1. Il caso deciso.
Tre amici si accordarono, nel 1995, per acquistare stupefacenti da consumare insieme. Uno di loro, dopo aver raccolto il denaro, si reca (solo) da uno spacciatore, presso il quale si era già rifornito in passato. Successivamente all’ acquisto di due dosi di eroina e all’assunzione della sostanza stessa, uno dei tre amici accusò un malore a cui seguì la morte.
Identificato lo spacciatore, presso la cui abitazione furono rinvenute 875 mg di eroina pura, questi fu condannato a mesi 10, per la detenzione di sostanza stupefacente, ex art. 73 DPR 309/90, ma non ai sensi dell’art. 83 e 586 c.p.
Impugnata in appello la decisione, ad opera dell’imputato e del P.M., la condanna mutò, componendosi di:
a) continuazione del reato di detenzione e cessione (art. 73, c.5, DPR 309/90) di stupefacenti;
b) reato di cui agli artt. 83 e 586 c.p. (morte in conseguenza dell’assunzione dell’eroina).
Avverso la sentenza l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, sostenendo, in particolare, l’erronea applicazione degli artt. 83, 586, 589 c.p., perchè l’evento morte gli era stato addebitato unicamente sulla base del nesso causale.
La quarta sezione penale ha rimesso alle Sez. Un. la questione, avendo rilevato un contrasto giurisprudenziale..
Le Sez Un. rigettati le deduzioni di: difetto di motivazione, sua illogicità e la violazione dell’art. 431 c.p.p., avanzati dall’imputato rispetto alla sentenza d’Appello, focalizza lungamente l’attenzione sul reato di cui all’art. 586 c.p., in particolare per ciò che afferisce ai presupposti necessari affinchè si abbia la responsabilità penale compatibile con il principio di colpevolezza.
2. La questione.
Art. 586 c.p.: esiste responsabilità penale per l’evento ulteriore, lesione o morte, compatibile con il principio di colpevolezza nel caso di cessione di droga?
3. La risposta delle Sez. Unite Penali, sent. n. 22676, Ud. del 22 gennaio 2009 – depositata il 29 maggio 2009.
La Suprema Corte ritiene che l’art. 586 c.p. trova una corretta applicazione solo se: a) la lesione o la morte sono legate da un nesso di causalità con il reato-base e b) l’evento ulteriore sia rimproverabile all’agente, sotto la forma almeno della colpa (in concreto), “ancorata alla violazione di una regola precauzionale… e da un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene” vita o integrità fisica, tutelato dalla norma.
4. Nota esplicativa.
4.1. L’art. 586 c.p. in generale.
La sentenza affronta un tema molto dibattuto in dottrina e giurisprudenza: l’art. 586 c.p. applicato allo spacciatore per la morte del consumatore di stupefacenti
In primo luogo costituiscono affermazioni correnti nella manualistica quelle secondo cui l’art. 586 c.p. da un lato è ipotesi speciale di aberratio delicti (Fiore, Diritto Penale, II, 1997, 161; Mantovani, Diritto Penale, P.S., I, 2005, 149; Antolisei, Diritto Penale P.S., I, 1995, 74), ed ha – in questa veste – un ambito applicativo molto limitato; dall’altro lato è norma di chiusura del sistema ‘tutela della persona’ (Fiandaca-Musco, Diritto Penale, P.S., II, t. 1, 2007, 26; Garofoli, Manuale di diritto penale, P.G., 2008, 690), la cui estensione applicativa è, o potrebbe essere, d’altro canto, molto ampia.
Sotto il primo profilo (aberratio speciale) esistono pochi dubbi (cfr.: Cass., Sez. IV, 24 feb. 1986, n. 1673: “la norma dell’art. 586 c.p. concerne una fattispecie diversa da quella dell’art. 83 c.p.”, perché l’art. 586 riconduce la responsabilità al solo “rapporto di consequenzialità tra un delitto e l’evento morte o lesione”, indipendentemente dal fatto che l’agente ha prodotto “l’evento per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per altre cause”, cosa che invece avviene in base all’art. 83).
Gli elementi specializzanti dell’aberratio delicti, secondo la teoria maggioritaria, sono due, ossia che: “l’offesa voluta concreti un delitto doloso – e, dunque, non anche una contravvenzione e che l’evento non voluto consista nella morte o nelle lesioni di una persona” ( Villa, Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto: responsabilità oggettiva o colpa?, in Ventiquattrore Avvocato, vol. 12 del 2005, 83).
Sotto il secondo aspetto (generalità della disposizione) l’art. 586 diventa precetto di notevole rilevanza, che ha trovato frequente applicazione e per un variegata casistica, tanto che si è parlato di “un vero crocevia dogmatico” (Militello, Morte o lesioni come conseguenza di altro reato, in Dig. Disc. Pen., vol. VIII, 198) verso il quale affluiscono numerose problematiche del diritto penale moderno.
Del resto il fatto che l’art. 586 faccia da norma di chiusura si ritrova nella stessa (citatissima, in merito) Relazione al codice penale quando si afferma di voler apprestare, con la norma in parola, una “più vigorosa tutela in tema di delitti di sangue”.
