Con la sentenza in epigrafe la sesta sezione della Suprema Corte è tornata ad occuparsi del reato di cui all’art. 572 c.p.
Non che non l’avesse fatto in diverse occasioni negli ultimi anni.
Tuttavia, la decisione in commento è stata oggetto di bersaglio da parte dei mass media che – come sovente accade – hanno fornito un’interpretazione erronea del suo contenuto ricavandone la seguente massima “ Quando la donna ha un carattere forte non costituiscono reato i maltrattamenti commessi a suo danno dal marito”.
Orbene, è evidente il travisamento da parte dei media del ragionamento e delle affermazioni effettuate dalla Suprema Corte, che con la decisione in esame non ha fatto altro che ribadire un orientamento pacifico della giurisprudenza di merito e di legittimità secondo cui per la sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia , che è reato a condotta plurima, non sono sufficienti singoli e sporadici episodi occasionali, in quanto i più atti che integrano l’elemento materiale del reato debbono essere collegati tra loro da un nesso di abitualità e devono essere avvinti, nel loro svolgimento, da un’unica intenzione criminosa, quella appunto di avvilire ed opprimere la personalità della vittima.
Orientamento che sino alla sentenza depositata il 2 luglio scorso non aveva mai destato scandalo.
Prima però di passare al vaglio la pronuncia de qua, pare il caso di accennare seppure brevemente alla fattispecie criminosa prevista e punita dall’art. 572 c.p. la cui rubrica reca “ Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”.
Com’è noto, ai sensi dell’indicata disposizione commette il delitto di maltrattamenti in famiglia chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente , maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
Ad onta del chiunque utilizzato dal legislatore del ’30 – solitamente incipit del reato comune – il reato di maltrattamenti è un reato proprio, vale a dire un reato che può essere commesso solo da chi è legato al soggetto passivo da un rapporto di familiarità o disciplinare.
Ed è proprio il rapporto di familiarità che in passato è stato al centro di un ampio dibattito che ha visto contrapposte una parte minoritaria della dottrina a mente della quale sarebbero persone di famiglia solo le persone indicate nell’art. 540 c.p., e dall’altro lato la giurisprudenza e la dottrina dominante (Pannain, Antolisei) secondo cui, invece, deve considerasi famiglia ogni consorzio di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione.
A quest’ultimo proposito, sembra avere fugato ogni dubbio il disegno di legge n. 574-A sui reati sessuali approvato dalla Camera il 14 luglio 2009 (allo stato attuale al vaglio del Senato) che ha ritoccato l’art. 572 c.p. la cui rubrica sarà – se il d.d.l. diverrà legge – “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”.
Venendo a quel che in questa sede più ci interessa ossia l’elemento oggettivo del reato sostanziatesi nei maltrattamenti, occorre evidenziare come sia la dottrina sia la giurisprudenza concordano sul fatto che esso sia costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti,delittuosi o non, realizzati in momenti successivi con la consapevolezza di ledere l’integrità fisica e il patrimonio morale del soggetto passivo, sì da sottoporlo ad un regime di vita dolorosamente vessatorio (L. Delpino)
Atti che, giova precisare, non devono consistere singolarmente considerati necessariamente in condotte delittuose ( molestie, ingiurie, percosse) ben potendo trattarsi di atti che pur non costituendo singolarmente reato producano comunque sofferenze anche solo morali.
È bene precisare, altresì, che anche le condotte omissive sono idonee ad integrare i maltrattamenti ex art. 572 c.p.
Con riferimento all’elemento oggettivo della fattispecie criminosa in esame, anche la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire nel corso del tempo che Nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari; tuttavia, deve escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.
