Rendendo una decisione in netta controtendenza rispetto al passato, la Suprema Corte ha recentemente esaminato una vicenda afferente l’applicabilità al delitto tentato dell’esimente di cui all’art.649, ultimo comma del Codice Penale, laddove si prevede che la causa di non punibilità per i fatti commessi a danno dei congiunti, non si applica a delitti di cui agli articoli 628, 629 e 630 Cp. e ad ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alle persone.
Considerato come un residuo dell’autonomia dell’ordinamento familiare nei confronti dello Stato, l’art.649 trova la sua ragion d’essere in implicazioni di ordine etico-patrimoniale:la comunanza degli interessi economici nell’ambito della famiglia ed il grave turbamento alle relazioni familiari, che potrebbe derivare dalla punibilità dei reati contro il patrimonio commessi in danno dei più stretti congiunti.
L’esclusione dettata dall’ultimo comma, si spiega in particolare con il fatto che nei reati ivi indicati si realizza un’offesa alla persona oltre che al patrimonio, mentre per i delitti contro il patrimonio diversi da quelli di cui agli articoli 628, 629 e 630, una consolidata impostazione dottrinale ha ritenuto che l’art.649 ultimo comma non possa trovare applicazione nei casi in cui il fatto sia commesso mediante violenza solamente morale.
Già nel passato, una partizione giurisprudenziale di una certa rilevanza aveva timidamente preso posizione in ordine all’applicabilità dell’esimente in parola al delitto tentato, precisando con una serie di decisioni intervenute a macchia di leopardo che la causa di non punibilità di cui all’art.649 si doveva ritenere applicabile al delitto consumato ma non anche a quello tentato, attesa l’autonomia della fattispecie tentata rispetto a quella consumata, per cui quando il legislatore fa espresso riferimento a determinate figure di reato la cui commissione comporta effetti sfavorevoli per il reo, il riferimento deve intendersi solo alle fattispecie consumate e non già al semplice tentativo, anche perché l’esclusione dall’area di non punibilità delle fattispecie tentate, si risolverebbe in un’inammissibile analogia in malam partem (Cass.pen.84/162635; Cass.pen.18/5/90, in Cass.pen.92, 2072; Cass.pen.03/226873; Cass.pen. 03/223903; Cass.pen.05/231051; Cass.pen.4/7/2008, Paskovic; Cass.pen.12/6/2009, Freguglia; Cass.pen.10/5/2011, Frigerio; Cass.pen.21/3/2012, Errini; Cass.pen.22/10/2013, Piras).
Secondo altri orientamenti tuttavia, il disposto di cui all’art.649 comma 3 si estenderebbe anche alle ipotesi tentate, perchè le modalità aggressive del fatto connoterebbero le fattispecie già a livello del tentativo (Cass.pen.24/1/96, Calcopietro; Cass.pen.18/12/07, Casale; Cass.pen.12/6/09, n.27143; Cass.pen.9/7/10, Carollo; Cass.pen.10/5/2013, Gallano).
Con lucida disamina, la Corte, chiamata nella decisione in commento ad affrontare una vicenda relativa ad una tentata estorsione commessa dall’imputato in danno della madre mediante minaccia, pare avere aderito al primo filone giurisprudenziale enunciando il principio di diritto secondo cui la clausola di non punibilità prevista per i fatti commessi a danno dei congiunti opera anche per il delitto di tentata estorsione, poiché la norma che ne esclude gli effetti con riguardo ai delitti di cui agli articoli 628, 629 e 630 c.p. ed a quelli contro il patrimonio commessi con violenza alle persone, si riferisce esclusivamente ai delitti ivi nominativamente elencati consumati ed a tutti quelli contro il patrimonio, anche tentati, purché commessi con violenza alle persone.
La decisione pare di non poco conto, atteso che pare ridimensionare la corretta applicabilità della clausola di non punibilità in parola, determinando derive esegetiche di forte impatto.