In ciò si appalesa la lettura del principio personalistico che colloca la persona “al centro, anzi al vertice dell’ordinamento giuridico quale originario valore in sé, quale fine dell’attività normativa senza pertanto poter essere mai degradato a strumento utile per la realizzazione di interessi che si vorrebbero maggiori, così come invece consentirebbe l’opposto principio utilitaristico (Palazzo, Persona (delitti contro la) in Enc. Dir., XXXIII, 1983, par. 2). E proprio il principio personalistico ha permeato di sé la Costituzione e, in conseguenza, l’intero diritto penale, che presidia penalmente la tutela della persona ad ogni livello meritevole.
Ciò spiega la funzione di complemento e di specularità dell’art. 586 al combinato disposto offerto dall’art. 584 c.p. (omicidio preterintenzionale) con l’art. 590 (omicidio colposo). In effetti soltanto il fatto che, filtrato dal fitto reticolo degli ultimi due articoli citati, vi passi attraverso senza esserne assorbito, potrà risultare compatibile con la fattispecie prevista dall’art. 586.
In particolare per ciò che riguarda l’art. 584 la morte (quale evento ulteriore non voluto) qualifica con un aggravio di pena il reato di percosse o lesioni, mentre per l’art. 586 la condotta deve configurare un reato diverso da questi ultimi (Tramontano, Il codice penale spiegato, 2004, nota art. 586, 987; conforme Colacci, nota a Cass. 09 febbraio 1961, in Arch. P., 1963 II, p. 342). In pratica si ha una rigida alternativa, accogliendo questa interpretazione: se ci sono le percosse o le lesioni non c’è il reato previsto dall’art. 586..
Tuttavia, ancora circa il primum delictum, secondo altro orientamento il reato base può essere anche il delitto di percosse, sulla scorta della presunta possibilità di attribuire all’atteggiamento soggettivo dell’agente un discrimine molto rilevante; così quando dalle percosse sortisce come esito le lesioni, “il di più… rientra nell’autonomo delitto di cui all’art. 586” (Militello, Op. cit., 205). Seguendo questa interpretazione, chi voleva percuotere (art. 581) senza provocare lesioni (art. 582) non consuma il secondo reato, ma pone in essere una fattispecie ex. 586.
Di contrario avviso chi adduce, con una ricca argomentazione sistematica, che le lesioni non possano essere evento ulteriore rispetto alle percosse (Stile, Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, in Enc. Dir., XXVII, 1977, par. 5; conforme Farini-Trinci, Compendio di diritto penale, P. Sp., 2008, 307).
Nello stesso senso appare l’opinione di chi ritiene applicabile l’art. 586 quando la morte (o le lesioni) sono conseguenza di un delitto doloso, la cui condotta è caratterizzata comunque da un “rischio per la vita o l’incolumità” (Ronco-Ardizzone, Art. 586, in Codice penale ipertestuale, 2006, par. 1; secondo questi autori infatti: “se le lesioni siano derivate da un fatto diretto a percuotere, trova applicazione l’art. 582, relativo alle lesioni dolose”).
La differenza invece con i reati aggravati (o qualificati) dall’evento (es. artt.: 571, 572, 588 c.p.) è di tutta evidenza. I reati aggravati dall’evento sono caratterizzati dalla “espressa descrizione dei fatti che oltre a colpire determinati beni giuridici” in generale, recano “offese ai beni della vita e dell’incolumità personale” in particolare (Militello, Op. cit. 199), ma non solo; in altre parole è tipizzato il reato base, di per sé realizzato (consumato?), ed è tipizzato anche l’evento non voluto, di per sé ipotetico, di modo che ove dovesse prodursi anche l’evento qualificante si avrebbe un mero aumento di pena (Ronco-Ardizzone, Op. cit.), non un diverso reato.
In merito a questa tipologia di reati, nel diritto tedesco, “l’autore deve già avere l’intenzione” di realizzare anche “il secondo atto” (Fornasari, I principi del diritto penale tedesco, 1993, 188); in quell’ordinamento, pare, dunque, si risenta ancora dell’influsso della teoria finalistica dell’azione. Del resto anche il padre del finalismo, Welzel, riteneva che del fatto base si rispondesse per dolo, e dell’evento qualificante, invece, si rispondesse per colpa. Ciò avveniva però non perchè il dolo ‘ritornasse’ nel fatto tipico (come ritenuto dai finalisti) ma, almeno per questi reati, affluiva nella colpevolezza (Marinucci, Finalismo, Responsabilità oggettiva e strutture del dolo, in RIDPP, 2003, 373), secondo l’interpretazione maggioritaria.
Welzel (e il finalismo) non poteva(no) sostenere qualcosa di diverso, se voleva essere coerente, dato che “teneva la politica criminale fuori dalla porta” (Fiore, Ciò che è vivo è ciò che è morto nella dottrina finalistica. Il caso italiano, in RIDPP, 2003, 394), rinvenendo, almeno per i reati aggravati dall’evento, una soggettivizzazione che “non è stata trovata nel ‘fatto’, ma nella colpevolezza” (Fiore, Azione finalistica, in Enc. Giur., par. 3 e 4), la quale – si sostiene – non appartiene alla teoria del reato ma a quella del reo; infatti, la colpevolezza è stata definita come “abuso della libertà personale sfociata nel reato” (Ronco, Il reato, I, 2007, p.71).
