È ormai a molti noto che sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 14 aprile (S.O. n. 96/L al n. 88) è stato pubblicato il d. Lgs. 3 aprile 2006, che reca “Norme in materia ambientale” e che dai più è conosciuto come il “Codice dell’Ambiente” o, per dirla come la dico io, il codice sull’ambiente.
I giochi di parole, infatti, talvolta sottendono un messaggio nascosto od un sentimento − anche inespresso − che si svela nel momento in cui la riflessione condivisa ci porta a riflettere sul significato delle parole medesime: insomma, a dirla con il Vecchioni, “le parole non le portano le cicogne”.
Insigni giuristi e magistrati quali l’Amendola, il Santoloci, il Ramacci, la Pallotta ed altri [1], non hanno infatti tardato a segnalare le numerose e talvolta gravi criticità di questo testo unico, già “sofferente” prima ancora di essere pubblicato ed oggetto di attenzione formale del nostro bene amato Presidente della Repubblica , che in questa occasione ci spiace davvero di dover salutare, augurandogli, per il futuro di “semplice” cittadino, le migliori cose.
Altri, quali la turbinea ed instancabile Rosa Bertuzzi [2], hanno scolpito, dal grezzo, una statua da resede condominiale e di scarso valore: non già e non tanto per causa dello scultore, quanto, piuttosto, per lo scarso pregio della pietra che questi ha dovuto − suo malgrado − utilizzare.
Con assai ridotta capacità e cultura di fondo, da umile operatore del diritto, vorrei tentare adesso di proporre una sintesi di questo variegato pensiero giuridico; per fornire a quanti operano con i piedi per terra e con il verbale alla mano, degli spunti e delle occasioni di riflessioni su ciò che è possibile fare a tutela dell’ambiente.
Non si dimentichi mai che in uno Stato c’è chi fa le leggi, ma anche chi le deve fare rispettare.
Se il legislatore ha fatto degli errori − e ne sono stati fatti (speriamo almeno in buona fede) − nel coniare una legge, chi poi la deve applicare ha comunque uno strumento giuridico mediante il quale può porre in essere azioni di tutela di quel bene giuridico tutelato dalla legge. Gli errori di chi ha scritto la legge, insomma, non debbono diventare anche il capro espiatorio di chi − questa volta in malafede − non intenda applicarla.
Beh, se siamo stati abituati a ragionare in termini di “fatta la legge trovato l’inganno”, sarebbe bello avere il coraggio e la capacità deontologica e professionale di ragionare in termini di “fatta la legge, trovato il modo di applicarla”.
L’ambiente, secondo una definizione affatto illuminata ma, piuttosto, condivisa [3], in ecologia, indica tutto ciò che può influire direttamente sul metabolismo o il comportamento di un organismo o specie vivente, compresi luce, aria, acqua, terreno, e altri esseri viventi. In politica, si riferisce spesso all’ambiente naturale, la parte del mondo naturale che viene considerata importante o di valore dagli esseri umani, per qualsivoglia ragione.
Per la gente comune, insomma, è la vita!
Non solo quella che qualcuno ha contribuito a donare a questa generazione, ma quella che noi, come generazione, abbiamo il diritto-dovere di offrire nuovamente alle generazioni che verranno: sia in termini quantitativi ma, non da meno, in termini qualitativi.
Credo, per concludere questa premessa, che non ci siano grandi o piccole azioni a tutela dell’ambiente: ci sono solo delle azioni.
Che siano di tutti e di ciascuno in particolare.
Struttura del decreto
Il decreto in commento, nasce dalla delega legislativa contenuta nella legge 15 dicembre 2004, n. 308, inerente il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e sue misure di diretta applicazione.
I suoi trecentodiciotto articoli compongono un “mostro giuridico” ripartito in sei parti principali:
– parte I, le disposizioni comuni;
– parte II, le procedure per la VAS (valutazione ambientale e strategica), il VIA (valutazione di impatto ambientale )e l’IPPC (autorizzazione ambientale integrata);
– parte III, le norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle acque dall’inquinamento e di gestione delle risorse idriche;
– parte IV, le norme in materia di gestione dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati;
– parte V, le norme in materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera;
– parte VI, le norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente.
