Secondo la definizione classica, per diritto penale si intende l’insieme delle norme dell’ordinamento giuridico che prevedono e disciplinano l’applicazione di una misura sanzionatoria di carattere giuridico-penale, come conseguenza di un determinato comportamento umano. Questa definizione risponde ad una precisa esigenza posta da ogni sistema organico di regole di comportamento, che identifica nel momento critico della sua esistenza, quando cioè sono posti in essere contegni ritenuti pregiudizievoli per la sua sopravvivenza, l’occasione per imporre all’autore di tali contegni una misura più o meno invasiva della sua sfera di pertinenza, potendo investire sia il profilo personale, sia quello più prettamente patrimoniale. Questa misura sanzionatoria è definita “sanzione criminale” e, come appena precisato, viene applicata ove nei consociati si manifesti, in modo concreto, una condotta in ordine alla quale i normali sistemi di coazione giuridica si rivelano non sufficienti allo scopo di difesa dell’ordine giuridico.
Così circoscritta la nozione di diritto penale, può dirsi che all’ambito della sua pertinenza possono essere ricomprese sia le norme che stabiliscono a quali comportamenti deve conseguire la inflizione della sanzione criminale, sia le norme che stabiliscono la specie e l’entità delle sanzioni applicabili, sia, ancora, quelle che fissano le regole in base alle quali la sanzione dovrà essere applicata ad un determinato soggetto e non ad altri. Da ciò si può comprendere, agevolmente, che sebbene comuni sotto l’ombrello della definizione che si è data, le norme del diritto penale si differenziano per la funzione ad esse riconosciuta ed, in particolare, per lo scopo cui viene ad esse assegnato. Dunque, non solo quelle che individuano, semplicemente, i comportamenti riprovati ed in ordine ai quali si concentra l’attenzione di un giudizio di valore negativo, ma anche quelle che, più concretamente, si preoccupano di stabilire i criteri che consentono di operare una differenziazione relativa al loro contenuto ed ai criteri in base è possibile stabilire perché solo ad alcuni e non a tutti gli altri soggetti dell’ordinamento esse sono applicabili.
È, allora, agevole comprendere come le norme penali costituiscano un insieme di regole peculiari e ciò che definisce la pertinenza di una norma all’ambito di esperienza giuridica ricoperta dal diritto penale è il fatto che, secondo uno dei modi descritti, essa concorre a stabilire un collegamento tra un comportamento umano e l’applicabilità di una sanzione criminale. Questa particolare connessione investe interamente il sistema penale e contribuisce a differenziare la norma giuridico-penale da ogni altra disposizione dell’ordinamento giuridico. Ciò, peraltro, non significa che l’individuazione di codeste norme avvenga in modo indiscriminato. Il principio di legalità, che costituisce uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento, presiede, infatti, a questa delicata operazione, poiché quali misure giuridiche abbiano il carattere della sanzione criminale e quale debba essere il loro contenuto è la legge a stabilirlo.
Questa definizione di diritto penale costituisce la risultante di una lunga e complessa evoluzione del pensiero giuridico, di cui si narreranno le tappe nelle pagine seguenti. Per il momento, è opportuno focalizzare la nostra attenzione su alcuni concetti fondamentali, la cui conoscenza è basilare per la comprensione dei meccanismi di questo particolare settore del diritto, tanto importante da costituire un fulcro indefettibile di ogni comunità umana organizzata ed al quale si assegnano i fondamentali compiti di preservare la sua stessa sopravvivenza.