Anche in Italia, specie dopo le sentenze 364/88 e 1085/88, è avvenuto un fenomeno simile a quello tedesco, che ha inferto un duro colpo al finalismo italiano.
Conviene a questo punto dire che, secondo autorevole dottrina, l’art. 586 prevede i casi in cui il fatto morte o lesione consegue ad un altro fatto la cui realizzazione avviene solo “eventualmente, a seconda delle modalità di realizzazione del delitto” (Stile, Op. cit. par. 2); in questo modo la differenza con i reati qualificati dall’evento giace nel fatto che questi condensano intrinsecamente, per natura, una carica lesiva di maggior evidenza, perciò l’evento è tipico, ma – sopratutto – specifico.
Altra differenza tra l’art. 586 e i reati qualificati è che alla prima fattispecie non accede un numero chiuso di reati base ma, al contrario, un insieme aperto di reati, a cui perviene l’evento aggravante ulteriore descritto (morte o lesione); nei secondi, invece, il reato base è definito, cui si può aggiungere un evento aggravante eventuale.
Ritornando all’art. 586, il fatto che il reato doloso a base della disposizione non sia previsto in modo tassativo, ha sollevato in dottrina un ipotetico profilo di illegittimità costituzionale, risolto negativamente; e questo avverrebbe in conseguenza del fatto che la norma è una fattispecie causalmente orientata, in cui non rileva la modalità della lesione (Villa, Op. cit., 90), ma la lesione in se stessa; in più, l’art. 586 interponendosi, in una scala di protezione dell’incolumità personale, tra i reati qualificati dall’evento (reato ed evento descritti espressamente dalle singole norme) e l’aberratio delicti (non tipicizzazione del fatto “voluto” e di quello “cagionato”, Militello, Op. cit., 201; similmente: Stile, Op. cit., par. 3), costituisce un piano di tutela costituzionalmente legittima, posto tra ulteriori piani di tutela a loro volta costituzionalmente legittimi, perciò: nulla questio.
Il codice afferma inoltre che alla base del reato ex. art. 586 deve esserci un delitto, dunque non una contravvenzione, e che esso deve essere doloso, dunque non colposo (né potrebbe essere, logicamente, preterintenzionale).
Si sostiene, inoltre, l’incompatibilità del dolo eventuale a base dell’art. 586 c.p. Difatti quest’ultima norma “troverà pertanto applicazione esclusivamente laddove l’evento costituisca conseguenza non presente nella cosciente determinazione del reo, neanche a livello di possibilità” (Di Salvo, nota a Cass. Sez. I., 19 giugno 2002, in Cass. Pen., 2004, 20).
Ed il codice, ancora, non dice nulla sullo stato di progressione del reato base: è sufficiente il tentativo? Per la positiva milita autorevole dottrina, dato che della formula “fatto preveduto come delitto doloso” fa parte “anche il delitto tentato” (Mantovani, Op. cit., 150 , conforme Militello, Op. cit., 205).
Nel caso del reato base giustificato l’art. 586 non può trovare applicazione poiché la condotta iniziale è lecita (Militello, Op. cit., 205; Stile, Op. cit., par. 6, il quale aggiunge che dell’evento non voluto si può tuttavia rispondere ex. art. 589 e 590, “secondo le regole generali della colpa”). Inoltre, si sostiene, può riscontrarsi anche una responsabilità per eccesso colposo (art. 55 c.p.), ove si superassero i limiti della causa di giustificazione (Patalano, I delitti contro la vita, 1984, 318).
In ultimo, ove sussista una causa di non punibilità, che “a differenza delle cause di giustificazione nulla tolgono alla intrinseca illiceità del fatto voluto” (Farini-Trinci, Op. cit., 307), può trovare applicazione anche in questo caso l’art. 589 o l’art. 590.
Si può aggiungere, con relativa tranquillità, anche che il primum delictum non può essere un reato aggravato (Villa, Op. cit., 83), specie se posto a tutela della vita e dell’incolumità della persona, nascendo altrimenti un concorso apparente di norme risolto, ex. art. 15 c.p., per specialità a favore del singolo reato qualificato dall’evento.
Allo stesso modo non si può affermare che la morte o la lesione costituiscano circostanza aggravante del primum delictum, in particolare degli artt. 589 e 590, per il fatto di essere richiamati nello stesso art. 586, poiché detto richiamo avviene per finalità diverse (Militello, Op. cit., 212), ossia per l’individuazione della pena dei reati in concorso.
Questa soluzione è il portato della considerazione, già esposta sopra, che vede nell’art. 586 una norma di chiusura, specie se si pone mente al fatto che numerosi reati, aggravati dall’evento morte, sono posti a tutela della persona (Stile, Op. cit., par.1; Mirri, Vita e incolumità individuale (delitti contro la), in Enc. Giur., par. 2.1); perciò l’autonomia dell’art. 586 sembra potersi ricavare anche sistematicamente se si tiene presente, e correttamente, il principio di frammentazione dei reati, come intervento penale “puntiforme” (Padovani-Stortoni, Diritto penale e fattispecie criminose, 1991, 100). Difatti, il principio di frammentazione diventa, nel codice, ipertrofia di reati, tanto che, secondo autorevole dottrina, si può parlare addirittura di una “frammentazione della libertà” (Padovani-Stortoni, Op. cit., 80); ne consegue che non si vede perchè l’art. 586 non possa costituire un reato autonomo (sul punto: Stile, Op. cit., par. 1).