Non si vuole qui proporre una disamina globale del testo di legge, ma, piuttosto, focalizzare la nostra attenzione su quelli che sono gli strumenti di immediata applicazione dei principi in essa contenuti, con particolare riferimento ai servizi di vigilanza ambientale.
In tal senso, trovano concreto riferimento:
– per la Parte III, le definizioni attinenti la difesa del suolo e la lotta alla desertificazione, di cui all’art. 54; con riferimento alle competenze delle regioni, degli ee.ll. e degli altri soggetti, ivi comprese le autorità di bacino distrettuale, gli artt. 62, 63 e 64; le ulteriori definizioni riportate all’art. 74, a tutela delle acque dall’inquinamento, nonché le competenze di cui all’art. 75; gli artt. 128 ss. attinenti i controlli degli scarichi; gli artt. 133 ss. che individuano le singole ipotesi di violazione o criminose;
– per la parte IV, gli artt. 177 ss. attinenti la gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti inquinati; gli artt. 217 ss. inerenti la gestione degli imballaggi e particolari categorie di rifiuti; le misure punitive previste agli artt. 254 ss;
– per la parte V, gli artt. 267 s., con riferimento al campo di applicazione della legge delegata in prevenzione e limitazione delle emissioni in atmosfera;
– per la parte VI, infine, il nuovo concetto di “danno ambientale” introdotto dall’art. 300; le relative definizioni di cui all’art. 303; l’art. 304 che prevede la c.d. “azione di prevenzione.
Sarebbe ovviamente riduttivo pensare o far pensare che nel novero dei più di trecento articoli che compongono il testo adesso in commento, solo quelli citati fungono da vero e proprio riferimento per l’organo di vigilanza. È chiaro, che come per ogni legge, anche per questa legge, il dato normativo deriva non solo dalla lettura di tutto il testo della legge, ma finanche dai rapporti che questo continua a mantenere con la legge abrogata e con quella vigente collegata, nonché con i principi dell’ordinamento interno e comunitario.
Non a caso, questa legge è legge di attuazione di un superiore disegno dell’Unione Europea, esplicitato in note direttive e regolamenti comunitari, peraltro disattesi, se non offesi.
Dunque, l’aver citato alcuni dei principali (si fa per dire) articoli, piuttosto che altri, sottolinea esclusivamente il taglio operativo che si spera di dare a questo articolo, lasciando al singolo lettore il compito, non rimandabile, di leggere tutto il testo di legge, ivi compresi i numerosi e complessivi quarantacinque allegati, il tutto, ovviamente, in ragione del ruolo professionale o del ruolo socio-economico nel cui contesto si trova ad essere, se non ad operare.
Il danno ambientale
Muovendo proprio dal concetto di “operatività di ruolo” ovvero di funzione esecutiva assegnata ad un determinato soggetto, viene subito da riflettere sul nuovo concetto di “danno ambientale” che, come già detto, è stato introdotto dall’art. 300 del codice sull’ambiente.
Va quindi detto che per “danno ambientale” si deve intendere qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima (inteso come danno a specie ed habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla L. 157/92 ed al d.P.R. 357/97; alle acque interne; alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale; al terreno, con conseguente rischio significativo per la salute umana).
Sarebbe sufficiente leggere e riflettere su questo breve inciso per avere un gran da fare a dover interpretare la norma che ne deriva o, piuttosto, l’azione di prevenzione che deve essere attivata ogni qualvolta ci si trova dinanzi a quelle circostanze particolari che la norma stessa contempla.
Se non altro, perché allorquando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma esiste in concreto una minaccia che esso si verifichi, l’operatore interessato − previa comunicazione al comune, alla provincia, alla regione o alla provincia autonoma nel cui territorio si prospetta l’evento lesivo, nonché al Prefetto della provincia che nelle ventiquattro ore successive informa il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio − adotta, entro ventiquattro ore e a proprie spese, le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza (art. 304, commi 1 e 2 cod.).