Poc’anzi, si è accennato alla distinzione che è possibile cogliere nel quadro delle norme del diritto penale. Quelle che, però, costituiscono il nucleo essenziale di tutto il sistema sono rappresentate da quelle che minacciano l’applicazione di una pena – c.d. pena criminale – come conseguenza di comportamenti umani. Ciò non avviene, come precisato, in modo indiscriminato ed arbitrario. Il principio di legalità, che presiede all’intero sistema, obbliga ad un rigorosa operazione delineativa delle condotte alle quali consegue l’applicazione di una sanzione di carattere giuridico-penale. Ne deriva che solo la legge può stabilire quali sono i comportamenti umani suscettibili di un giudizio di valore negativo, facendo ad essi conseguire, a date condizioni, e a titolo di reazione del sistema normativo, l’inflizione concreta della pena. Detti comportamenti si risolvono in fatti umani, i cui caratteri identificativi, sotto forma di una descrizione più o meno profonda, sono delineati attraverso previsioni generali ed astratte e si dicono “reati”. È, dunque, reato ciò che la legge rende tale a mezzo della minaccia di una pena criminale.
Quella di reato è una nozione rigidamente formale, poiché il sistema non tollera una definizione diversa da quella appena data. Così disponendo, il legislatore ha dato accoglimento, al pari di altri ordinamenti, al principio di legalità dei delitti e delle pene. Come citato nell’opera del Beccaria, Dei delitti e delle pene, “le sole leggi possono decretare le pene sui delitti; e questa autorità non può che risiedere presso il legislatore”. Nel nostro ordinamento, questo fondamentale principio è espresso dall’art. 1 c.p., ove è scritto che nessuno può essere punito per un fatto che non sia preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. In virtù di questo assunto, quindi, viene chiarito che ove si discuta dell’applicazione di una sanzione criminale nei confronti di un soggetto, in tanto si può pervenire ad una conclusione che richiami la sua responsabilità per avere commesso un fatto suscettibile di risposta sanzionatoria da parte dello Stato, in quanto quel tale fatto corrisponda ad una previsione legislativa.
Ciò, peraltro, non deve pensarsi che la portata di codesto principio sia limitata alla sola previsione dei fatti indicati dalla legge come reati, ma si estende anche al momento che segue l’accertamento della penale responsabilità di un imputato. In breve, in tanto può ritenersi applicabile una specifica misura sanzionatoria ad un soggetto in quanto, dopo che ne siano stati accertati i presupposti della sua concreta inflizione, in quanto la misura sia prevista e disciplinata dalla legge. Il giudice non è, quindi, libero nella scelta delle misure da applicare al reo, ma deve, secondo criteri legislativamente fissati, effettuare la sua scelta tra quelle previste dalla legge.
Nel sistema normativo italiano si individuano, oltre alle pene vere e proprie, anche altre tipologie di misure sanzionatorie, sempre riconducibili all’area di esperienza ricoperta dall’ordinamento penale. Si tratta di previsioni riconducibili a sottosistemi normativi, i quali, in sintonia con i fini e con i mezzi predisposti dal diritto penale in senso stretto, collegano a determinate situazioni e condotte individuali conseguenze di carattere giuridico-penale, diverse dalla pena criminale, anche se ad essa affini. Anche queste ultime, tuttavia, soggiacciono all’imperante principio di legalità, secondo il senso sopra chiarito. Anche per esse, allora, si rende necessaria la rispondenza ad una previsione normativa che ne stabilisca il contenuto e ne indichi gli elementi essenziali, poiché le esigenze di chiarezza e ragionevolezza, che accompagnano l’attività del legislatore in ogni sua parte, non possono dirsi attenuate nel campo della penalità.
In tal senso, si individuano le c.d. misure di sicurezza, di cui agli artt. 199 ss. c.p. Recita, infatti, questa norma che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti. Come le pene, anche le misure di sicurezza seguono al compimento di un fatto previsto dalla legge come reato o di un altro fatto, che, sotto questo profilo, risultano equiparti al reato. Ma a differenza delle pene, esse vengono utilizzate dalla legge come mezzo per prevenire l’ulteriore commissione di reati. Il pricipio sopra riportato assurge al rango di principio costituzionalmente rilevante, poiché, secondo l’art. 25, comma 3, Cost. è scritto che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge. A ben vedere, quindi, il principio di legalità sovrintende ad ogni manifestazione del potere di penalità riconosciuto alle autorità cui compete l’accertamento dei fatti previsti dalla legge come reato o di altri fatti equiparati a reato.