Tuttavia una delle rare sentenze che hanno affrontato il tema propende per il reato circostanziato (Cass. 09 febbraio 1950, Rucci).
Ancora, non si ritiene possibile la continuazione, per mancanza della “medesimezza” del disegno criminoso richiesta del codice, tra delitto doloso di base e l’art. 586 (Cass. 20 gennaio 2003, n. 2595; sul punto: Garofoli, Op. cit., p. 693).
Ad ogni modo le problematiche attinenti l’art. 586 sono numerose, si diceva, e non riguardano solo il reato-base. Anzi i veri problemi iniziano dove finiscono le considerazioni di stampo descrittivo, (piuttosto condivise) fatte sopra, poiché limiti e natura della responsabilità penale, che consegue all’ applicazione dell’art. 586 per l’evento ulteriore, sono stati lungamente indefiniti, fluidi, ed al centro di un grande dibattito giurisprudenziale e dottrinale.
Difatti se già in passato erano forti le voci che insistevano sulla abrogazione dell’art. 586 (così: Donini, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, 1991, p. 387; più di recente: Eusebi, Vita e incolumità individuale (delitti contro la), in Enc. Diritto del Sole 24 ore, p. 609), oggi il profilo di tutela che l’articolo citato intende(va) apprestare può essere rivalutato, anche nell’ottica della sentenza delle Sez. Un. in argomento; questo perché la sua ratio è, tutto sommato, meritoria, ossia tutelare la persona sempre e comunque, creando uno scudo di protezione impermeabile, non un reticolo di norme, attraverso il quale possa filtrare di straforo un’offesa alla persona, specie ove si consideri l’eccessiva frammentazione dei reati, accolta nel codice Rocco, di cui si è detto sopra.
E, in questa sede, risulta ancora possibile, ed utile, un richiamo alla centralità della persona nell’ordinamento ed alla centralità dell’art. 586 tra le norme a protezione della persona.
Tuttavia il punto è così delicato che una lettura rigorosa dell’art. 586 potrebbe spingere fino alla sua incostituzionalità, passando per le proposte di modifica e di abrogazione dello stesso (cfr. il Progetto del 1992 del nuovo codice penale, in cui non v’è traccia di un reato similare).
Comunque i grandi quesiti attengono: a) la natura della responsabilità e b) il collegamento psicologico tra l’agente per l’evento (ulteriore) cagionato ma non voluto, specie alla luce delle sent. 364/88 e 1085/88 della Corte Cost.; tutto questo per valutare se è ancora possibile una interpretazione compatibile con “l’autentico contenuto garantistico del principio di colpevolezza” (Militello, Op. cit., 204).
I profili problematici dell’art. 586 sono stati indagati approfonditamente nella sentenza in commento, e di esso si esporranno i caratteri salienti.
4.2. Gli orientamenti precedenti la sentenza.
La sentenza in primo luogo illustra i vari orientamenti seguiti in dottrina e giurisprudenza circa il tipo di responsabilità previsto dall’art. 586, per l’evento non voluto. Così, procedendo secondo l’ordine dalla stessa seguito registriamo:
1) un orientamento giurisprudenziale, in modo particolare, che ha per molto tempo ritenuto che fosse sufficiente la sola presenza del nesso di causalità, per legittimare l’imputazione del’evento cagionato ma non voluto. Si è ritenuto, in questo modo, inutile ogni ulteriore indagine, poiché si avrebbe un caso di responsabilità oggettiva, dato il richiamo all’art. 83, c.2, che costituisce un caso certo di responsabilità oggettiva.
Così è sufficiente la “semplice causalità materiale” se non ricorrono fattori eccezionali non ascrivibili all’agente e da lui non controllabili che spezzino il nesso causale (Cass. Sez. I, 25 giugno 1985, n. 6395; Cass. Sez. II, 31 maggio 1990, n. 7778).
2) un orientamento che vede nell’art. 586 una colpa specifica, ritrovando la ratio dell’istituto nella funzione di prevenire lesioni di beni giuridici, tutelati con fattispecie di reati colposi, che si possono produrre a seguito di un reato doloso.
Procedendo in questo modo in giurisprudenza si è affermato che: “l’evento lesivo, conseguente al delitto doloso commesso, è imputato al colpevole a titolo di colpa, per violazione di legge, perchè l’art. 43 c.p. annovera tra i criteri di qualificazione dei comportamenti colposi… anche l’inosservanza della legge” (Cass. Sez. I, 23 ottobre 1986, n. 11486). Sarà la violazione della legge che accompagna il delitto doloso a creare la colpa specifica per violazione di legge (Cass. Sez. IV, 02 febbraio 1995, n. 1129).
Questo orientamento riprende la teoria di G. Leone (Il reato aberrante, Jovene, 1964), secondo cui la norma penale “da un lato proibirebbe di porre in essere un’azione o un’omissione e dall’altro imporrebbe di non essere imprudenti o negligenti nel realizzarla, ingiungendo in definitiva di commettere il reato base con prudenza, diligenza e, se del caso, con perizia” (Mirri, Op. cit., par. 2.2; cfr. anche (il sempre ricco contributo di) Fiorella, Responsabilità penale, in Enc. Dir., XXXIX, 1988, par. 15).