L’operatore, non necessariamente è da considerare una persona giuridica o comunque privata, giacché nel termine anzidetto, l’art. 302, comma 4 del decreto, vi ricomprende persone fisiche, come giuridiche, pubbliche, come private: purché esercitino o controllino in concreto un’attività professionale avente rilevanza ambientale oppure chi comunque eserciti potere decisionale sugli aspetti tecnici e finanziari di tale attività, compresi il titolare del permesso o dell’autorizzazione a svolgere detta attività.
Seguendo il consiglio dell’Amendola sul non agir di fretta nell’interpretar una norma, mi viene comunque da pensare che un mero agente di polizia locale, magari inserito in uno specifico servizio di vigilanza ambientale e quindi da ritenere soggetto pubblico destinato al controllo di talune attività che possono dar luogo a fenomeni di inquinamento rilevante e concreto, tale da determinare il c.d. “danno ambientale”, è pur definibile – seppur astrattamente − un operatore, nei termini anzidetti.
Non ci parrebbe quindi strano che un eventuale “danno ambientale” riconducibile ad un comportamento omissivo (se così si può dire) di un pubblico controllore (=operatore, per il decreto), potrebbe accompagnar per mano questo nostro malcapitato funzionario pubblico per quel viottolo giuridico che dà o dovrebbe dar luogo all’azione risarcitoria di cui all’art. 311 del decreto.
Ciò per riflettere − con i piedi per terra − sulla necessità di vedere, magari in sede decentrata ed in ragione delle diverse responsabilità assegnate ai singoli funzionari, la necessità di assicurare il malcapitato operatore (pubblico) sui rischi patrimoniali derivanti dall’esercizio di questa particolare e delicata azione di controllo.
Norme in materia di gestione dei rifiuti
L’art. 264 (che, come tutto il resto del codice, è entrato in vigore il 29 aprile u.s.) ha abrogato esplicitamente diverse disposizioni di legge, ivi compreso il c.d. decreto Ronchi, già approvato con d. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22
[4]. Peraltro, così come per quanto attiene alla abrogazione di alcuni degli articoli del d. Lgs. 27 gennaio 1992, n. 95, al fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla precedente all’attuale normativa, i provvedimenti attuativi del decreto Ronchi continuano ad essere applicati sino alla emanazione dei nuovi provvedimenti.
Le disposizioni già presenti nel previgente decreto Ronchi, sono state sostanzialmente reiterate nel nuovo codice sull’ambiente e quindi, troviamo anche oggi analoghe situazioni già discusse nella vigenza di quel codice.
Tra le più evidenti, l’abbandono dei rifiuti al suolo e nelle acque, oggi vietato dall’art. 192, commi 1 e 2 del codice e sanzionato dall’art. 255, comma 1 del medesimo decreto, nella forma dell’abbandono di rifiuto ingombrante e pericoloso, con applicazione, in misura ridotta, della sanzione amministrativa pecuniaria pari ad euro 206,67 ovvero, negli altri casi, con applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria inferiore, pari ad euro 50,00.
In tal caso è altresì previsto l’obbligo di rimuovere e avviare al recupero o allo smaltimento i rifiuti abbandonati.
Come nel testo dell’art. 52 del decreto Ronchi, l’eventuale abbandono di rifiuti riconducibili ad attività d’impresa, integra la contravvenzione punita e prevista dall’art. 256, comma 2, del decreto: resta evidente che dal combinato disposto di cui al comma 3 dell’art. 192 dianzi citato e da quanto previsto dal d. Lgs. 231/01, la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, sono tenuti in solido con i rispettivi amministratori o rappresentanti.
Val la pena di far rilevare che il generico abbandono di rifiuti non integra sempre e necessariamente la violazione alle norme anzidette, quanto meno con specifico riferimento alle eventuali responsabilità dirette dell’autore del fatto. Di significativo interesse, ai fini dell’applicazione in concreto della sanzione − tanto più, della applicazione della pena − è il risultato della indagine: dal momento del sopralluogo e della descrizione dello stato dei luoghi e delle cose, al momento della compiuta identificazione dell’autore del fatto. È chiaro, infatti, che per l’applicazione della violazione di cui si discute, è necessario stabilire e dimostrare quel minimo di consapevolezza dell’autore dell’illecito, indice necessario di responsabilità soggettiva e di consapevolezza nell’agire.
L’eventuale responsabilità oggettiva (quale, ad esempio, quella può derivare dal possesso di un fondo incolto ove non il proprietario, ma altri, abbandonano rifiuti, senza consapevolezza del fatto da parte del primo) potrebbe semmai determinare la violazione di norme altre, rispetto a quella dappoco citata; queste, generalmente, sono regole locali, tendenti a tutelare il decoro e l’igiene dell’abitato o l’attività della P.A., nell’esercizio di una delle sue tipiche attività, quale la raccolta dei rifiuti solidi urbani: violazioni, queste, sanzionate in generale dall’art. 7 del T.U.E.L.
Con specifico riferimento all’abbandono di quei rifiuti particolari che costituiscono i c.d. “imballaggi”, continuiamo a ritenere che l’eventuale abbandono degli stessi resta comunque sanzionato, in via amministrativa − indipendentemente dall’autore materiale del fatto − sempre dall’art. 255, comma 1 del decreto (€ 206,67), ma con riferimento al divieto stabilito dall’art. 226, comma 2 del decreto medesimo.
Tra le disposizioni del decreto Ronchi che continuano ad essere applicate, in quanto in attesa delle nuove disposizioni attuative del codice sull’ambiente, possiamo citare quelle attinenti la mancata consegna di beni durevoli per uso domestico dimessi, ai soggetti indicati all’art. 44 del decreto da ultimo citato: in tal caso, continua ad applicarsi la sanzione pecuniaria già prevista dall’art. 50, comma 1, del decreto citato, nella misura pari ad euro 206,00.
Anche per i c.d. “veicoli fuori uso” − salvo quelli indicati nel d. Lgs. 209/03, recentemente corretto ed integrato dal d. Lgs. 149/2006, che continuano ad essere disciplinati dalla richiamata legge delegata, attuativa della direttiva 2000/53/CE − gli obblighi di cui all’art. 231 del codice si applicano in luogo di quelli già previsti dall’art. 46 del decreto Ronchi: la violazione a tali obblighi comporta, oggi, l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria pari ad euro 206,67.
Tralasciamo altre violazioni già presenti nel decreto Ronchi, per soffermarci su altre ancora, che riguardano il trasporto dinamico dei rifiuti. Ci riferiamo cioè agli obblighi che già derivavano dall’art. 15 del decreto n. 22/97, oggi previsti dall’art. 193 del vigente decreto ambientale.
In questo caso, la nuova (si fa per dire) sanzione amministrativa pecuniaria, supera di “ben” sessantasette centesimi quella previgente, in ragione dell’applicazione della regola del terzo del massimo edittale più favorevole al trasgressore: in buona sostanza, le violazioni attinenti la corretta tenuta dei formulari − fatta eccezione quella inerente vizi sostanziali o assenza di formulario, sanzionata con una somma di denaro pari a 3.100,00 euro − sono sanzionate con la sanzione amministrativa pecuniaria pari ad euro 516,67, così come prevista dall’art. 258 del codice.
I proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie sono devoluti alla provincia, ivi compresi quelli derivanti dall’accertamento della violazione di abbandono di rifiuti ad eccezione di quelle previste per la violazione dall’art. 226, comma 1, in materia di imballaggi.
In questo paragrafo, di proposito non abbiamo voluto citare altre violazioni più gravi che comportano l’applicazione anche di pene, quali l’arresto e/o l’ammenda.
L’abbiamo fatto in ragione della esigenza di “sfrondare” (se mi si passa il termine) questo testo da quelle ipotesi di più semplice e di consueta applicazione e magari, per lasciare ad altri l’occasione di farlo, con maggiore capacità e competenza che non quella dello scrivente.
Norme in materia di tutela delle risorse idriche
Con medesimo spirito, passo adesso una disamina di quelle disposizioni di immediata (si fa per dire) applicazione, a tutela del patrimonio idrico nazionale, quale risorsa dello Stato e bene di tutti, tanto prezioso, quanto così (eccessivamente) gratuito ne sembra l’utilizzo.
Mi viene da riflettere, quindi, sul valore incommensurabile dell’acqua e su come l’uomo tenda a svalutare ciò che fruisce in modo così generoso dalla natura; valorizzando, magari, in modo assai eccessivo ed ingiustificato, beni di consumo e di mero valore edonistico, quali quei prodotti commerciali realizzati con pellami e con enorme spreco di risorse idriche, oltre che di animali.
Quasi che ci sarà un tempo in cui le nuove generazioni si abbevereranno di ciò che resta di un po’ di quell’acqua inquinata dal prodotto finale (e nascosto) delle nostre scellerate idee di progresso e di qualità di vita.
Ebbene, anche in questo caso l’abrogato testo unico sulle acque n. 152/1999 (che già sostituì la meglio conosciuta legge Merli), è sostituito dal decreto (che non solo per il numero, si confonde al primo) di cui si discute: in buona sostanza, ipotesi già previste in quello, confluiscono in questo, secondo una delle tante sintesi che qui di seguito vengo a riproporre.
In tal senso, citiamo alcune delle ipotesi più “consuete” nell’ambito di quella che è una normale attività di controllo e di vigilanza.
In questo caso i proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie (tra un minimo di euro 6.000,00 ed un massimo di euro 60.000.00, non essendo in questo caso previsto il pagamento in misura ridotta), sono devolute alla regione ed attengono alla apertura di nuovi scarichi di acque reflue domestiche o di reti fognarie, serviti o meno da impianti pubblici di depurazione in carenza di autorizzazione (art. 124 e 133 cod.) ovvero al mantenimento di quelli preesistenti, ancorché con relativa autorizzazione sospesa o revocata.
Se si tratta di edificio isolato, adibito ad uso abitativo, l’apertura abusiva dello scarico comporta invece l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di 600,00 euro ad un massimo di 3.000,00.
Diversamente, l’inosservanza di eventuali prescrizioni comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 1.500,00 ad euro 15.000,00.
La rilevanza penale del fatto è tuttora da ricondurre a scarichi effettuati nell’esercizio di attività industriale e le relative pene sono previste dall’art. 137 del codice.
Resta da dire e da concludere che l’esercizio del controllo degli scarichi è regolamentato dagli artt. 128 ss. del codice ed in buona sostanza sono riconosciuti e rinnovati i poteri ispettivi già stabiliti dal previgente ed omologo decreto del ’99. In tal senso, l’organo preposto al controllo degli scarichi deve ottenere la massima collaborazione da parte del soggetto controllato, potendo esercitare un ampio potere ispettivo, non soggetto ad alcuna restrizione o autorizzazione preventiva.
Conclusioni
Concordiamo con chi attende l’evoluzione (o l’involuzione) di questa legge che gli interpreti e coloro i quali l’andranno ad applicare, forniranno in concreto.
Certamente, il nostro legislatore materiale, ancora una volta, a fronte di una delega legislativa eccessivamente vaga, ha saputo legiferare ad ampio raggio, compilando più che un testo unico un vero e proprio codice “ricognitivo”.
Ciò ch’è più grave − almeno secondo una prima lettura personale del decreto − è che nel fare questo, non ha comunque tenuto conto di quanto la giustizia europea ha evidenziato come criticità della precedente normazione.
Insomma, per dirla in modo semplicistico e paesano è stato perso un “altro treno”.
A noi operatori pratici del diritto, il difficile compito di applicare queste norme; magari riproponendole ai nostri giudici come notizie di reato o alle nostre autorità amministrative come conferme di atti di accertamento.
Un modo come un altro perché, tutti assieme e ciascuno secondo le proprie competenze, si possa contribuire a fare delle nostre vite professionali un codice dell’ambiente.
[2] Del citato Ufficiale della Polizia Provinciale di Piacenza, si leggano, allo scopo, i numerosi, costanti ed interessanti suoi interventi sul periodico “Polnews”.
[4] Talune delle seppur brevi riflessioni che seguiranno sul citato decreto, sono anche il frutto di una rinnovata meditazione su taluni aspetti giuridici, come proposti alla mia attenzione dall’Avv. Antonella Manzione, che in tal senso sento di dover qui ringraziare.
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