’articolo 2, commi 58 ss., detti plurime disposizioni aventi come effetto la cessazione della corresponsione di prestazioni, in materia previdenziale e assistenziale, di cui siano titolari soggetti condannati per taluni reati di particolare allarme sociale, quali i reati di associazione terroristica, attentato per finalità terroristiche o di eversione, sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, associazione di stampo mafioso, scambio elettorale, strage e delitti commessi per agevolare le associazioni di stampo mafioso; più in particolare, evidenziava sempre la Corte, il comma 58 del citato art. 2 prevede che, nel pronunciare condanna per i reati sopra menzionati, il giudice applichi, in sentenza, la «sanzione accessoria» della revoca di una serie di prestazioni, partitamente indicate (tra cui l’assegno sociale qui in rilievo), non correlate al versamento di previa contribuzione; e possa altresì revocare i trattamenti previdenziali, ove accerti, o risulti già accertato, che essi abbiano avuto origine, in tutto o in parte, da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attività illecite mentre, da un lato, il comma 59 stabilisce che le erogazioni della prima specie possano essere ripristinate, a domanda, ove ne sussistano ancora i presupposti, una volta espiata la pena, dall’altro, il comma 60 impone l’obbligo di tempestiva comunicazione all’Istituto previdenziale dei provvedimenti adottati ai sensi del comma 58, ai fini della loro immediata esecuzione.

Una volta terminato questo excursus normativo, i giudici di Piazza Cavour facevano al contempo presente che la novella legislativa, così strutturata, istituisce, in tal modo, uno speciale statuto di “indegnità“, connesso alla commissione dei predetti reati, cui ricollega effetti sanzionatori direttamente incidenti sui trattamenti di assistenza sociale e alla sua ratio non è estraneo il rilievo criminologico che ai medesimi reati faccia da sfondo l’accumulazione, o comunque il possesso, di capitali illeciti, con quei trattamenti incompatibili; mentre il reimpiego di tali capitali in attività economiche, dirette a schermarli, è alla base dell’estensione della misura sanzionatoria ai trattamenti propriamente previdenziali che si accertino in connessione generati.

Orbene, siffatte articolate previsioni ponevano, ad avviso degli ermellini, senza dubbio, a regime, interrogativi ermeneutici, che riguardano la riconducibilità della sanzione in discorso al genus delle pene accessorie, la correlata possibilità di riferire ad essa (eventualmente anche in rapporto agli effetti extra-penali che ne sostanziano il contenuto) la cognizione del giudice dell’esecuzione, la stessa legittimità costituzionale (con particolare riferimento all’art. 38 Cost.) della sottostante disciplina afflittiva ma si sottolineava che, tuttavia, le previsioni anzidette si applicano rispetto ai processi di cognizione, relativi ai reati ricompresi nel catalogo di cui all’art. 2, comma 58, legge n. 92 del 2012, che siano pendenti alla data di entrata in vigore della novella legislativa, o rispetto a quelli successivamente instaurati, e dunque le questioni sopra individuate – che, in parte, agitavano anche il ricorso proposto – apparivano per il Supremo Consesso ininfluenti nell’odierno procedimento di esecuzione instaurato a fronte di condanne che, alla predetta data, risultavano già irrevocabili.