3) un altro orientamento vede nella prevedibilità dell’evento in astratto, ossia nella morte o lesione prevedibile, il giusto collegamento tra primum delictum e l’evento ulteriore.
Così si avrà che è sempre necessaria la sussistenza di un nesso di causalità materiale, ma il diverso e ulteriore evento deve essere “prevedibile” quale conseguenza del fatto doloso, senza l’intervento di fattori che interferiscano dall’esterno sulla causalità stessa (Cass. Sez. VI, 10 febbraio 1955, n. 1955).
4) un ulteriore orientamento trova nel ‘rischio totalmente illecito’ una risposta valida alla questione, perchè la “condotta delittuosa di base ha in sé insito il rischio, non imprevedibile né eccezionale, di porsi come concausa di morte o lesioni” (Cass. Sez. I, 28 marzo 1997, n. 2955).
5) in ultimo, si è sostenuto che dell’evento ulteriore si risponde per colpa in concreto.
In pratica: “si deve ritenere configurabile il reato solo a condizione che sussista un coefficiente di riferibilità psicologica, a titolo di colpa, dell’evento non investito dal dolo del reato base” (Cass. Sez. I, 20 gennaio 2003, n. 2595), valutata nella reale situazione dell’agente.
Questa è la teoria seguita dalla sentenza delle Sez. Un. in commento.
4.3. Il tipo di responsabilità.
Nonostante la Corte abbia fatto l’analisi puntuale di tutti gli orientamenti esistenti circa l’art. 586, sopra menzionati, anche per ulteriormente suffragare l’ipotesi, comunque evidente, di un conflitto (non solo) giurisprudenziale, tutti i detti orientamenti posso raccogliersi attorno a due poli: 1) responsabilità obiettiva e 2) colpa, in tutti i suoi ‘sottotipi’. Noi procederemo nell’analisi secondo questo binomio, analizzando la responsabilità obiettiva e la colpa in concreto..
Il codice Rocco è tra i pochissimi codici a disciplinare in modo esplicito la responsabilità oggettiva.
In realtà non si tratta di una disciplina compiuta (e coerente), ma di certo il codice la prevede, intitolandole perfino la rubrica dell’ articolo 42.
In passato si è insegnato: “per noi, l’essenziale elemento che si richiede a costituire un delitto è la violazione di un dovere” (Pellegrino Rossi, Trattato di diritto penale, 1852, 175), con l’eccezione della pena che, applicata “senza utilità, e di conseguenza senza diritto, alle infrazioni dei doveri esigibili il di cui compimento può essere bastantemente garantito da altro mezzo, che non sia la sanzione penale” (P. Rossi, Op. cit., p. 176). Non ci si poneva, cioè, un problema di causalità vera e propria, né di colpevolezza individuale, bastava la violazione “delle leggi dell’ordine morale” (P. Rossi, Op. cit., p. 181).
Naturalmente, oggi, il discorso è mutato, la scienza giuridica ha fatto i suoi progressi e si è praticamente trasformata in merito. Tuttavia, è residuata nel nostro codice la responsabilità oggettiva, come fatto non imputato per dolo, colpa o preterintenzione.
Chi ne ha studiato la natura e i fondamenti ha sostenuto, in primo luogo, che: “la responsabilità oggettiva viene individuata, dunque, là dove il processo d’imputazione d’un fatto è effettuato senza che occorra alcuna indagine sul momento intenzionale” (Paterniti, Responsabilità oggettiva, in Enc. Giur., par. 1.2.); in secondo luogo che bisogna distinguere i casi in cui si effettua il vaglio del momento iniziale dell’azione, es. l’aberratio, che non costituiscono casi di detta responsabilità, da quelli in cui questo esame non si effettua (par. 1.2.); in questi casi, difatti, il legislatore seguirebbe semplicemente le “deviazioni” di un fatto doloso e ne imputa all’agente le conseguenze (par. 3.4); in terzo luogo, si sostiene che detta responsabilità non è immune, comunque, dall’analisi del profilo dell’imputabilità, né di quello sul caso fortuito, della forza maggiore, del costringimento fisico (par. 1.4.), né di quello sull’errore (par. 1.5.).
Problematica ulteriore è la suitas (Dinacci, in Giur. M., 1986, II, 666). Ma in questa sede si può solo dire che senza la “coscienza e volontà” non si avrebbe neanche azione umana (“se manca la coscienza e volontà, l’atto non è riferibile al soggetto come persona umana”, perché “è come se non l’uomo avesse agito, ma una forza della natura”, Gallo, Appunti di Diritto Penale, II, 2007, 68); si avrebbe cioè un cieco divenire, senza una significazione umana, ma solo materiale. Ogni azione umana, per quanto banale, ha un a sua finalità (sul punto: Fiore, Dir. Pen, I, 1997, 213) che la accompagna e senza della quale non sarebbe tale.
Pertanto la suitas sembra dover ricorrere sempre, almeno sulla condotta iniziale, anche di fronte alla responsabilità oggettiva in senso stretto (caso particolare, per Gallo, sono i reati colposi d’azione, Op.Cit. II, t. 2, 148).