Sul punto, invero, la Corte ha giustamente ricordato nelle proprie premesse l’esistenza di un risalente contrasto giurisprudenziale fondato, da un lato, sulle decisioni che ritengono la causa di non punibilità applicabile ai delitti indicati nello specifico catalogo previsto dall’art.649 ultimo comma c.p. (rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione), anche se commessi in forma meramente tentata, ovvero che escludono il tentativo dall’operatività dell’esimente nel solo caso in cui i delitti indicati vengano commessi con violenza alle persone, mentre dall’altro versante, come ha ricordato la Corte, esistono pronunce di segno opposto che, rimettendosi al mero dato letterale, escludono l’applicabilità dell’esimente di cui al comma 3 anche ai delitti tentati.
Gli orientamenti – di gran lunga prevalenti – aderenti alle prime decisioni più sopra riportate, facendo leva sul principio di certezza del diritto, affermano segnatamente che: “tenendo al tempo stesso conto dell’autonomia delle ipotesi di delitto tentato e del principio di tassatività della norma penale…deve ritenersi che gli effetti giuridici sfavorevoli, previsti con specifico richiamo a determinate norme incriminatrici, vanno riferiti alla sola ipotesi di reato consumato e non anche al tentativo, trattandosi di norme – quelle sfavorevoli – di stretta interpretazione, le quali, in difetto di espressa previsione, non possono essere analogicamente riferite alle figure di delitto tentato” (ex multis – v.anche in Dir.pen.proc.9/16 e, tra le altre, Cass.pen.sez.II, 21 giugno 2012, n.24643, Errini).
Le decisioni di segno contrario invece, valorizzano principalmente il profilo teleologico della causa di non punibilità, argomentando nel senso che: “la finalità di protezione dell’unità familiare, valutata dal primo comma dell’art.649 c.p. come prevalente sull’esigenza di punizione del fatto-reato offensivo del patrimonio, sia destinata a soccombere in presenza di una certa tipologia di reati o in conseguenza delle modalità di realizzazione di essi, senza che si possa differenziare la consumazione dal tentativo, dal momento che queste fattispecie criminose sono integrate da fatti che, suscitando grande allarme sociale o rivelando una peculiare intenzionalità nel loro autore, non possono in nessun modo rimanere impunite”.
Una simile esegesi troverebbe del resto conferma nello stesso significato assegnato al termine “violenza alla persona”, che andrebbe a ricomprendere non soltanto la violenza fisica, ma anche quella morale, atteso che la ratio legis dell’art.649 c.p. non può che essere quella di avere impiegato “un’accezione omnicomprensiva”, modulabile sulla falsariga dell’art.610 c.p., indipendentemente dall’esercizio di un vero e proprio costringimento fisico.
Una simile lettura è stata invece completamente disattesa dalla decisione in commento, laddove si è ritenuto con estrema serenità di giudizio che la clausola di non punibilità prevista per i fatti commessi a danno dei congiunti possa operare anche in relazione al delitto di tentata estorsione, andando così di fatto a degradare la violenza, sia fisica che morale, a fatto non punibile se commesso nelle sole forme del tentativo.
Parte della dottrina si è tuttavia mostrata alquanto critica sul punto, dato che i giudici di legittimità non sembrano avere tenuto conto della pronuncia con cui la Cassazione a Sezioni Unite (16 marzo 2016, n.10959), nel fissare il principio di diritto per il quale la disposizione dell’art.408, comma 3-bis C.p.p. – che stabilisce l’obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con violenza alla persona, riferibile anche ai reati di atti persecutori e maltrattamenti contro familiari e conviventi – ha mostrato di accogliere un nozione ampia di violenza alla persona, omnicomprensiva anche della violenza morale, atteso che il delitto di atti persecutori è integrato da atti di minaccia o comunque di violenza psichica tali da condizionare, limitandola, la libertà di autodeterminazione della vittima.
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