La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la recentissima ordinanza n. 18547 del 8 luglio 2024, si è pronunciata in tema di licenziamento sorretto da fittizie e inesistenti ragioni economiche, al fine di nascondere un intento ritorsivo nei confronti del dipendente.
In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto nullo, in quanto ritorsivo, un licenziamento che l’azienda aveva falsamente dichiarato effettuato per ragioni economiche, a seguito del rifiuto del lavoratore a modificare il proprio contratto di lavoro da full time a part time.
In questa interessante pronuncia, i giudici di legittimità riflettono su natura e conseguenze del licenziamento per motivo ritorsivo, anche alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale n. 22/2024 che si è nuovamente pronunciata sul testo del c.d. Jobs Act.
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Indice
1. I fatti di causa
La vicenda in oggetto trae origine dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad un dipendente di una catena di supermercati. In particolare, il datore di lavoro decideva di procedere al recesso dal rapporto di lavoro a seguito di una crisi aziendale, sostenendo che il reparto macelleria, dove era impiegato il dipendente, avesse un costante andamento negativo.
Poco prima di procedere con il licenziamento, la società aveva proposto al lavoratore di trasformare il proprio contratto di lavoro a tempo pieno in contratto di lavoro part time, al fine di ridurre i costi aziendali visto l’andamento negativo del reparto. Tale proposta veniva rifiutata dal dipendente, che riteneva che la trasformazione avrebbe inciso troppo negativamente sul suo salario.
A seguito del rifiuto di trasformazione del rapporto di lavoro con passaggio da full time a part time, il datore di lavoro aveva avviato un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente, che tuttavia non aveva condotto all’applicazione di alcuna sanzione.
2. Licenziamento per inesistenti ragioni di carattere economico: i giudizi di merito
Il licenziamento veniva impugnato dinanzi al Giudice del Lavoro che dichiarava lo stesso illegittimo per assenza di giustificato motivo oggettivo: in particolare, il Tribunale constatava che non vi fosse affatto un reale andamento negativo del supermercato e del reparto di macelleria, inoltre il datore di lavoro non era stato in grado di dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altre mansioni (c.d. onere di “repêchage”).
La decisione di primo grado veniva impugnata, sia dalla società che dal dipendente, presso la Corte d’Appello di Catanzaro, che non solo confermava che il licenziamento difettasse del giustificato motivo oggettivo addotto da parte datoriale, ma riteneva altresì che “la manifesta insussistenza del motivo oggettivo rivelasse l’esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento in oggetto” e ciò alla luce degli ulteriori elementi acquisiti in giudizio, a partire dalla vicinanza temporale tra rifiuto del dipendente alla trasformazione oraria del contratto e licenziamento, nonchè alla iniziativa disciplinare che ne era conseguita da parte del datore di lavoro.
La Corte d’Appello di Catanzaro, conseguentemente, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ordinava alla società di reintegrare il dipendente sul posto di lavoro, oltre a dover corrispondere allo stesso un risarcimento del danno pari ad una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino al giorno dell’effettiva reintegrazione
La società datrice di lavoro proponeva, quindi, ricorso dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione per la riforma della sentenza della Corte d’Appello, ritenendola viziata per tre distinti motivi.
3. La decisione della Corte di Cassazione
In primo luogo, il datore di lavoro lamentava nel ricorso un vizio di motivazione e di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in quanto riteneva che la Corte d’Appello di Catanzaro avesse errato nell’esame dei fatti e nell’interpretazione del concetto di giustificato motivo oggettivo, entrando nel merito delle scelte datoriali in violazione dell’art. 41 Cost, oltre a non aver esaminato correttamente i dati e le prove offerte dalle parti.
In particolare, parte ricorrente riteneva che i giudici di merito avessero del tutto omesso di esaminare i documenti allegati e le buste paga, nonchè non avessero correttamente valutato che dall’analisi dei dati di tutti i reparti del supermercato, emergessero le oggettive difficoltà del reparto macelleria, tali da non permettere di sopportare i costi di due dipendenti a tempo pieno.
La Suprema Corte ha ritenuto il motivo di ricorso inamissibile, in quanto esclusivamente volto a un riesame nel merito dei fatti di causa, avendo il datore di lavoro tentato di fornire una diversa valutazione delle prove e una rivalutazione degli accadimenti storici, inammissibile in sede di legittimità. Sul punto, gli ermellini hanno osservato che, correttamente, i giudici d’appello hanno analizzato i dati di bilancio della società (gli importi, l’incidenza, il numero di clienti) deducendo la mancanza della crisi addotta dal datore di lavoro e persino una crescita costante del fatturato, culminata con l’acquisto di un nuovo supermercato; inoltre, la documentazione prodotta non offriva dimostrazione del trend negativo del reparto di macelleria, ma al contrario lo confutava.
Con il secondo motivo di ricorso, parte datoriale lamentava la violazione e/o la falsa applicazione del D. Lgs. n. 23/2015 e del D. Lgs. n. 81/2015, in quanto la Corte d’Appello aveva erroneamente ritenuto provata l’esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento a seguito del rifiuto di trasformazione del rapporto di lavoro da full time a part time, riconoscendo così al lavoratore la tutela reintegratoria.