La dottrina, ad ogni modo, ha sempre trovato nella responsabilità oggettiva un quid ‘poco gradito’, per dir così; ha sempre, cioè, cercato di individuare un elemento di soggettività nella responsabilità oggettiva. Prova ne è proprio, tra gli altri, l’art. 586 nei suoi commenti più significativi, tra quali i seguenti.
Già nel 1946 il Chiarotti ha scritto che tra l’evento ulteriore e il primum delictum intercorre un rapporto di “causalità psichica” alla cui base vi è la rimproverabilità “a titolo di colpa” (Arch. P., 1946, II, 243).
Difatti, si continua, la responsabilità oggettiva si riscontra solo quando l’evento è posto “altrimenti” a carico dell’agente, sulla scorta del solo nesso causale (Colacci, Op. cit., p. 343); dunque, alla base di questo tipo di responsabilità c’è il solo ricorso alla condicio sine qua non, senza stemperamenti di sorta, con tutto il portato di effetti che ne consegue; ed inoltre all’art. 586 sono applicabili le pene “relative ai delitti colposi” (artt. 589 e 590) e non quelle dei delitti dolosi (Colacci, Op. cit., 344), come avviene nei casi di responsabilità oggettiva, per cui non si tratterebbe di tale tipo di imputazione del fatto.
Il richiamo alle fattispecie dell’omicidio colposo e alle lesioni colpose è raccolto anche da chi, andando però molto oltre, sostiene che l’aggravamento del reato base ha una giustificazione solo se v’è prevedibilità in concreto dell’evento, perchè solo così esso “si salda col processo causale”, restando insufficiente il mero richiamo alla suitas (Dinacci, Op. cit., 666); inoltre, una responsabilità che non poggiasse sulla colpevolezza sarebbe incostituzionale, poiché responsabilità “indifferente, incolore e fredda” utile solo a creare “confusione tra lecito e illecito” (Dinacci, Op. cit., 667).
Non il nudo versari in re illicita, ma l’aver avuto una pregressa condotta idonea ad esporre altri a pericolo, sembra essere il motivo per cui si può rimproverare l’agente, cioè l’aver “trascurato eventuali precauzioni” nel momento in cui sono state poste in essere atti dotati di carica offensiva intrinseca (Corini, in Riv. P., 1987, II, 569).
Dunque, la soglia di legittimità della responsabilità oggettiva applicata – nel nostro caso – all’art. 586, è sempre stata minima in dottrina, non proprio così in giurisprudenza. Almeno fino alla sentenza in commento.
4.4. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite.
Superata l’opzione interpretativa della responsabilità oggettiva, si richiama interamente la sentenza in commento, punto 10, per quanto riguarda le teorie che vanno dalla colpa specifica a quella in astratto, fino al rischio totalmente illecito, perché di chiarezza assoluta, e non richiede richiami a ulteriore giurisprudenza né note particolari di dottrina (pure interessanti).
Si commenta invece, come anticipato, la conclusione della Corte: l’evento ulteriore non voluto è imputato all’agente a titolo di colpa in concreto, specie tenendo presente le storiche, e sopra più volte richiamate, sentenze della Corte Cost. del 1988 (nn. 364 e 1085).
Per iniziare diremo che le sentenze citate affermano che l’art. 27 Cost. non contiene un tassativo divieto di responsabilità obiettiva, intesa come assenza di dolo o colpa, ove essa si riferisca ad elementi accidentali. Questa responsabilità, che potremmo dire ‘tollerata’ dalla Corte Cost., viene definita “spuria” o “impropria”.
Dunque, la Consulta afferma che, come è noto, sono “gli elementi più significativi della fattispecie” a non poter non “essere coperti almeno dalla colpa dell’agente”, pertanto non possono costituire responsabilità oggettiva spuria, non altri elementi.
Il problema, che già a caldo fu subito riscontrato, consisteva nell’individuare detti elementi ‘significativi’. Il punto meriterebbe una trattazione che qui non può trovare sede. Ma si può dire che sin dai primi autorevoli commenti, si ritenne che “la maniera più plausibile di interpretare la significatività” di un elemento della fattispecie, si riscontra nell’offesa “quale nucleo centrale del reato” (Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: “prima lettura” della sentenza n. 364/88, in Foto It. 1990).
Qui non si può ‘imbarcare’ e affrontare il ‘clandestino’ che costituirebbe il principio di offensività; ma si deve ricordare che se l’offesa al bene giuridico legittima la pena, il bene – nel caso dell’art. 586 – è, teoricamente, facilmente individuabile; ma avendo presente che oggi il bene giuridico è oramai un “concetto ombra” (Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, 2005, 12 s.), annacquato da troppe speculazioni, che fa divenire il principio di offensività un mero “codice descrittivo” (Manes, Op. cit., 75) il nucleo dell’offesa, coperto almeno dalla colpa, non è comunque di così facile individuazione, se non in astratto; per molto reati.
Ma qual’ è, quindi, il limite interno di questa offesa tutelabile, in particolare per l’art. 586?
Dalle sentenze della Consulta emerge palese l’accoglimento dell’identificazione del principio della responsabilità “personale” (art. 27 Cost.) come responsabilità “colpevole”, tesa alla rieducazione del condannato (prevista dallo stesso articolo), poiché solo chi è colpevole è “rieducabile”, dato che la responsabilità personale è da intendersi come rimproverabilità almeno per colpa (Fiandaca, Op. cit., n. 5).
