L’art. 348 c.p. così statuisce: “Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 103 a euro 516”. Nella sentenza che qui si commenta la Suprema Corte analizza un tema assai interessante connesso al delitto di esercizio abusivo della professione, ossia quello della responsabilità a titolo concorsuale del professionista il quale consente che altri, sforniti della necessaria abilitazione, compiano atti tipici della professione.
La vicenda vede protagonista un dentista, il quale viene rinviato a giudizio per il reato di cui all’art. 348 c.p. a titolo di concorso per non aver impedito che una sua lavoratrice effettuasse un intervento di igiene orale, pur essendo sfornita del diploma di igienista dentale. Sia in primo grado, che in Appello le tesi della pubblica accusa vengono accolte, ed il professionista condannato. In particolare, la responsabilità concorsuale viene affermata in base alla presenza in capo al dentista di una posizione di garanzia, la quale avrebbe comportato l’obbligo in capo ad esso di impedire che altri svolgessero attività professionali abusive. Inoltre, anche la semplice connivenza o tolleranza comporterebbe l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
La tesi seguita dai Giudici di merito, sia per quanto riguarda la titolarità di una posizione di garanzia sia per quanto concerne l’analisi della condotta, non viene, tuttavia, accolta dalla Corte di Cassazione.
Non può essere infatti ravvisata alcuna posizione di garanzia essendo quello di cui all’art. 348 c.p. reato di mera condotta, e dunque non essendo presente alcun evento da impedire.
Né può ritenersi penalmente rilevante una mera connivenza o tolleranza dell’altrui abusivo esercizio della professione. Infatti, richiamando pregressa giurisprudenza (in particolare, Cass., sez. VI, 9 aprile 2009, n. 17893), gli Ermellini ritengono che occorra una condotta che agevoli o favorisca l’altrui agire, ossia che venga dimostrato il contributo a titolo concorsuale del concorrente nella realizzazione del reato.
In altri termini, dalla premessa per cui “per ritenere la responsabilità del titolare dello studio medico professionale a titolo di concorso con l’autore era necessario dimostrare che questi conoscesse che nello studio venivano eseguiti interventi per cui necessitava una speciale abilitazione e che consentisse tali interventi” discende l’annullamento della sentenza e il rinvio degli atti ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania, la quale dovrà tenere conto dei principi di diritto affermati.
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