Posto ciò, si metteva in evidenza che, per le condanne ormai definitive alla data dell’introduzione delle nuove disposizioni, la revoca, senza efficacia per i ratei già maturati, della prestazione assistenziale è disposta direttamente dall’Ente erogatore dietro trasmissione dei relativi elenchi da parte del Ministero della Giustizia e, in questo caso, la misura di rigore opera direttamente in via amministrativa, senza l’intermediazione del provvedimento giurisdizionale penale, che ne funge solo da presupposto storico rilevandosi al contempo come si fosse nella fattispecie in esame in presenza di un mero effetto extra-penale della condanna, e non di una pena (o di una sanzione) accessoria, similmente a quanto accade allorché dalla pronuncia di sentenze irrevocabili per determinati reati automaticamente derivino, indipendentemente dall’adozione delle predette statuizioni accessorie, incapacità speciali o altre conseguenze sfavorevoli in tema di stato della persona (si veda, esemplificativamente, l’ipotesi di condanna pronunciata per reati elettorali nei confronti di un candidato, la quale in sé comporta, ai sensi dell’art. 113, commi primo e secondo, d.P.R. n. 361 del 1957, e indipendentemente dalla pena accessoria interdittiva, la temporanea privazione dall’elettorato attivo e passivo: Sez. 1, n. 31499 del 04/06/2013, omissis, Rv. 256794-01) e pertanto, alla luce di ciò, la Corte rilevava come la cessazione della prestazione assistenziale qui non costituisce (come non lo costituisce la perdita dei diritti elettorali nell’ipotesi testé prospettata: Sez. 1, n. 52522 del 16/01/2018, omissis, Rv. 274112-01) un aspetto del trattamento sanzionatorio del reato atteso che, se così fosse, si assisterebbe all’applicazione retroattiva, in malam partem, di una disposizione penale, vietata dall’art. 25, secondo comma, Cost., bensì consegue al sopravvenuto difetto di un requisito soggettivo per il mantenimento dell’attribuzione patrimoniale di durata.

Tal che se ne faceva conseguire che se dunque non vi è, come nella specie, irrogazione di alcuna pena (o sanzione) accessoria, non vi è neppure – in radice – materia per l’esercizio della giurisdizione esecutiva penale, nemmeno nella sua accezione più lata.

I giudici di legittimità ordinaria non ritenevano però che il condannato restasse privo di tutela giurisdizionale – e neppure sotto questo profilo  si sarebbe pertanto potuto permettere, de residuo, l’intervento del giudice dell’esecuzione (cfr., a contrario, Sez. 1, n. 1610 del 02/12/2014, dep. 2015, omissis,  Rv. 261999-01; Sez. 1, n. 8464 del 27/01/2009, omissis,  Rv. 243450-01; Sez. 1, n. 5455 del 30/09/1997, omissis,  Rv. 209173-01) – essendogli sempre consentito di adire il giudice ordinariamente competente a conoscere del rapporto sostanziale in contestazione che nella specie è il giudice del lavoro a cui spetta (artt. 442 ss. cod. proc. civ.) la cognizione delle controversie in tema di previdenza e assistenza obbligatorie e pertanto, si faceva presente come davanti a tale giudice M. avrebbe potuto sollevare eventuali eccezioni di legittimità costituzionale, anche con riferimento al parametro di cui all’art. 38 Cost., ovvero fare questione dell’eventuale violazione dell’art. 2, comma 59, legge n. 92 del 2012, sotto il profilo dell’intervenuta espiazione della pena in concreto ostativa.

La decisione impugnata appariva dunque, ad avviso degli ermellini, giuridicamente corretta perché nel caso in esame mancavano le condizioni di legge per l’attivazione dei procedimento esecutivo e tale circostanza ben poteva essere rilevata de plano, a norma dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., e da ciò se ne faceva conseguire la reiezione del ricorso e la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.

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Conclusioni

La sentenza è sicuramente condivisibile.

In essa, difatti, la Suprema Corte delimita la materia che può legittimare l’esercizio della giurisdizione esecutiva penale escludendo dal suo raggio d’azione la revoca di prestazioni previdenziali/assistenziali per coloro che sono condannati per reati gravi qual è l’aver fatto parte di un’associazione a delinquere di tipo mafioso.

Difetta infatti, come correttamente rilevato dalla Corte, il carattere di pena o sanzione accessoria che avrebbe potuto giustificare l’intervento del giudice penale, in qualità di giudice dell’esecuzione.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, pertanto, si ribadisce, non può che essere positivo.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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