Se l’art. 27 Cost., però, avesse voluto definire “responsabilità personale” solo quella del fatto proprio, ossia per escludere quella in conseguenza del fatto altrui, si sarebbe trattato di una anacronisticità assoluta; costituisce, infatti, acquisizione irrinunciabile alla nascita della Costituzione, la responsabilità solo per fatto proprio (sul punto Fiore, Op. cit. I).
La Corte Cost. con la sent. 364/88 ha individuato la colpevolezza nel disvalore della persona relativo ad una condotta “spesa dal soggetto nella vita sociale” (Ronco, Op. cit., 70), e non in un altro valore, stato, condizione.
Le Sez. Un. sembrano, del resto, adocchiare già dall’inizio una soluzione plasmata sulla colpa, quando sembrano ‘demolire’ con colpi certi ogni altra valutazione teorica. Ma la vera svolta avviene con l’affermazione secondo cui: “l’evento non voluto rientra certamente fra quelli più significativi della fattispecie dell’art. 586 c.p.” – qui è evidente il richiamo alla sent. 364/88 – “e quindi, per la legittima punibilità del fatto, deve essere accertata la colpa dell’agente in relazione a tale evento” (punto 11); poiché occorre una compenetrazione psicologica quantomeno colposa, che leghi così l’agente all’evento da lui cagionato ma non voluto, passando per la condotta da lui posta in essere, che è ad ogni modo un trait d’union ineludibile.
Invece la Corte sembra ritrovare non nella rappresentazione, del dolo, del reato base il collegamento con l’evento non voluto, ma nella ‘rappresentabilità’ dello stesso a monte del primuim delictum; poiché la colpa implica la rappresentabilità di “tutti i requisiti materiali che la legge individua come essenziali per il perfezionarsi del singolo reato” (Fiorella, Op. cit., par. 14).
Prima di procedere oltre, occorre fare una premessa.
La colpa, secondo una autorevole dottrina, ha tre requisiti: 1) inosservanza di una regola di cautela; 2) evitabilità dell’evento osservando la regola in questione; 3) esigibilità dell’osservanza di detta regola (Padovani, Diritto Penale, 2007, 205; Fiore, Op. cit.t. 1, 246 s). Se attribuiamo alla dizione “rappresentabilità” l’insieme dei tre ‘requisiti’ della colpa sopra riportati, possiamo dire che la colpa è questa “rappresentabilità”. Ma se tutto ciò è vero, la responsabilità per colpa “in concreto” dell’art. 586, ossia la “rappresentabilità”, in cosa consiste?
In primo luogo si deve considerare che la Corte individua nell’individuo “medio e razionale” il referente personale dell’agente. Ma costui non è facilmente individuabile, tanto che in dottrina v’è una vasta letteratura, anche solo nella manualistica (cfr. Manna, Corso diritto penale, I, 293, che insiste sul profilo nodale della diatriba espresso in termini di colpevolezza).
Il “dilemma” consiste nell’individuazione delle qualità che l’agente deve possedere per poter soggiacere al rimprovero del non aver agito diversamente (Fiandaca-Musco, Op. cit., 526).
In secondo luogo, si deve aver presente che la “calcolabilità”, come dice la Corte, cioè la “rappresentabilità”, non è una cifra matematica, ugualmente intelligibile da tutti, perché pregna di una ‘incalcolabilità’ ad essa connaturata che, soggettivamente intesa, resta ignota; si cade pertanto in un margine di previsione che non può non risentire di una certa astrazione, dinanzi al fatto che anche gli uomini “dotati delle caratteristiche più similari”, trovandosi “nelle condizioni oggettive più similari” (Fiorella Op. cit., par. 14) possono – ‘in concreto’ – agire (magari molto) diversamente.
Per la colpa-prevedibilità il rimprovero residua solo “sulla base delle circostanze di fatto di cui il soggetto era o poteva essere a conoscenza e che dimostra(va)no il concreto pericolo di un evento letale a seguito dell’assunzione di una determinata dose di droga” (punto 15.1 della sentenza). Anzi, le Sez. Un. scendono in una analisi quasi particolareggiata degli indici che denotano questa colpa in concreto; nel caso specifico della morte dell’assuntore degli stupefacenti tali indici possono essere: “alito vinoso” piuttosto che “fragilità fisica o di consumatore di medicinali”, parametri che si fondano sulla persona-fisica dell’assuntore, oppure il fatto che lo spacciatore abbia ceduto la droga in locale in cui solitamente si fa uso di “sostanze alcoliche”, oppure abbia ceduto droga a “soggetti minorenni”, oppure l’abbia ceduta a soggetti “di cui conosceva i precedenti tentativi di disintossicazione”, oppure, ancora, abbia ceduto “sostanza micidiale come l’eroina a persona di giovanissima età, di esile costituzione fisica e che evidenzia la precedente assunzione di tranquillanti” (15.2), parametri che pongono attenzione alla condotta dell’agente.
La regola cautelare violata, da cui dipende la colpa, è quella di non aver valutato “tutte le circostanze del caso concreto” che facessero ‘prevedere’ (colpa) l’evento morte o lesioni.
