La rinuncia alla pausa pranzo, nel caso di orario giornaliero di sette ore e dodici minuti, è in espressa violazione dell’articolo 8 del decreto legislativo 66 del 200, che prevede che qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto, anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo. Nelle ipotesi di cui al comma 1, in difetto di disciplina collettiva, che preveda un intervallo a qualsivoglia titolo attribuito, al lavoratore deve essere concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo.
Oltre ad un contrasto con la normativa legislativa, la sopraccitata condotta, ha rappresentato altresì una violazione di diverse disposizioni contrattuali in materia.
L’art. 19, c. 4 del CCNL prescrive che “dopo massimo sei ore continuative di lavoro deve essere prevista una pausa che comunque non può essere inferiore a 30 minuti”.
L’art. 7 del CCNL riguardante le tipologie di orario di lavoro dispone che “Qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore continuative, il personale ha diritto a beneficiare di un intervallo di almeno 30 minuti per la pausa al fine del recupero delle energie psicofisiche e dell’ eventuale consumazione del pasto”.
La preventiva richiesta alla rinuncia pausa e al buono pasto, è stata dunque una condizione illegittimamente imposta per la concessione della suddetta tipologia di orario di lavoro, seppur contrattualmente prevista. L’esigenza di rispettare il recupero psicofisico del lavoratore è un dovere del datore di lavoro, necessaria al fine di tutelare l’igiene e la sicurezza del luogo di lavoro e del personale.
Le esigenze di recupero sono prioritarie rispetto anche “all’eventuale fruizione del pasto”, come indicato nello stesso testo della fonte contrattuale in materia di tipologie di orario di lavoro 1996.
L’accettazione della rinuncia alla pausa pranzo deve avvenire solo in casi eccezionali e per esigenze di servizi da erogare con carattere di continuità e non doveva essere accettata, soprattutto con suddetta continuità per un periodo così lungo (nel caso in esame, per anni i lavoratori avevano rinunciato alla pausa pur di fruire di suddetta tipologia di orario).
Dal dato letterale dei contratti emerge infatti che il lavoratore è titolare di un dovere di pausa (art. 19, c. 4 del CCNL 1995), ma anche di un diritto (art. 7 del CCNL riguardante le tipologie di orario di lavoro, secondo cui “Qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore continuative, il personale, purché non turnista, imbarcato o discontinuo, ha diritto a beneficiare di un intervallo di almeno 30 minuti per la pausa al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto”).
Secondo autorevole dottrina civilistica la rinuncia è un negozio abdicativo, consistente nella dichiarazione unilaterale del titolare di un diritto soggettivo, diretta a dimettere il diritto stesso.([2]) Il titolare di un diritto può rinunciare a un proprio diritto soggettivo nei soli casi in cui i diritti siano disponibili. Ciò non può verificarsi nel caso di diritti indisponibili, che sono quelli che attengono alla persona e non sono suscettibili di trasferimento a terzi, né di rinunzia o transazione e ciò per motivi di superiore interesse. Il potere non è attribuito al singolo nell’interesse esclusivamente proprio, ma per realizzare anche un interesse altrui (es. sicurezza sul luogo di lavoro).(3)
Il lavoratore è dunque titolare non di un diritto soggettivo esclusivo e totalmente disponibile, bensì di una potestà (potere-dovere). Del diritto alla pausa il lavoratore non può liberamente disporre poiché la pausa è dettata per soddisfare esigenze non riconducibili al solo prestatore di lavoro (inerenti al suo recupero psico-fisico), bensì per assolvere a più ampie necessità di sicurezza e igiene riguardanti l’intera collettività.
