(Ricorso dichiarato inammissibile)
(Normativa di riferimento: C.p.p. artt. 571, 613)
Il fatto
Con ordinanza in data 24 novembre 2017 il Tribunale di sorveglianza di Roma rigettava il reclamo, proposto dal detenuto A. A., avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Roma del 7 agosto 2017, col quale era stato disposto il trattenimento del carteggio in partenza e destinato al detenuto F. T., anch’egli sottoposto al regime detentivo differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen., costituito da copia della tesi di laurea redatto dallo stesso A..
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
L’imputato proponeva personalmente ricorso per chiedere l’annullamento del provvedimento impugnato sollevando altresì questione di legittimità costituzionale dell’art. 613 cod. proc. pen., comma 1, nella formulazione novellata dalla legge n. 103/2017 per contrasto con l’art. 3 Cost. in relazione alla violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza, nonché con l’art. 24 Cost. per compromissione del diritto di difesa.
Inoltre, si deduceva la violazione dell’art. 18-ter ord. pen., poiché la tesi di laurea non poteva equipararsi ad un libro, come riconosciuto in altro provvedimento adottato dal Magistrato di sorveglianza di Sassari, che aveva ammesso la possibilità di trasmettere ad altro detenuto libri e riviste nell’ambito dello stesso gruppo di socialità.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione
La Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso proposto alla stregua delle seguenti considerazioni.
Gli ermellini osservavano prima di tutto che la legge n. 103 del 23 giugno 2017, entrata in vigore il 3 agosto 2017, con l’art. 1, commi 54 e 63, nell’ambito delle modifiche apportate al sistema delle impugnazioni penali, è intervenuta sulle disposizioni rispettivamente degli artt. 571, comma 1, e 613, comma 1, cod. proc. pen.: quanto alla prima norma, al testo vigente ha premesso “Salvo quanto previsto per il ricorso per cassazione dall’art. 613, comma 1“, quanto alla seconda, aveva eliminato le parole iniziali “salvo che la parte non vi provvede personalmente“, mantenendo inalterata la previsione per la quale il ricorso, le memorie ed i motivi nuovi devono essere sottoscritti da difensori abilitati all’esercizio del patrocinio presso la Corte di cassazione.
Si rilevava altresì come, sul piano testuale, l’intervento novellatore avesse assunto un significato chiaro ed inequivoco perché escludeva senza eccezioni di sorta la facoltà per la parte che è imputata di proporre il ricorso senza il ministero di un difensore abilitato e, recependo indicazioni contenute in precedenti progetti di riforma, nella consapevolezza che il contenuto di elevato tecnicismo giuridico, richiedente il possesso di nozioni approfondite ed abilità espressiva nella formulazione dei motivi in coerenza col novero limitato delle censure proponibili ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen. per far valere specifici vizi di legittimità del provvedimento impugnato, mal si attagliasse ad un atto redatto dalla parte senza l’assistenza di un professionista legale abilitato, perseguendosi la finalità di disincentivare il numero di ricorsi indirizzati alla Suprema Corte e di impedire iniziative impugnatorie dilatorie e pretestuose fermo restando come le impugnazioni personalmente proposte fossero quelle che statisticamente sortiscono il maggior numero di dichiarazioni di inammissibilità per carenze deduttive e per l’improprio contenuto del ricorso; pertanto, rilevava la Corte, tramite il perseguito obiettivo di contenere la sopravvenienza dei procedimenti e di impedire quelli più di frequente dichiarati inammissibili, con questo novum legislativo, si era inteso creare le condizioni materiali per garantire un più efficace e rapido sindacato di legittimità e per concentrare l’impegno della Corte Suprema nell’assolvimento ai propri compiti istituzionali di organo giudiziario, deputato alla nomofilachia.
Si evidenziava oltre tutto come i lavori preparatori alla riforma svelassero anche l’ulteriore intenzione del legislatore di impedire la prassi elusiva della disposizione, nonché le conseguenze in termini di sempre più incrementato carico di lavoro della Corte di cassazione, che ammette i soli patrocinatori iscritti all’albo speciale dei cassazionisti a redigere il ricorso per cassazione, nei casi in cui l’imputato si avvalga di difensore non abilitato, ma sottoscriva personalmente l’atto d’impugnazione e ciò anche perché gli obiettivi di semplificazione dell’intero sistema delle impugnazioni, di decongestione delle pendenze innanzi alla Corte di cassazione, di valorizzazione della sua funzione nomofilattica, quali principi ispiratori della L. n. 103 del 2017, anche laddove detta normativa aveva conferito delega al Governo per introdurre ulteriori modifiche alla disciplina dei mezzi d’impugnazione, erano stati segnalati da tutti i commentatori e riscontrati anche dalle Sezioni Unite nella pronuncia n. 8825 del 27/10/2016, omissis, rv. 268822, che, in riferimento all’allora disegno di legge, avevano interpretato il requisito della specificità dei motivi di appello in termini che poi avevano trovato positivo riconoscimento con la riformulazione dell’art. 581 cod. proc. pen., disposta con la riforma.
D’altronde, faceva presente sempre la Corte in questa pronuncia, se prima dell’intervento novellatore che aveva inciso sugli artt. 571 e 613 del codice di rito non si era mai dubitato dell’applicabilità della disciplina generale sulle impugnazioni, comprese le disposizioni di cui all’art. 571 cod. proc. pen. e quelle che regolano il procedimento camerale nel giudizio di legittimità, anche ai ricorsi proposti per contestare provvedimenti adottati nella fase dell’esecuzione penale e nei procedimenti incidentali sulla libertà personale, adesso, per effetto di questa riforma, l’obbligo che il ricorso per cassazione sia proposto da avvocato abilitato a far ciò sussiste anche per i provvedimenti emessi in sede di esecuzione penale stante il fatto che, secondo i giudici di Piazza Cavour, in materia di esecuzione penale, non si ravvisano argomenti, né testuali, né sistematici, per poter riconoscere una regolamentazione diversa da quella prevista in via generalizzata dal nuovo testo dell’art. 613 cod. proc. pen..
Detta conclusione, sempre ad opinione degli ermellini, non sollevava problemi di armonizzazione con i precetti costituzionali, né con quelli convenzionali poiché, per un verso, la “ratio” ispiratrice della norma, individuabile nella razionalizzazione dell’intervento decisorio nella fase di legittimità e nella sua concentrazione ai casi che più propriamente richiedano l’interpretazione nomofilattica della legge, cui è preposta la sola Corte di cassazione nell’ambito dell’ordinamento giudiziario, non è condizionata dalla natura del procedimento penale poiché il rimedio è identico ed i poteri cognitivi della Corte non mutano, – salva qualche limitazione al catalogo dei motivi, talvolta circoscritti alla sola violazione di legge, oggetto di previsione espressa e testuale, contenuta nella legislazione speciale, ad esempio sulle misure di prevenzione, oppure nell’art. 569 cod. proc. pen. per il ricorso immediato per cassazione -, a prescindere dalla materia penale oggetto della pronuncia impugnata e quindi il legislatore, non irragionevolmente rispetto al fine perseguito, ha scelto di realizzarlo mediante l’introduzione di criteri di limitazione della legittimazione ad impugnare per cassazione in funzione dei requisiti soggettivi di preparazione, conoscenza giuridica ed esperienza professionale, per altro verso, non si ravvisavano profili di contrasto con il diritto di difesa e di azione in giudizio di cui all’art. 24 Cost. dato che il diritto di accesso ai rimedi giurisdizionali non è assoluto, né incomprimibile, ma può essere differenziato per le fasi del processo e per le sue varie tipologie (Sez. U, n. 31461 del 27/06/2006, omissis; sez. 2, n. 40715 del 16/07/2013, omissis, rv. 257072) sino anche a subire restrizioni in considerazione delle caratteristiche specifiche delle impugnazioni e di esigenze di razionalità ed efficienza del sistema processuale e di contenimento entro limiti ragionevoli della durata del processo, per la cui regolamentazione e per la conformazione dei singoli istituti il legislatore fruisce di ampia discrezionalità col solo vincolo della non manifesta irragionevolezza delle scelte compiute (C. cost. n. 50/2010; n. 2217/2008; n. 379/2005; ord. n. 7/1997); d’altronde, a conferma di quanto sin qui esposto, si metteva in risalto, da un lato, che, sulla base dei medesimi principi, la giurisprudenza della Cassazione aveva escluso come fosse ammessa l’autodifesa nel processo penale (sez. 5, n. 49551 del 03/10/2016, omissis, rv. 268744; sez. 5, n. 32143 del 03/04/2013, omissis, rv. 256085; sez. 1, n. 7786 del 29/01/2008, omissis, rv. 239237), dall’altro, per quanto concerne il sistema processuale penale all’art. 569 cod. proc. pen. ed all’art. 111 Cost., comma 7, sebbene si preveda il sindacato di legittimità sui provvedimenti che incidono sulla libertà personale e su tutte le sentenze emesse nei gradi di merito da giudici ordinari o speciali, ciò veniva stimato tuttavia non equivalente a riconoscere limitazioni all’adozione di scelte di politica legislativa, che deflazionino le sopravvenienze dei procedimenti e rendano più efficiente il giudizio di legittimità mediante una più restrittiva disciplina dei soggetti legittimati, da un altro lato ancora, non venivano ravvisate difficoltà nemmeno sul piano della compatibilità convenzionale della nuova formulazione dell’art. 613 cod. proc. pen..
Si faceva altresì presente come l’art. 6, § 3, lett. c), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali ed anche il Patto internazionale relativo ai diritti civili o politici, all’art. 14, comma 3, lett. d), stabilisce il diritto dell’accusato di “difendersi da sé o avere l’assistenza di un difensore di propria scelta“, riconoscendogli dunque anche la possibilità di autodifesa esclusiva senza l’assistenza di alcun difensore stante il fatto che, nell’interpretazione offerta, sia dalla Corte costituzionale (sent. n. 188 del 1980), che dalla Corte di cassazione (sez. 1, n. 7786/2008 citata; sez. 3, n. 19964 del 29/03/2007, omissis, rv. 236734; sez. 5, n. 2333 del 15/12/1988, dep. 15/02/1989, omissis, rv. 180523), le richiamate previsioni non assumono un significato cogente, ma piuttosto programmatico e di principio nell’assenza di precetti dettagliati che impongano modalità specifiche per il suo esercizio da osservarsi da parte della legislazione interna; secondo la Consulta, invero, “la Commissione stessa ha avuto occasione di affermare che il diritto all’autodifesa non è assoluto, ma limitato dal diritto dello Stato interessato ad emanare disposizioni concernenti la presenza di avvocati davanti ai tribunali (ric. 722/60)” e che nei giudizi dinanzi ai giudici di ultima istanza “nulla si oppone ad una diversa disciplina purché emanata allo scopo di assicurare una buona amministrazione della giustizia (ric. 727/60 e 722/60)” così come, sulle medesime posizioni, in alcune pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo era stata interpretata la disposizione dell’art. 6, § 3 lett. c), della Convenzione come norma di principio, che rimetteva agli Stati contraenti la scelta degli strumenti e delle modalità per consentire il diritto di autodifesa in modo tale da armonizzarsi con i caratteri propri del giusto processo (Corte EDU, sez. 3, 27/04/2006, Sannino c. Italia, § 48).
Si evidenziava oltre tutto come non si potesse prospettare la violazione dell’art. 2 del protocollo n. 7 della Convenzione EDU sotto il profilo della violazione della garanzia del doppio grado di giurisdizione atteso che la giurisprudenza della predetta Corte sovranazionale riconosce agli Stati membri un ampio margine di determinare in via discrezionale le modalità di esercizio del diritto in questione (Corte EDU, sez. 4, 20/10/2015, Di Silvio c. Italia, § 50), sempre che gli istituti previsti siano in grado di garantire concretezza ed effettività del rimedio dato che la condizione di detenuto ristretto in carcere non è in assoluto di ostacolo al mantenimento ed alla presa di contatto con un difensore cassazionista, che possa rappresentarlo e redigere per suo conto il ricorso in modo certamente più appropriato e consapevole di quanto potrebbe fare lo stesso diretto interessato.
Tal che, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, il Supremo Consesso giungeva a postulare il seguente principio di diritto: “La riforma degli artt. 571 cod. proc. pen., comma 1, e dell’art. 613 cod. proc. pen., apportata dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, l’art. 1, commi 54 e 63, entrata in vigore il 3 agosto 2017, laddove non consente all’imputato di proporre personalmente il ricorso per cassazione senza il patrocinio di un difensore iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione, ha valore generale e si applica a tutti i procedimenti penali, anche a quelli di esecuzione e nei confronti di tutti gli interessati, anche ai condannati ristretti in espiazione di pena detentiva“.
Posto ciò, declinando tale criterio ermeneutico al caso sottoposto al suo scrutinio giurisdizionale, la Cassazione, una volta dedotto che la considerazione del caso specifico, in base ai principi suesposti, induceva a ritenere inammissibile ai sensi dell’art. 591 cod. proc. pen., comma 1, lett. a), il ricorso, perchè proposto personalmente da soggetto non legittimato avverso un provvedimento già emesso nel vigore della nuova disciplina dettata dall’art. 613 cod. proc. pen., postulava come tale rilievo, per effetto della modifica apportata all’art. 610 cod. proc. pen., con l’inserimento del nuovo comma 5 bis, operato dalla legge n. 103/2017, abilitasse costei a pronunciare l’inammissibilità “de plano“.
Conclusioni
La sentenza in argomento si palesa condivisibile in quanto in essa si è fatta una corretta applicazione del “nuovo” art. 613 c.p.p..
Infatti, in assenza di una espressa previsione legislativa che consenta di proporre ricorso per cassazione personalmente in sede di esecuzione penale, a fronte del divieto generalizzato di operare in tal senso secondo quanto previsto dalla norma procedurale appena citata, non avrebbe senso, a rigor logico, ancor prima che giuridico, procedere ad una applicazione derogatoria di questa regola processuale senza che vi sia appunto una statuizione legislativa che consenta questo.
E’ dunque sconsigliabile ricorrere personalmente per cassazione in materia di esecuzione penale, essendo evidente il rischio che il medesimo venga dichiarato inammissibile non essendo stato proposto da colui è legittimato a farlo.
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