Il fine della prevenzione dei reati è insito anche in altre misure, ugualmente stabilite dalla legge. Negli ultimi anni, hanno assunto crescente importanza le c.d. misure di prevenzione, le quali, però, presentano caratteristiche peculiari che le differenziano sia dalle misure di sicurezza sia dalle pene vere e proprie. Esse, infatti, prescindono dall’accertamento della commissione dei reati per porsi in collegamento con una peculiare connotazione di pericolosità criminale che l’ordinamento desume da una condotta di vita del soggetto che ne diviene destinatario, tale da fondare un rilevante giudizio di probabilità che egli abbia commesso, stia commettendo o possa commettere, in un futuro più o meno prossimo, determinati reati.
Si tratta, come ben si può immaginare, di misure che l’ordinamento adotta solo in determinati casi, caratterizzati dalla rigorosa predeterminazione dei presupposti di applicazione e da un regime di accertamento non meno severo, poiché producono l’effetto di far soggiacere un soggetto ad una misura restrittiva della sua sfera di azione pur non avendo commesso alcun fatto previsto dalla legge come reato e, tuttavia, bisognoso di una particolare attenzione da parte dell’ordinamento che individua nella sua condotta di vita gli elementi prodromici alla prossima commissione di reati. Ciò spiega perché si parli delle misure di prevenzione anche in termini di misure ante delictum o praeter delictum. Inoltre, mentre i reati e le misure di sicurezza possono trovare la loro collocazione sia nel codice penale che nella legislazione speciela, le misure di prevenzione sono previste esclusivamente dalla seconda tipologia di fonte di cognizione (si ricordano, a titolo di esempi, tra i più noti, la legge n. 1423/1956, la legge n. 575/1965, la legge n. 152/1975).
Pene, misure di sicurezza e misure di prevenzione danno vita, nel loro complesso, al sistema delle sanzioni criminali, che esprimono la triplice articolazione di interventi attraverso cui l’ordinamento giuridico vigente organizza la funzione di repressione e prevenzione dei reati. Gli organi ai quali compete l’accertamento dei reati e la concreta inflizione delle sanzioni, dispongono così di un ventaglio di opzioni piuttosto ampio, tale da rendere, nei singoli casi concreti, la risposta che si rivela più adeguata alle esigenze di prevenzione o di repressione che si pongono manifeste ove di esse si richiede l’applicazione.
In tutte e tre queste sue fondamentali determinazioni, il diritto penale vigente si configura, da ogni punto di vista, come diritto pubblico, poiché, com’è agevole comprendere, esso non regola conflitti tra privati, ma manifesta la risposta di carattere sanzionatorio che l’ordinamento fa conseguire nei casi, rigorosamente predeterminati, in cui il soggetto viola le sue regole, determinando la lesione o il pericolo di lesione di taluni beni giuridici. Ovviamente, non tutti i beni giuridici sono tutelati dal diritto penale. In effetti, l’ordinamento giuridico ricorre al diritto penale per apprestare protezione a quei beni (ad esempio, l’ambiente o la vita umana), i quali non troverebbero un’adeguata tutela se non attraverso la minaccia dell’applicazione di misure particolarmente pervasive della sfera di azione dei soggetti. Sono, dunque, dette manifestazioni, corrispondenti a reati o a fatti equiparati, che, nel caso concreto, vengono assunti fra i comandi e i divieti penalmente sanzionati, verso i quali si concentra un giudizio di valore negativo.