Ad avviso della dottrina “all’indomani della conclusione della prima tornata contrattuale la lettera della circolare n. 7/2005 e i principi desumibili dalla fonte comunitaria (art. 4 Dir. n. 93/104) parevano comunque obbligare il dirigente, anche in assenza di esplicita previsione contrattuale, a prevedere un’ adeguata sospensione”. [3] [4]
L’Amministrazione giudiziaria, in una sua circolare precedente al recepimento della direttiva comunitaria ( la n. 1810/S/PP/547 del 10 febbraio 1998) ha affermato la possibilità di rinunciare al diritto alla pausa, mantenendo il diritto al buono pasto, proprio nel caso di articolazione dell’orario di lavoro con prestazione giornaliera di 7 ore e 12 minuti: “all’intervallo, peraltro, il dipendente può rinunciare, fermo restando il diritto al buono pasto con il consenso dell’Amministrazione, consenso che sarà dato nel solo caso in cui la prestazione continuativa risponda alle esigenze di organizzative del servizio” il consenso alla rinuncia alla pausa infatti impegna la personale responsabilità dei dirigenti”.
La durata della pausa è inoltre commisurata dalla contrattazione collettiva in almeno trenta minuti (art. 19 CCNL 1995).
In definitiva, nel caso in cui le parti abbiano contrattato tipologie di orario superiori alle sei ore giornaliere, senza pausa, sarà compito della successiva determinazione delle parti, in sede di contrattazione collettiva, definire quali tipologie di orario di lavoro siano ancora funzionali all’organizzazione del lavoro, anche e soprattutto alla luce delle esigenze di garanzia di suddetto diritto. Prima di un nuovo accordo valgono le regole dell’ art. 1419, secondo comma, con conseguente inserzione automatica della norma imperativa che prevede la fruizione della pausa e il conseguente diritto al buono pasto.
Il parere del Consiglio di Stato emesso in sede di Ricorso Straordinario al Capo dello Stato
Nel caso in esame la dipendente aveva fruito, previa autorizzazione dell’Ufficio, della suddetta tipologia di orario di lavoro, con rinuncia alla pausa pranzo e al buono pasto.
L’Amministrazione aveva autorizzato la fruizione di suddetta tipologia di orario, (non prevista contrattualmente, se non con il diritto alla pausa), di fatto, solo a condizione che vi fosse una previa ed espressa rinunzia sia al buono pasto sia alla pausa, accettando che per diversi anni la dipendente rinunciasse alla pausa pranzo nonostante non esistessero esigenze di servizio tali da richiedere prestazioni continuative.
Come indicato nel ricorso, la dipendente era stata “costretta di fatto a rinunciare alla pausa e al buono pasto nonostante suddette condizioni fossero contrarie a quanto disposto dall’art. 19 del CCNL del 1995, che prevede il diritto ad avere un orario di lavoro articolato su cinque giorni settimanali, con l’obbligo della pausa dopo massimo sei ore, e ciò al fine di garantire il recupero psico-fisico del lavoratore”.
Alla richiesta avanzata dalla lavoratrice, volta al riconoscimento almeno del diritto ai buoni pasto per l’arco temporale in cui aveva fruito della suddetta tipologia di orario di lavoro, l’amministrazione aveva rigettato l’istanza affermando che “prescindendo da aspetti formali “quali l’espressa rinunzia sia alla pausa che al buono pasto”, non esiste alcun diritto al buono pasto considerato che le autorizzazioni a fruire dell’orario di sette ore e dodici minuti si sono caratterizzate esclusivamente per la sola presenza di esigenze personali e familiari”.
Avverso suddetto provvedimento la dipendente aveva presentato ricorso gerarchico al Ministero della Giustizia. Perfezionatosi il silenzio rigetto, la lavoratrice aveva impugnato il provvedimento mediante ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
In sede consultiva la Sezione Terza del Consiglio di Stato, in data 8 luglio 2008, ha espresso parere favorevole all’accoglimento del ricorso, condividendo tutte le argomentazioni sostenute dalla dipendente. In base alle argomentazioni sostenute dal Consiglio di Stato “posto che l’articolazione dell’orario di lavoro deve essere organizzata dall’Amministrazione nel rispetto del diritto del lavoratore alla pausa di 30 minuti dopo una prestazione lavorativa superiore alle sei ore continuative”, il diritto alla pausa assolve esigenze di sicurezza, necessarie per permettere il recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore, e dunque non rinunciabile.
In base a questa ultima ricostruzione, la contrattazione collettiva non può in alcun modo incidere su tale diritto, e dopo sei ore di lavoro continuativo, deve essere prevista una pausa volta al recupero psicofisico del lavoratore.