Così, nell’ottica della Corte, sembra accolta la c.d. doppia valutazione della colpa: 1) violazione della regola cautelare; 2) “mancato esercizio del richiesto controllo sui decorsi causali esterni” (Fiore, Op. cit., 258). Il primo profilo attiene alla tipicità, il secondo alla colpevolezza (Fiandaca-Musco, Op. cit., 511).
Sicché, se pure la colpa non ha un reale legame psicologico con l’evento, lo ha con la condotta, da cui esso deriva (Gallo, Op. cit. t.1, 145).
Dunque, la condotta del reato base è quella intenzionale della cessione dello stupefacente, che costituisce violazione della regola cautelare, poco importa che quella condotta costituisca reato si per se stessa, perché sarà il non essersi attivati per evitare i decorsi causali, comunque non voluti, a fornire la piattaforma su cui ‘costruire’ la colpa.
Affinché possa residuare colpa, comunque, come la dottrina maggioritaria ritiene, l’evento non voluto (vale anche per l’art. 586) non deve essere oggetto diretto e immediato della tutela del delitto base, ma violazione di una regola di cautela (colpa) diversa, individuata in termini di prevedibilità in seguito alla condotta dolosa.
Così, il divieto di spaccio non tutela di per sé l’incolumità personale, ma il fatto che esista un mercato illegale di quelle sostanze, certo nell’orbita del ‘fenomeno droga’, tanto di rilevo nella società moderna; ma il carattere di autonomia delle norme incriminatrici dello spaccio di droga dà comunque – di riflesso – un guadagno di prevedibilità “calcolabile” dell’evento ulteriore e astratto, da filtrarsi “in concreto”, sulla base della condotta tenuta dall’agente nella situazione ‘umanizzata’ e contestestualizzata in cui ha agito.
Ne consegue che, nel caso di specie, l’art. 586 non tutela genericamente la salute pubblica dallo ‘spargimento’ di stupefacenti tra gli adolescenti, ad esempio, ruolo che spetta alla norme sugli stupefacenti, ma tutela “il rischio specifico” del singolo assuntore a seguito dell’esito morte o lesioni che segue alla violazione delle prime norme. Opinare diversamente significherebbe, per la Corte, ritornare alla teoria sopra menzionata di Giovanni Leone, ad oggi ritenuta non condivisibile.
Riassumendo, pare sostenibile, affermare che – secondo la Suprema Corte di Cassazione – nel caso dell’art. 586, alla base vi sia una condotta intenzionale (ex art. 43), costituente il reato (doloso), e una condotta non intenzionale (ex art. 43), qualificata come imprudente, negligente o imperita, che si riversa sull’evento non voluto, qualificandolo come colposo, perché non si sono previste, in concreto, le possibilità lesive della cessione degli stupefacenti, rispetto al singolo, specifico, consumatore, a seguito di cessione.
In altre parole, solo quando l’evento sarà non prevedibile non ci sarà responsabilità dello spacciatore (Garofali, La responsabilità dello spacciatore, in La rivista nel diritto, 07/09); difatti, ciò avviene perché ci sarà una vera e propria responsabilità per colpa, in cui l’evento ulteriore è addebitato – senza finzioni – a carico dell’agente, il quale ha certamente agito colposamente, poiché si è reso conto della fragilità specifica dell’assuntore di droga, come detto sopra, al soggetto cioè cui egli ha ceduto le sostanze stupefacenti.
5. I precedenti conformi e/o difformi.
Molte massime sono nel testo. Qui si ordinano cronologicamente, tra le citate, quelle più rilevanti.
Cass. Sez. VI, 10 febbraio 1955, n. 1955; Cass. Sez. I, 25 giugno 1985, n. 6395; Cass. Sez. I, 23 ottobre 1986, n. 11486; Cass. Sez. IV, 02 febbraio 1995, n. 1129; Cass. Sez. I, 28 marzo 1997, n. 2955; Cass. Sez. I, 20 gennaio 2003, n. 2595;
6. Gli spunti bibliografici.
– Oltre ai contributi di volta in volta richiamati nel testo, fondamentali sono quelli che seguono.
Militello V., Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, in Digesto Disc. Pen., Vol. VIII.B. Mirri, Vita e incolumità individuale (delitti contro la), in Enc. Giur.
Palazzo F.C., Persona (delitti contro la), in Enc. Dir., XXXIII, 1983.
Stile A., Morte o lesione come conseguenza di altro delitto, in Enc. Dir., XXVII, 1977.
– Più di recente, meritano attenzione:
Ronco-Ardizzone, Art. 586, in Codice penale ipertestuale, 2006.
Villa L., Morte o lesione come conseguenza di altro delitto: responsabilità oggettiva o colpa?, in Ventoquattrore Avvocato, n.12, 2005, p.82 ss.
Garofali, La responsabilità dello spacciatore, in La rivista nel diritto, 07/09.
Cass. Sez. Un. 22676/09: colpa in concreto, nesso causale e responsabilità dello spacciatore per la morte dell’assuntore di stupefacenti. Salviamo l’art. 586 c.p.
Risolvendo un contrasto di giurisprudenza, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno affermato che, nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 cod. pen. per l’evento morte non voluto richiede non soltanto che sia accertato il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza. La prevedibilità ed evitabilità dell’evento morte devono essere valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale.
Scanniello Michelangelo
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento