Nuovi dubbi ed orientamenti sulla necessita’ di traduzione degli atti.

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PREMESSA
 
Non è certo destinata a passare inosservata l’ordinanza che si commenta (riportata in calce) e che – come certamente il lettore avrà compreso – affronta in maniera del tutto particolare il problema della traduzione degli atti processuali.
Nella fattispecie si tratta di giudizio di riesame di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per reato associativo e delitti fine.
Or bene, il principio che i giudici del Tribunale di Bologna affermano nella fattispecie, può essere sintetizzato nel senso di escludere l’obbligo di traduzione degli atti processuali, laddove si possa reputare che il cittadino straniero comprenda la lingua italiana, in quanto si ricorra all’apprezzamento ed alla valorizzazione di elementi che appaiano strettamente connessi e riferibili, sul piano soggettivo, con l’inquisito.
Viene, quindi, negata la circostanza che sussista, nel nostro ordinamento, una presunzione assoluta di non conoscenza della lingua italiana in favore del cittadino straniero, in quanto tale ed idonea a legittimare, necessariamente, in presenza di atti giurisdizionali destinati a persone extracomunitarie, il ricorso alla traduzione nella lingua di origine dell’inquisito.
Si tratta di una considerazione che, in linea di principio, (dovendo essa essere intesa quale premessa di natura logico-giuridica) si possa condividere.
Parimenti condivisibile è quell’effetto consequenziale per cui la prova della non comprensione del nostro idioma debba essere fornito dall’interessato che miri a dimostrare tale circostanza ed è attività processuale che, ovviamente ammette prova contraria da parte dell’accusa.
E fin qui chi scrive rdeve ribadire di non poter (pena il ridicolo) assolutamente dissentire dall’impostazione da cui muove il dictum del Collegio.
Da questo punto, in poi, però, il ragionamento sviluppato nell’ordinanza in epigrafe non può trovare consenso analogo a quello sin qui manifestato.
In concreto, sul presupposto dell’onus probandi posto a carico di colui che intenda fruire di una condizione personale (ergo l’indagato-imputato), a parere dei giudici felsinei, circostanze che possano sufficientemente indurre e favorire una prognosi di conoscenza della lingua da parte di un cittadino extracomunitario, pur in assenza di una effettiva verifica diretta sull’interessato, si rinvengono, esemplificativamente, nel caso concreto:
1.       nel rilascio in favore dello straniero di un permesso di soggiorno,
2.     nella permanenza dell’interessato nel nostro paese per un periodo di tempo prolungato,
3.     nell’assunzione da parte dell’indagato di una residenza anagrafica.
Da questo pluralità di elementi di carattere storico, effettivamente presi a parametro della valutazione afferente al caso concreto, il Tribunale ritiene di potere legittimamente trarre una valutazione (che si puo’, poi, definire vera e propria presunzione iuris tantum) per la quale “è assolutamente irragionevole ritenere che, in quasi cinque anni di permanenza nel nostro paese, l’indagato non abbia appreso la lingua italiana”.
A parere di chi scrive, si tratta, però, di una considerazione che, se valutata in sé e per sé, pecca certamente di apoditticità.
Essa introduce, infatti, a propria volta, in maniera assolutamente inammissibile una presunzione esattamente contraria a quella che sino ad ora si è fermamente negato potesse fungere da parametro probatorio.
Vale a dire che se non pare azionabile una presunzione pro reo, parebbe, per converso, utilizzabile una presunzione contra reo, con buona pace della parità di trattamento delle parti nell’ambito del processo penale!
Non appare, a propria volta convincente, sempre sul piano dell’esercizio del diritto delle parti processuali a provare la conoscenza della lingua, la circostanza, (che per il Collegio assume valore pressoché decisivo) consistente in una comunicazione di ingresso dalla libertà del direttore del carcere, secondo la quale il G. avrebbe dichiarato di ben comprendere la lingua italiana.
Va, infatti, sottolineato che si tratta di una dichiarazione generica, che non attesta in alcun modo quale procedura sia stata seguita per tale verifica, e tanto meno se sia stato rispettato il dettato dell’art. 94 co. 1 bis disp. att. c.p.p. .
Ad ogni buon conto pare di potere affermare che il punto di diritto che si valuta segni un chiaro passo indietro e dimostri l’adesione ad una soluzione palesemente restrittiva in materia.
 
 
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LE ARGOMENTAZIONI USATE DAL TRIBUNALE.
 
Nello specifico, ai fini della ratio di questo commento, ciò che, invece, maggiormente (ed unicamente) interessa, è una rapidia e sintetica comparazione fra il percorso ideativo che sottende all’ordinanza, inteso come scansione argomentativa composta di plurimi elementi che vengono valorizzati a sostegno della tesi propugnata dal Tribunale, ed il generale orientamento della giurisprudenza e dottrina sul punto specifico.
Preliminarmente si deve operare riferimento all’art. 143 comma 1 c.p.p., norma che garantisce all’imputato "che non conosce la lingua italiana" l’assistenza gratuita di un interprete, "al fine di comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti a cui partecipa".
Tale disposizione legislativa si raccorda e funge da evoluzione dell’art. 109 c.p.p., previsione di carattere generale, che sancisce, al comma 1, l’obbligo di utilizzare la lingua italiana negli atti del procedimento.
Il combinato disposto dai due articoli consegna all’interprete un principio assolutamente inequivoco e cioè che l’elemento che rileva in materia di comprensione degli atti (e di lingua da utilizzare in deroga a quella italiana) è quello della conoscenza dell’idioma e non già quello della cittadinanza straniera del soggetto.
Come anticipato in premessa, viene recisamente negata, pertanto, ogni minima possibilità di operare un’equazione del tipo: cittadino straniero = ignoranza della lingua italiana, nonché di trarre da essa una presunzione iuris tantum.
La ragione è intuitiva e riposa nella circostanza che è naturale e ragionevole ritenere che uno straniero possa conoscere la nostra lingua e, per tale motivo, non necessita del supporto di un interprete.
Come, però, precisato da una recentissima sentenza del Supremo Collegio [Sez. IV Sentenza 3 marzo 2006, n. 7664, (Presidente M. Battisti, Relatore R. Bricchetti)], si tratta di una puntualizzazione assai importante, giacchè attraverso di essa la norma definisce l’esatto oggetto dell’accertamento rimesso al giudice ai fini della valutazione in merito alla necessità di nominare o meno un interprete all’imputato: e tale oggetto è per l’appunto costituito non dalla cittadinanza straniera dell’imputato – che dunque non innesca necessariamente una presunzione di ignoranza della lingua italiana – bensì, per l’appunto, dalla effettiva incapacità dello stesso di comprendere ed esprimersi nella nostra lingua. (V. Cass. 6^, 18 settembre 1997, Minoun, RV 208850).
Un simile orientamento, sulla cui correttezza sostanziale e formale non può esservi discussione, appare, però, particolarmente significativo e meritevole di considerazione nel momento in cui recupera come pietra miliare la notissima decisione della Corte Costituzionale n. 143 del 1993.
Questa decisione, a tutt’oggi non è stata recepita appieno, all’interno del nostro sistema penalistico, in quanto ad alcune significative pronunziedi legittimità e merito, che hanno fissato punti di necessario intervento a tutela di diritti dei cittadini stranieri, parti del processo penale italiano, non ha fatto seguito una piena adesione nell’applicazione quotidiana di detti principi.
Troppe volte, infatti, ci si è trovati a dovere fare i conti con decisioni che, invece, hanno affrontato il tema con approssimazione, se non addirittura con fastidio, considerando la cultura delle garanzie quale un ozioso passatempo, finalizzato a porsi come defatigatorio ostacolo all’esercizio della giurisdizione, intesa solo come pura pretesa punitiva della Stato.
Ed allora ben venga il riconoscimento – da parte del Tribunale di Bologna – dell’indefettibile onere di verificare le effettive cognizioni linguistiche del cittadino straniero, per inferire da tale valutazione le realtive conseguenze in materia di traduzione degli atti procedimentali, ma è evidente che tale giudizio deve essere ancorato a criteri costanti, fermi e fondati.
Vale a dire che induce a forte perplessità la considerazione che la condizione di clandestinità od irregolarità nel nostro paese possa essere ritenuta foriera di una non conoscenza della nostra lingua, a differenza della presenza regolare.
E’, infatti, questo passaggio che determina la distonia fra la corretta premessa da cui il Collegio muove e le conseguenze, che, in prosieguo, vengono tratte.