La connotazione del diritto penale come diritto pubblico non può essere smentita dalla previsione di taluni casi in cui l’ordinamento giuridico sembra lasciare un certo spazio di operatività ai soggetti privati, derogando la competenza esclusiva in questo senso riconosciuta agli organi statuali a cui viene affidata l’attività di prevenzione e di repressione dei reati. Una simile eventualità si verifica ogni qual volta la legge, come condizione di procedibilità, subordina alla proposizione di querela di parte la persecuzione di talune ipotesi di reato. Ma una volta che sia stato rimosso, attraverso la presentazione della querela, l’eventuale ostacolo all’applicazione delle norme del diritto penale, è la potestà punitiva dello Stato che trova esplicazione. Deve, pertanto, affermarsi che non esiste, nel nostro ordinamento, allo stato attuale, la possibilità di configurare una potestà punitiva privata che sia concorrente con quella statuale.
Un altro punto che preme precisare è l’equivoco insito nell’inquadramento, pure operato da taluni, di ricomprendere il diritto penale in seno al diritto amministrativo. I sostenitori di questa opzione si fondano, essenzialmente, sulla configurabilità del diritto penale nel quadro del diritto pubblico, da un lato, e sulla considerazione dell’amministrazione della giustizia come un settore della pubblica amministrazione, dall’altro.
A questo punto, si rende opportuno precisare che per diritto amministrativo si intende il complesso di norma dell’ordinamento giuridico che concernono la pubblica amministrazione nel suo momento organizzativo, ma non per questo si può essere autorizzati a concludere nel senso di racchiudere in esso il sistema positivo del diritto penale, benchè l’evoluzione del pensiero giuridico e lo stesso susseguirsi delle riforme legislative hanno segnato, nell’arco del tempo, una certa fluidità di confini dell’uno e dell’altro.
Di una considerazione del diritto penale come “diritto penale amministrativo” si è, ad esempio, parlato a proposito delle norme che disciplinano le misure di sicurezza e le misure di prevenzione di cui poc’anzi si è fatto cenno. In tal senso, militerebbe la stessa intestazione del titolo VIII del libro I (“Delle misure amministrative di sicurezza”). Ciò nonostante, si è pur sempre in presenza di norme di diritto penale che in nulla possono essere avvicinate a quelle proprie del diritto amministrativo. Come si è avuto modo di illustrare sopra, sia le misure di sicurezza, sia le misure di prevenzione riguardano un momento peculiare in cui l’ordinamento si mostra interessato alle vicende relative alla condotta di vita dei soggetti, da cui può trarre, per le misure di sicurezza, il presupposto per sottoporre l’individuo ad alcuni penetranti interventi nella sua sfera di libertà di azione, mentre per le misure di prevenzione, coglie, da un giudizio prognostico fondato sulla condotta di un soggetto, i presupposti per ritenere possibile od imminente la commissione di fatti previsti dalla legge come reato o di fatti equiparati a reato.
Di un diritto penale amministrativo si è parlato, talora, anche per identificare la figura degli illeciti depenalizzati: si tratta di figure di reato, per lo più di lieve entità, che leggi recenti hanno convertito in illeciti amministrativi, assoggentandoli a sanzioni non penali. Anche in questo caso, tuttavia, si deve escludere la possibilità di configurare un assorbimento del sistema penale nella disciplina del diritto amministrativo. Ad una tale conclusione si arriva attraverso l’esame della ratio delle leggi di depenalizzazione: esse, infatti, hanno operato nel senso di escludere dall’area di pertinenza della penalità di determinate figure di illecito, focalizzando su di esse una mutata impostazione di un passato giudizio di valore, dapprima legittimante la necessità di apprestare verso tali condotte degli strumenti di risposta (di prevenzione e di repressione) statuale che si sono estrinsecate attraverso la previsione dell’applicazione di misure sanzionatorie di carattere giuridico-penale, e poi, in seguito al mutare degli orientamenti provenienti dal tessuto sociale, attraverso una massiccia opera volta alla loro esclusione dal settore di rilevanza del diritto penale.