In particolare, il ricorrente sosteneva che nel sistema normativo delineato a seguito della riforma del c.d. Jobs Act del 2015 con il D.Lgs. 81/2015 (in particolare, art. 2, comma 1), la tutela reintegratoria è considerata applicabile al solo caso di licenziamento discriminatorio o negli altri casi di nullità “espressamente previsti dalla legge“, tra i quali, a detta del ricorrente, non sarebbe dovuto rientrare il caso di licenziamento intimato a seguito di rifiuto del part time in quanto disciplinato dall’art. 8, comma 1, D.lgs. 81/2015 il quale prevede che ” “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale o viceversa non costituisce giustificato motivo di licenziamento”. Secondo la tesi sostenuta dal ricorrente, la norma non commina alcuna sanzione di nullità del licenziamento e quindi non rientrebbe negli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge“, con conseguente impossibilità di applicare la tutela reintegratoria.
Anche il secondo motivo di ricorso veniva rigettato dalla Corte, in quanto infondato.
In particolare, la Corte ha sottolineato come il lavoratore sia stato licenziato per giustificato motivo oggettivo dovuto a una asserita crisi aziendale, e non certamente per l’esigenza di dover trasformare il contratto da full time a part time e, allo stesso modo, la Corte d’Appello non ha ritenuto il licenziamento nullo in quanto intimato in ragione dell’esigenza di trasformare l’orario lavorativo del rapporto di lavoro.
Diversamente, i giudici di merito hanno rilevato che il licenziamento non solo fosse ingiustificato, ma fosse anche ritorsivo perchè in realtà “traeva la propria esclusiva e determinante ragione nel rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto“, considerato che c’era una stretta vicinanza temporale tra il rifiuto di trasformazione del contratto e il licenziamento, oltre alla iniziativa disciplinare intrapresa dal datore di lavoro quale rappresaglia al rifiuto.
La Corte di Cassazione ha proceduto quindi a differenziare nettamente le due tipologie di recesso:
il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time (o viceversa) va ritenuto ingiustificato perché adottato in violazione dell’art. 8,1 comma D.Lgs. 81/2015;
diversamente, “il licenziamento intimato a seguito di rifiuto del part time, ancorché ammantato da altre ragioni come il g.m.o. (per asserita crisi aziendale insussistente), va invece ritenuto ritorsivo in quanto mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere proprio il divieto di cui all’art. 8 D.Lgs. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta”.
Pertanto, per i giudici di legittimità non sussiste alcuna violazione del D.Lgs. n.23/2015, in quanto i giudici d’appello avevano ritenuto correttamente nullo un licenziamento per giustificato motivo oggettivo motivato da inesistenti e strumentali ragioni riferite a una crisi aziendale, irrogato al solo fine di nascondere il reale intento di reagire al rifiuto – legittimo – di lavorare part time.
Inoltre, la Corte di Cassazione ribadisce che il licenziamento ritorsivo è da qualificarsi nullo in quanto illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c., e da ultimo, sottolinea come ogni eventuale dubbio sulla nullità del licenziamento e sulla applicazione della tutela reintegratoria è comunque oggi destinato ad essere fugato definitivamente, posto che la norma del c.d. Jobs Act è stata di recente dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 22/2024) per violazione della legge delega proprio limitatamente alla parola “espressamente”, con la conseguenza che il licenziamento per motivo ritorsivo certamente rientra oggi tra i casi di nullità del licenziamento che conducono alla tutela reintegratoria piena.
Infine, con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamentava che la Corte d’Appello fosse giunta a ritenere il licenziamento ritorsivo avvalendosi di alcuni elementi presuntivi non veritieri.
Anche il terzo e ultimo motivo di ricorso è stato rigettato in quanto inamissibile, avendo i giudicidi di legittimità ritenuto che il ricorso non dimostrasse una falsa applicazione delle norme sulle presunzioni, ma cercasse piuttosto di proporre una diversa interpretazione delle prove e dei fatti, inamissibile in sede di legittimità.
Alla luce delle sopra indicate argomentazioni, la Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso promosso dalla società datrice di lavoro, enunciando il seguente principio di diritto:
” Il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato alla luce dell’art. 8,1 comma D.Lgs. 81/2015; mentre il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time deve essere considerato ritorsivo in quanto mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere il divieto di cui all’art. 8 D.Lgs. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta. Al licenziamento ritorsivo, in quanto riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dall’art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria stabilita dall’art. 2 del D.Lgs. n. 23 del 2015 dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 22/2024 della Corte Costituzionale“
In sintesi, la Suprema Corte di Cassazione conferma, in piena coerenza con quanto indicato dal legislatore, il proprio indirizzo giurisprudenziale molto rigido in tema di licenziamento ritorsivo, qualificando la condotta del datore di lavoro che tenta di occultare la reale ragione ritorsiva del recesso attraverso false ragioni economiche, talmente grave da sanzionare il licenziamento con la nullità, ritendendo lo stesso totalmente improduttivo di effetti (“tamquam non esset“) e non prevedendo altresì alcun limite massimo nella determinazione delle mensilità da riconoscere al lavoratore a titolo di risarcimento del danno per il periodo non lavorato.
Francesco Martinelli, avvocato DLA Piper
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