E che i fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona ( Cassazione penale sez. VI, 27 maggio 2003 n. 37019)
Ed ancora gli ermellini hanno affermato che Nella nozione di “maltrattamenti” rientrano i fatti lesivi dell’integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendano “abitualmente” dolorose le relazioni familiari, e manifestantisi mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento o con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose. ancorché tali da non lasciare traccia. A tal fine ciò che rileva è l’ “abitualità” della condotta, che caratterizza e “unifica” i diversi atti vessatori, avvinti nel loro svolgimento, da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo. “Abitualità” che, peraltro, non significa che per la configurabilità del reato occorra un comportamento vessatorio continuo e ininterrotto, giacchè è ben possibile che gli atti lesivi si alternino con periodi di normalità nei rapporti e che siano, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, proprio in ragione della natura abituale del delitto, l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non fa venir meno l’esistenza dell’illecito.(Cass. pen. sez.VI, 12 aprile 2006, n. 26235)
Nello stesso senso si è pronunciata la giurisprudenza di merito allorquando ha stabilito in una recentissima sentenza che Il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato quando non vi sono né una serie continua di vessazioni né un’ampia condotta abituale ma solo episodi che, pur nella loro riprovevolezza, non hanno determinato quella costante sottoposizione della persona offesa ad un regime di vita intollerabile che caratterizza l’elemento materiale del delitto previsto e punito dall’art. 572 c.p. (Tribunale La Spezia, 28 settembre 2009 n. 828)
Infine, quanto all’elemento soggettivo del delitto de quo è sufficiente il dolo generico ossia la coscienza e la volontà di maltrattare il soggetto passivo a prescindere dalle finalità avute di mira dall’agente. (Antolisei)
Al riguardo, trattandosi di reato abituale secondo la più recente giurisprudenza La mera pluralità di episodi vessatori (nella specie, trattavasi di percosse, ingiurie e minacce) non è di per sé sufficiente a integrare il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), in assenza di un dolo che abbracci le diverse azioni e che ricolleghi a unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e psichica del soggetto passivo. (Cassazione penale sez. VI 26 febbraio 2009, n. 14409)
Alla luce di quanto precede e passando all’analisi del dictat della decisione n. 25138 del 2 luglio 2010 che cotanta indignazione ha provocato nell’opinione pubblica, non pare che la sesta sezione penale della Cassazione abbia detto nulla di nuovo rispetto al suo tradizionale orientamento in materia di maltrattamenti in famiglia.
È opportuno anzitutto precisare che in nessun passo della breve sentenza della Corte è dato leggere che i maltrattamenti compiuti dal marito nei confronti di una moglie dal carattere forte non costituiscono reato.
Nel caso di specie l’imputato sia in primo che in secondo grado è stato condannato per il reato di cui all’art. 572 c.p. perpetrato ai danni della moglie per avere secondo i giudici di prime cure con ingiurie, minacce e percosse (provate sulla base di parziali ammissioni dell’imputato e di testimonianze di medici e conoscenti) posto in essere una condotta abituale di sopraffazioni, violenze ed offese umilianti lesive dell’integrità fisica e morale della donna.
Ed è proprio l’elemento dell’abitualità ad essere stato oggetto di contestazione da parte del condannato che ha proposto ricorso per cassazione lamentando il difetto di motivazione sull’accertamento di tale requisito da parte dei giudici di appello.
Due sono i punti su cui viene attaccata la motivazione della sentenza di secondo grado.
– L’avere ritenuto accertata un’abituale condotta di sopraffazione, pur avendo gli stessi giudici riconosciuto come risibile uno degli episodi denunciati dalla donna cioè un finto auto-accoltellamento.
– L’avere scambiato per sopraffazione esercitata dall’imputato nei confronti della moglie un clima di tensione tra i coniugi nell’ambito del quale gli episodi di ingiurie, minacce e percosse andavano collocati ed interpretati.
Clima di tensione che, a dire della difesa dell’imputato, emerge dal fatto che la donna stessa aveva ammesso che non era affatto intimorita dalla condotta del marito.
Gli ermellini nel ritenere fondato il ricorso proposto dal condannato hanno chiarito in primo luogo che perché sussista il reato di maltrattamenti in famiglia occorre che sia accertata una condotta (consistente in aggressioni fisiche o vessazioni o manifestazioni di disprezzo) abitualmente lesiva della integrità fisica e del patrimonio morale della persona offesa, che, a causa di ciò, versa in una condizione di sofferenza.
In secondo luogo, hanno verificato se i giudici di seconde cure avessero motivato correttamente -sulla base degli elementi a loro disposizione – in riferimento al requisito dell’abitualità in assenza del quale come appena affermato non sussiste il reato .
A tal proposito, hanno constatato che i fatti incriminati più che in una condotta abituale si erano risolti in alcuni limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di tre anni (…) che non rendono di per sé integrato il connotato di abitualità della condotta di sopraffazione richiesta per l’integrazione della fattispecie in esame; tanto più che la condizione psicologica della donna, per nulla intimorita dal comportamento del marito, era solo quella di una persona scossa esasperata molto carica emotivamente.
La corte di legittimità inoltre ha ritenuto che nel caso in esame non fosse sussistente nemmeno l’elemento soggettivo del reato, atteso che secondo il suo consolidato indirizzo, ribadito anche di recente, la mera pluralità di episodi vessatori non è di per sé sufficiente a integrare il reato di maltrattamenti in famiglia in assenza di un dolo che abbracci le diverse azioni e che ricolleghi a unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e psichica del soggetto passivo.(Cass. pen., sez. VI, 26 febbraio 2009, n. 14409)
Avv. Carmela Puzzo
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