La considerazione sopra esposta, infatti, parte da una premessa assolutamente apodittica e spesso smentita dall’esperienza forense e cioè che il clandestino sia privo di elementi di radicamento nel territorio italiano. E’, infatti, vero, spesso, il contrario di quanto sostenuto e cioè che il cittadino straniero irregolare, spesso, ha maturato una situazione di stanzialità in un luogo preciso, dove, nonostante la sua non conformità alle normative vigenti in tema di immigrazione vive e spesso lavora.
L’affermazione che si contesta, infatti, non tiene conto del fatto che la condizione di clandestinità può non essere di carattere genetico, cioè essa può essere consequenziale ad un breve periodo di presenza regolare (susseguente ad un ingresso lecito) nel nostro paese e non necessariamente deve derivare direttamente dall’entrata irregolare dello straniero, tramite l’illecito accesso alle nostre frontiere
Ed allora la presenza regolare o meno dell’interessato sul nostro territorio nulla può significare sul piano della dimostrazione della conoscenza della nostra lingua; tantomeno tale circostanza può assurgere a presunzione di conoscenza del nostro idioma da parte del cittadino straniero l’ottenimento del permesso di soggiorno.
Contemporaneamente non può essere utilizzato come parametro negativo, in ordine alla soluzione della vexata quaestio, lo status di irregolare, in quanto da esso non può ricavarsi alcun elemento atto a provare l’ignoranza linguistica.
Va, infatti, rilevato che non pare rientrare tra i requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno o, comunque, quale presupposto (neppure per implicito) la conoscenza della nostra lingua.
Ne sì può fare discendere dall’ottenimento del citato permesso di soggiorno, quale automatico antecedente di ordine meramente logico, cioè privo di riscontri indiziari o probatori di carattere storico, il propedeutico apprendimento dell’italiano.
Parimenti, non è sussumibile sotto alcuna norma codicistica (né sotto alcuna legge naturale), l’ipotesi che un soggetto, per il solo fatto di avere dimorato in un paese, maturi l’automatico effetto indotto di imparare necessariamente la lingua di quella nazione straniera.
L’assioma denunziato, su cui si fonda il provvedimento del Tribunale si risolve in una mera congettura inidonea ad assurgere a livello di massima di esperienza, in quanto queste ultime sono regole giuridiche preesistenti al giudizio poiché il dato in esse contenuto è già stato, o viene comunque, sottoposto, a verifica empirica sicché la regola viene formulata sulla scorta dell’id quod plerumque accidit, rivestendo i caratteri delle regola d’esperienza tratta dal contesto storico-geografico generalmente riconosciuta ed accettata. (Cfr. Cass. pen., Sez. II, 16/09/2003, n.39985, Caruso, Riv. Pen., 2004, 126, Arch. Nuova Proc. Pen., 2005, 116).
La decisione in epigrafe, quindi, riapre il dibattito giuridico e dottrinale, peraltro, mai pienamente sopito, in ordine alla necessità che si addivenga alla formulazione di norme precise e rigorose al fine di potere regolamentare senza arresti o tentennamenti giurisprudenziali il rapporto fra cittadini stranieri ed atti giurisdizionali.
Si tratta, a parere, di chi scrive di riprendere in esame i principi che, in maniera chiara ed univoca la Consulta oltre tredici anni or sono, ribadì.
Tali punti che avrebbero dovuto essere veri e propri capisaldi giuridici e di politica giudiziaira, anche sulla spinta della comoda foglia di fico data dal richiamo a situazioni contingenti, troppo spesso, invece, sono rimasti lettera morta.
Anzi, in moltissime ipotesi processuali, affrontate sia in sede di merito, che di legittimità, il tema della traduzione e comprensione degli atti è stato risolto con soluzioni, spesso estemporanee, che si sono proposte quali radicali manifestazioni di negazione di tali principi costituzionalmente sanciti.
E’ sperabile, quindi, che la decisione commentata, la quale muove da premesse giuridiche condivisibili, ma giunge a conclusioni, a parere di chi scrive dissonanti da esse, possa essere rivista nel suo sviluppo argomentativo, cioè in quella fase che si può definire degenerativa, posto che in essa si è appalesata la distorsione della conclusione adottata rispetto all’originario presupposto .
 
Rimini, lì 27 Ottobre 2006
 
Carlo Alberto Zaina
 
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Tribunale di Bologna, Sez. Riesame ord. 16 Maggio 206, ric. G.V. .
Avverso l’ordinanza del GIP di Rimini, proponeva richiesta di riesame il difensore di G.V., con riserva di motivi.
All’udienza domandava l’annullamento dell’ordinanza applicativa del GIP di Rimini per omessa traduzione in lingua albanese.
All’esito dell’udienza in camera di consiglio,l’eccezione di nullità deve essere respinta.
Il Tribunale, con provvedimento del 11.5.2006, accolto l’analoga eccezione avanzata dai difensori dei coindagati L.R. E L.V., prendendo spunto dai principi enunciati dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 5052 del 24.9.2003.
La Corte ha osservato che la disposizione dell’art. 143 c.p.p. Non può non trovare applicazione in tutte le ipotesi in cui l’imputato sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare allo svolgimento del processo e, dunque, anche in relazione all’ordinanza che dispone la custodia in carcere, per il contenuto che la contraddistingue – la contestazione di un reato con l’indicazione dei gravi indizi di colpevolezza, ma anche la sussistenza delle esigenze cautelari – e per gli effetti che ne conseguono – la privazione della libertà.
Pertanto, la S.C. ha riconosciuto all’indagato che non conosca la lingua italiana il diritto di essere messo in condizione di conoscere il contenuto del provvedimento ed in presupposti su cui si fonda, al fine di esplicare pienamente il proprio diritto di difesa.
Tuttavia la Corte ha osservato che l’obbligo di tradizione dell’ordinanza non sorge automaticamente per il solo fatto che si tratti di indagato straniero, ma sussiste fin dal momento della sua emissione soltanto qualora risulti la non conoscenza da parte dell’indagato della lingua italiana.
Ciò impone anche la giudice procedente un onere di accertamento su detto presupposto.
Per i predetti coindagati, irregolari sul territorio e privi di ogni elemento di radicamento nel territorio italiana, il Tribunale prendeva atto che, sia all’udienza di convalida del fermo che in sede di interrogatorio, essi avevano dichiarato di non conoscere la lingua italiana e che entrambe le ordinanze applicative della misura custodiale che si erano succedute avevano ritenuto necessario disporre la traduzione della stessa in lingua albanese, anche se in concreto ciò non era avvenuto per l’ordinanza del GIP riminese.
Tale ordine di considerazioni non può essere ribadito per quanto riguarda G.V..
Invero, l’ordine di traduzione dell’ordinanza doveva ritenersi rivolto unicamente a quei coindagati che non conoscevano la lingua italiana, mentre nel caso di G.V. sussistono concrete circostanze che portano ad escludere la presenza di tale presupposto indefettibile il quale impone la traduzione dell’ordinanza in lingua non conosciuta dall’indagato.
Nel corso delle indagini (cfr. verbali di perquisizione e di fermo), G.V. È stato identificato dagli operanti mediante permesso di soggiorno n….. rilasciato dalla Questura di R. il 31.10.2001 e con scadenza il 25.3.2006.
Pertanto, egli si trova in Italia almeno dall’anno 2001 e, tenuto conto dei tempi per ottenere il permesso di soggiorno, probabilmente anche da prima.
Tale presenza nel territorio di R. è suffragato dall’elenco dei precedenti dattiloscopici, da cui risulta che l’indagato venne controllato dalla questura in data 10.11.2003.
Inoltre, egli risulta anagraficamente residente a R., Via T. n. 34.
In tale situazione, è assolutamente irragionevole ritenere che, in quasi cinque anni di permanenza nel nostro paese, l’indagato non abbia appreso la lingua italiana.
E’ assorbente il rilievo che, a differenza dei tre coindagati, G.V., all’atto dell’ingresso nel carcere di R. abbia dichiarato di ben comprendere la lingua italiana (cfr. comunicazione di ingresso dalla libertà del 2.4.2006 del direttore del carcere).
Ne consegue che non vi era alcun obbligo di tradurre in altra lingua conosciuta l’ordinanza del GIP, non potendo a tale omissione conseguire la nullità.
 

Zaina Carlo Alberto

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