Nel caso esaminato dal giudice fiorentino un dipendente dell’amministrazione giudiziaria aveva concordato con la pubblica amministrazione la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, predeterminando gli orari di lavoro, prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 66 del 2003.
Successivamente l’amministrazione, in virtù della natura vincolante della pausa pranzo, aveva unilateralmente modificato l’orario di lavoro imponendo la suddetta pausa, con conseguente riduzione della prestazione lavorativa.
Ad avviso del giudice l’art. 19 del Contratto collettivo nazionale del 1995 non contiene una formulazione chiara della natura del diritto alla pausa. Solo il successivo contratto del 22 ottobre 1997, “ha fornito utili dati interpretativi stabilendo che il diritto alla fruizione della pausa deve essere esercitato “in un quadro di programmazione generale di servizio e di lavoro, definito in sede di esame congiunto tra le parti a livello locale, come previsto dalle norme contrattuali”.
Secondo il giudice, ulteriore dato interpretativo della fattispecie, si rinviene nella circolare ministeriale del ministero della Giustizia del 10 febbraio 1998 secondo la quale “all’intervallo, peraltro, il dipendente può rinunciare… con il consenso dell’amministrazione, consenso che sarà dato nel solo caso in cui l’attività interrotta risponda alle esigenze organizzative del servizio”.
Tanto premesso, osserva il decidente, la suddetta normativa, applicabile ratione temporis alla fattispecie in relazione al momento in cui l’orario di lavoro part-time veniva concordato e successivamente modificato unilateralmente dall’amministrazione, non introduce alcuna ipotesi di diritto irrinunciabile alla pausa da parte del lavoratore, seppure condizionandone la rinuncia alla valutazione dell’interesse dell’amministrazione allo svolgimento ininterrotto della prestazione lavorativa.
Ad avviso del giudice il diritto alla pausa pranzo risultava peraltro già previsto contrattualmente al momento della trasformazione consensuale dell’orario di lavoro da tempo pieno a tempo parziale senza che le parti ne avessero tenuto conto ai fini della determinazione dell’orario di lavoro, “tanto comportando un assetto di orario caratterizzato da una implicita rinuncia al suddetto beneficio da parte delle lavoratrici in assenza di alcuna pretesa dell’amministrazione a far valere il proprio disinteresse allo svolgimento ininterrotto della prestazione lavorativa oltre il limite di sei ore previste contrattualmente.
“A fronte dell’acquisizione del diritto allo svolgimento dell’orario di lavoro part time concordato senza la previsione della pausa contrattualmente prevista, rileva il decidente che la relativa modifica introdotta unilateralmente dall’amministrazione in funzione dell’introduzione della pausa per il pranzo, integra una unilaterale modifica dell’orario di lavoro in violazione della normativa prevista dal decreto legislativo 61/2000”.
Il Tribunale di Firenze sostiene inoltre che la formulazione dell’articolo 8 del decreto legislativo 66/2003, successivamente intervenuto a regolare la materia, costruisce la fattispecie attraverso la previsione dell’obbligo dell’amministrazione di riconoscere il diritto alla pausa, senza alcuna qualificazione del diritto del lavoratore in termini di irrinunciabilità. Ad avviso del giudice la stessa norma, anche se collega la fruizione del diritto al fine di permettere il recupero delle energie psico-fisiche, e pertanto a interessi di natura primaria del lavoratore, ne rinvia comunque la determinazione di modalità e durata alla contrattazione collettiva per la sua specifica attuazione.
Il Tribunale di Firenze ha espresso dunque un orientamento meno rigido in merito alla possibilità di definire, in sede di contrattazione, la specifica attuazione della pausa, che è un obbligo per l’amministrazione ma un diritto rinunciabile per il lavoratore, nonostante gli interessi primari di recupero delle energie e le relative esigenze di sicurezza.
Secondo le argomentazioni giuridiche sostenute dal Tribunale di Firenze è lasciato ampio margine alla discrezionalità delle parti collettive circa la specifica attuazione del diritto alla pausa in sede di contrattazione collettiva.
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