Con una recentissima pronuncia la Suprema Corte ha affrontato, seppur in modo implicito, il delicato problema del diritto di visita al figlio minore del genitore non affidatario e, più in generale, della tutela della bigenitorialità.
In particolare, la Corte ha accolto il ricorso presentato da un padre che, condannato dal Tribunale di Milano al pagamento di un’ammenda per il reato di cui all’art. 660 c.p. (originariamente qualificato ai sensi dell’art. 612 bis c.p.) ai danni della ex convivente, ricorreva per cassazione deducendo la mancanza dell’elemento soggettivo del reato contestato. Il Tribunale di Milano aveva ritenuto dimostrate le molestie arrecate alla ex convivente (costituita parte civile) sulla scorta delle sue dichiarazioni e dei riscontri telefonici e telematici; molestie che risultavano essere conseguenti all’interruzione del rapporto sentimentale tra i due dal quale era nato un figlio (tuttora minore).
Tuttavia, nel corso del processo dinanzi alla Suprema Corte, emergeva chiaramente che i comportamenti dell’imputato erano volti non a creare disagi all’ex convivente, ma esclusivamente ad avere notizie del figlio minore, allo scopo di poterlo incontrare e di esercitare i propri diritti di genitore.
All’interno dello stesso provvedimento impugnato, d’altro canto, si dava atto che i fatti contestati al ricorrente risultavano connessi all’esercizio del diritto di visita al figlio minore che, a detta dell’imputato, veniva sistematicamente ostacolato dalla condotta prevaricatoria della madre, prima ancora che su tali diritti genitoriali intervenisse il Tribunale per i minorenni. Sulla scorta di queste considerazioni lo stesso Tribunale aveva escluso la ricorrenza del reato di cui all’art. 612 bis c.p., originariamente contestato all’imputato (atti persecutori).
Gli ermellini hanno accolto il ricorso ritenendo che “ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 660 c.p. sono necessarie la coscienza e la volontarietà della condotta molesta”, e, inoltre, il comportamento del soggetto “deve essere connotato dalla petulanza, ovvero da quel modo di agire pressante, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà della persona.”
Il Tribunale di Milano, secondo i giudici di legittimità “formulava un giudizio di condanna senza tenere conto dell’insussistenza del requisito della petulanza o degli altri biasimevoli motivi” e, inoltre, “gli elementi probatori acquisiti, richiamati nello stesso provvedimento, impongono un’interpretazione alternativa dei fatti, finalizzata a collegare le condotte dell’imputato non già all’intento di creare una situazione di disagio all’ex convivente, ma ad esercitare i propri diritti di genitore”.
Pertanto, secondo la Corte di Cassazione, laddove sia accertato che la condotta del soggetto è tesa non ad arrecare pregiudizio ad altra persona, interferendo inopportunamente nell’altrui sfera di libertà, ma esclusivamente ad esercitare il proprio diritto di genitore, al fine di ricondurre il rapporto con il figlio minore nell’alveo della normalità, nonostante la situazione di non convivenza, non può configurarsi in alcun modo il reato di “molestie e disturbo”, di cui all’art. 660 c.p., mancando l’atteggiamento soggettivo richiesto dalla norma.
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