Tutt’al più può concedersi di pervenire ad una differente conclusione nel senso di configurare, nel caso che ci occupa, un diritto amministrativo penale, ma non nel senso fuorviante di ricomprendere l’una figura nell’altra bensì come alludente ad una sostanziale analogia con il meccanismo di intervento tipico del diritto penale (la sanzione) che sarebbe operato in questa sede dal diritto amministrativo. In breve, il diritto amministrativo si servirebbe, per la realizzazione dei suoi fini orientati massimamente alla soddisfazione dell’interesse pubblico con il minor pregiudizio possibile per gli interessi privati incisi dall’esercizio dei poteri pubblici, di strumenti non suoi propri bensì presi in prestito da un’altra disciplina (nel qual caso, il diritto penale), ma senza che questo implichi come sopra precisato, di far confluire il sistema apprestato dal legislatore per la prevenzione e la repressione di talune condotte ritenute pregiudizievoli per l’incolumità e la salvaguardia di taluni beni giuridici nel quadro del diritto amministrativo.
Precedentemente, si è parlato del diritto penale come ricompreso e facente parte delle materie del diritto pubblico e si è precisato che la stessa amministrazione della giustizia, in realtà, corrisponde ad uno dei settori più rilevanti della pubblica amministrazione. Qui conviene tornare sul punto, precisando che nel sistema pubblicistico, il diritto penale viene ad occupare un posto a sé stante, ove si punta l’attenzione sul fatto che esso, nella misura in cui gli si attribuisce l’ufficio di stabilire, in via esclusiva, a quali comportamenti umani debba conseguire l’applicazione di una sanzione di carattere giuridico-penale, riconoscendone, pertanto, l’autonomia scientifica e sistematica. Si è più volte precisato, infatti che al diritto penale si rivolge attenzione come misura di estrema ratio, ove gli altri strumenti di tutela predisposti dagli altri settori del diritto si rivelano insufficienti rispetto al fine della salvaguardia di taluni beni e valori ritenuti fondamentali.
Relativamente recente è, del resto, la distinzione tra diritto penale, diritto processuale penale e diritto della esecuzione penale. Ciò si rende opportuno al fine di far confluire in un’unica categoria partizioni frutto della evoluzione storica ed evitare una loro deleteria dispersione lontana da una definizione di diritto penale in senso ampio che li possa ricomprendere. In tal modo, ove si parli di diritto penale, si opera un riferimento esteso a categorie concettuali che, sia pure distinte sotto certi aspetti, presentano una connotazione univoca e diretta a porsi come tante manifestazioni di un’unica direttrice e tendente ad uno scopo unitario.
Più in particolare, di diritto penale, di diritto processuale penale e di diritto dell’esecuzione penale, può parlarsi come altrettante branche del sistema unitario del controllo sociale, in cui l’uno non sarebbe pensabile senza il riferimento all’altro. Sul concetto di diritto penale e sul suo significato non occorre spendere ulteriori parole di commento rispetto a quanto detto sopra. Può dirsi, a mo’di bignami, che ad esso spetta il compito di rispondere ad un fondamentale quesito: e cioè, se ad un soggetto ben determinato sia applicabile una determinata misura sanzionatoria di carattere giuridico penale e, in caso di risposta affermativa, quale. Esse, quindi, ci dicono quali sono i comportamenti suscettibili di ricevere attenzione da parte del diritto penale ed a quali condizioni sia possibile dare reazione ad essi attraverso la concreta inflizione di pene.
Il diritto processuale penale ed il diritto dell’esecuzione penale, invece, rispondono ad una logica più omogenea e, a differenza del diritto penale che, come precisato, illustra i caratteri generali per mezzo dei quali si può attribuire a taluno una ipotesi di penale responsabilità, si occupano di fissare le regole alle quali gli organi statuali incaricati della prevenzione e della repressione dei reati debbono attenersi nel procedere ai relativi accertamenti e nel far luogo alla concreta applicazione delle diverse misure di carattere giuridico-penali.
Si è, infatti, sopra precisato che il principio di legalità (accolto nel nostro ordinamento dall’art. 1 c.p.) si estende non solo alle ipotesi di predeterminazione legislativa dei casi in cui a taluno sia possibile muovere un giudizio di valore negativo, sotto forma di un rimprovero, per avere violato una norma penale, ma anche ai casi in cui ci si interroga sulle regole da seguire ove si debba operare in concreto un siffatto accertamento.
D’altra parte, le regole della procedura costituirono oggetto di attenzione degli studiosi e degli intellettuali fin dagli albori del secolo dei lumi. Sia Beccaria che lo stesso Montesquieu attribuivano una grande rilevanza alle regole procedurali, al fine di evitare che l’imputato restasse vittima, sostanzialmente, di un sistema che non gli consentisse di esplicare nel pieno i suoi diritti (primo fra tutti, il diritto di difesa in ogni stato e grado del giudizio). Era quella anche l’epoca in cui, per la prima volta, giungevano condanne dirette a talune procedure contrarie al senso di umanità – tale era, ad esempio, la tortura, di cui il Beccaria, nelle pagine del Dei delitti e delle pene, parlava come di una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni. In breve, era proprio dalla legalità nell’ambito della celebrazione dei processi che si traeva il senso di una crescente importanza attribuita al diritto processuale, di cui venne, in breve riconosciuta, la rilevanza in un sistema tanto efficace quanto rispondente al fondamentale canone di legalità che in quel periodo cominciava a muovere i primi passi, per poi esplodere in tutta la sua potenza durante gli anni della rivoluzione contro le monarchie assolute.
Nell’ambito della nozione omnicomprensiva di diritto penale in senso ampio che sopra si è data, spesso viene usata l’espressione diritto sostanziale per contrapporre il diritto penale al diritto della procedura penale, alludendo nel primo caso alle regole, ai principi e alle categorie concettuali per mezzo delle quali si attribuisce ad un dato comportamento umano l’esito di un giudizio di valore negativo; nel secondo caso, più semplicemente, alle regole del rito grazie alle quali le responsabilità penalmente rilevanti vengono accertate e fatte oggetto dell’applicazione delle norme disciplinanti le sanzioni di carattere giuridico-penale. Ciò non toglie, tuttavia, che al di fuori della ristretta relazione ora suggerita, l’espressione “diritto processuale penale” assume lo stesso, identico significato di quella dell’espressione “diritto penale”, senza altra oggettivazione.
Un’altra espressione che conviene prendere in esame in questa sede è quella di diritto penale in senso oggettivo. Ad essa, in particolare, si suole fare riferimento ogni qual volta si orienta una relazione immediata tra un dato comportamento umano ed una determinata misura sanzionatoria penale. Si tratta, in breve, della nozione di diritto penale che si è data fino a questo momento, cioè di quella che pone al centro dell’attenzione un dato insieme di regole poste alla salvaguardia di taluni beni giuridici, considerati di importanza primaria, e tutelati attraverso norme minaccianti in caso di inosservanza o di trasgressione una specifica reazione dello Stato particolarmente invasiva e pervasiva della sfera di libertà di azione dei consociati. Del diritto penale in senso oggettivo, quindi, protagonista è la norma giuridica singolarmente considerata e posta al centro dell’intero sistema delle relazioni tra i consociati e gli organismi statuali incaricati dell’attività di prevenzione e di repressione dei comportamenti umani corrispondenti a fatti di reato.
Viceversa, di un diritto penale in senso soggettivo si parla a proposito di un preteso diritto di punire da parte dello Stato, c.d. jus puniendi. In quest’ottica, il rapporto tra consociati ed organi dello Stato cui compete di prevenire e reprimere le condotte di reato, si caratterizza sotto una luce totalmente opposta a quella sopra detta. Come diritto pubblico, infatti, il diritto penale non regola relazioni tra individui bensì tra i soggetti dell’attività giuridica e lo Stato, e dunque detto rapporto non può non essere considerato sotto una luce che presenta gli organi statuali in posizione di netta preminenza rispetto ai destinatari dei comandi e dei divieti. A differenza, però, degli altri ambiti visuali del diritto pubblico, questa peculiare relazione tra consociati e Stato viene in essere nel momento in cui le norme del diritto penale sono violate. Ove maturi una tale evenienza, si legittima la potestà dello Stato di punire, applicando ai trasgressori, a seguito dei dovuti accertamenti, delle sanzioni previste per le dette violazioni. Ne deriva che di diritto penale in senso soggettivo si deve parlare solo con riguardo al potere punitivo riconosciuto agli organi statuali incaricati di attuare l’attività preventiva e repressiva delle condotte criminose.
Da quanto sostenuto sino a questo momento, appare chiaro che la funzione che può essere resa al diritto penale è quella di fornire un contributo essenziale nella più vasta attività del sistema del controllo sociale. Come qualsiasi altro sistema di norme giuridiche, infatti, il diritto penale può essere inquadrato solo in un dato sistema sociale che storicamente gli preesiste e, se da un lato, affonda le sue radici in un vasto complesso di regole sociali, morali, etiche e religiose, dall’altro, con i suoi precetti e con la minaccia dell’applicazione delle sanzioni, il diritto penale gioca un ruolo pregnante nel delicato meccanismo per mezzo del quale la pacifica convivenza viene garantita. E questo fine non può essere raggiunto senza l’utilizzazione di peculiari strumenti costituti dalla produzione di norme di condotta, per mezzo delle quali viene comandato di tenere o di non tenere determinati contegni socialmente riprovati e giuridicamente ritenuti contrastanti con il fine della salvaguardia dei valori fondamentali della comunità.
Nel dettare siffatte norme, tuttavia, l’ordinamento giuridico non può limitarsi a prendere cognizione della loro osservanza o inosservanza. Se così fosse e l’ordinamento rimanesse inerme a fronte delle violazioni consumate dei suoi precetti, esso perderebbe rapidamente ogni capacità di disciplinare e indirizzare la vita collettiva. A questo fine è previsto che l’ubbidienza dei precetti giuridici sia garantita anche contro la volontà dei destinatari e, pertanto, attraverso l’uso della forza, in forma coattiva. La coazione si rende necessaria ed opportuna, costituendo, secondo i principi riconosciuti dalla evoluzione del pensiero giuridico, una componente essenziale del diritto, senza del quale un diritto semplicemente cesserebbe di esistere.
La coazione, tuttavia, tende ad assumere nei vari comparti dell’ordinamento giuridico la forma più confacente agli scopi assegnati alle norme. Così, ad esempio, nel campo del diritto privato, a fronte di un’attività inadempiente di un contratto, si può reagire con la coazione consistente, in questo frangente, nel diritto, da parte del soggetto che da quella inadempienza ha ricevuto un pregiudizio della sua sfera giuridica, l’adempimento in forma specifica o, in sua sostituzione, il risarcimento del danno in forma pecuniaria. Lo stesso dicasi per l’ipotesi del mancato pagamento di un tributo, per la quale, abrogate forme più pervasive della sfera di operatività dei soggetti, è oggi possibile fare ricorso alla procedura della esecuzione forzata sul patrimonio del soggetto, che viene assoggetato ad un vincolo preordinato alla soddisfazione del credito tributario fino alla sua definitiva estinzione. Nel diritto amministrativo, alla violazione consistente nell’avere elevato una costruzione senza i necessari permessi previsti dalla legge può conseguire la coazione consistente nella emanazione di un’ordinananza di abbattimento. Nel sistema delle autorizzazioni alla conduzione di esercizi commerciali, alla violazione delle norme che ne disciplinano l’attività, può conseguire la coazione consistente nella chiusura dell’esercizio stesso.
Questo tipo di coazione può risultare non sempre idonea allo scopo se rapportata ai fini di tutela che il diritto penale assume come suoi obiettivi di salvaguardia dei beni giuridici alla cui protezione esso viene congegnato. Ciò perché, in taluni casi non è possibile ripristinare la situazione giuridica violata – si pensi alla morte di un uomo – ovvero perché la semplice prospettiva del suo ripristino coattivo non distoglierebbe i trasgressori dai loro deleteri intenti finalizzati alla commissione di reati – si pensi al ladro che non corra altro rischio, ove individuato, che quello di dover restituire il sottratto. In questi casi, come autorevolmente osservato, l’unico modo per ottenere l’effetto di scoraggiare i consociati dal violare i precetti del diritto penale è la minaccia della irrogazione di sanzioni criminali ove l’intento delinquenziale fosse portato a compimento. E si è specificato come il contenuto di siffatte sanzioni sia abbastanza variegato e corrispondente ad un intervento assai penetrante e pertanto particolarmente temibile nella sfera personale ed economica del soggetto che ha trasgredito la norma penale.
Nel concreto, le sanzioni possono comportare, sul piano concreto, una privazione più o meno durevole della libertà personale (come nel caso dell’arresto o della reclusione) o addirittura permanente (come nel caso dell’ergastolo). La pena di morte, sebbene praticata ancor oggi da talune esperienze giuridiche straniere, nel nostro ordinamento è stata abolita con il decreto legislativo luogotenenziale 10 agosto 1944, n. 224 – ripudio poi costituzionalizzato con l’art. 27, ultimo comma, Cost. La privazione della libertà, tuttavia, può anche essere appena sensibile e consistere nella irrogazioni di talune limitazioni (si pensi, ad esempio, alla libertà controllata, al divieto di soggiorno in un determinato luogo, ecc.).
In altri casi, è possibile la inflizione di sanzioni che investono il profilo patrimoniale dei soggetti e consistenti nella condanna al pagamento di somme di danaro (pene pecuniarie, confisca, ecc.). Infine, è prevista anche l’applicazione di forme definite di incapacitazione giuridica (ad esempio, sanzioni interdittive: interdizione dai pubblici uffici, sospensione da una certa professione, ecc.). Inoltre, sul piano sociale, l’applicazione di misure sanzionatorie sempre comporta una squlificazione del soggetto nelle sue relazioni con altri soggetti non interessati dalle vicende che hanno determinato, nei loro confronti, l’applicazione delle stesse.
In definitiva, quindi, la nozione di diritto penale, di cui in questa sede si è cercato di ripercorrere il cammino lungo la sua evoluzione dagli albori ai nostri giorni, ha risentito dei cambiamenti avvenuti sul piano sociale, di cui il ceto degli intellettuali, ai suoi primordi, ha diffuso attivamente i connotati influenzando lentamente le legislazioni a partire dai monarchi assoluti agli attuali centri di potere. Ciò che preme sottolineare, comunque, è il crescente significato attribuito al senso di umanità che ha caratterizzato gran parte delle esperienze giuridiche dell’età moderna, a partire dalla principale opera di Cesare Beccaria, che per la prima volta dischiuse le porte su un sistema ispirato, nei suoi principi, alla più feroce intimidazione (di qui, il costante uso della tortura per estorcere confessioni) e tendente alla conservazione del potere dei monarchi assoluti. Oggi, invece, al diritto penale si riconosce un significato totalmente diverse. Nell’ottica dei moderni regimi democratici al sistema delle norme penali si riconosce la precipua funzione di salvaguardare taluni beni per i quali i mezzi di coazione messi a disposizione dagli altri settori del diritto non sono ritenuti idoneia allo scopo di tutela. Non più, dunque, uno strumento per mezzo del quale, in passato, veniva assicurata la tutela del potere assoluto e degli interessi delle corone, bensì un mezzo di coazione cui fare ricorso come misura di estrema ratio nei casi in cui i valori fondamentali della società vengono fatti oggetto di condotte lesive o pregiudizievoli.
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