Nuovi profili dei limiti al “diritto di cronaca” in rapporto alla tutela penale della  libertà morale e psichica della persona, apprestata dal reato di violenza privata ex art.610 C.P..

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La sentenza del Tribunale di Milano Sez. VII Pen. n. 955/21 del 30.1.2021 apre gli scenari per una nuova giurisprudenza sulla “continenza modale” dell’esercizio del diritto di cronaca e induce a valutarne la portata alla luce dei precedenti orientamenti anche di rilievo costituzionale, secondo un corretto bilanciamento dei diritti e degli interessi posti in gioco. La ricognizione dei principi affermati sul diritto di cronaca consente di pervenire alla decisa esclusione della scriminante laddove nelle modalità di acquisizione delle informazioni si sia trascesi nell’esercitare una coartazione della libertà morale o psichica altrui.

 

Premessa: profili generali del diritto di cronaca.

Sul tema del “diritto di cronaca” ormai da tempo sembrava essere pervenuti ad una struttura piuttosto consolidata della sua definizione dottrinale, normativa e giurisprudenziale, che sostanzialmente è stata circoscritta alla nozione di “diritto di informare”, consistente nel diritto a pubblicare/divulgare quello che è collegato a fatti e avvenimenti di interesse pubblico o che accadono in pubblico, che deve osservare le seguenti condizioni: a) la verità della notizia pubblicata; b) l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); c) la correttezza formale dell’esposizione che non deve concretizzarsi in attacchi di natura personale (c.d. continenza)[1].

Invero, ai cultori del diritto di impostazione più rigorosamente accademica non era sfuggito che, nonostante tante pronunce dei giudici non solo nazionali ma anche delle corti europee che ne riconoscono un’ampia valenza, rimaneva ancora un vulnus originario nella sua declinazione. In primo luogo per alcuni autori, era preferibile parlare di “libertà di informazione” piuttosto che di “diritto all’informazione”, rimarcando quindi con il termine “libertà” la correlazione con l’aspetto negativo della “non interferenza dello Stato” nella sfera della scelta individuale (mentre nel termine “diritto” si sottolinea l’aspetto positivo della “pretesa” di prestazioni dello Stato-comunità).  Inoltre, si è osservato che a differenza di altri testi costituzionali (art. 5 Legge fondamentale Germania 1949; art. 20-D Cost. Spagna 1978) e di quanto previsto da dichiarazioni internazionali e/o sovranazionali dei diritti (art. 19 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo 1948; art. 10 CEDU; art. 19 Patto internazionale sui diritti civili e politici 1966; art. 11 Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.), la Costituzione italiana non prevede espressamente un “diritto all’informazione”. La questione peraltro non è di poco conto se si considera che le opinioni sul punto dei più autorevoli costituzionalisti nel tempo non sono state del tutto univoche:  L. Paladin[2], ad esempio, ha parlato di un mero interesse all’informazione e non di un vero e proprio diritto azionabile in sede giudiziaria e C. Esposito[3]  ha negato l’automatico collegamento tra diritto all’informazione e libertà di manifestazione del pensiero ex art. 21 della Costituzione, mentre  va ricordato che  C. Mortati[4]  ha sostenuto esattamente il contrario.

Beninteso, non è qui la sede per affrontare nel dettaglio le evoluzioni di questo dibattito, perché ciò che piuttosto interessa sotto il profilo sostanziale – per questa analisi circoscritta – è quanto rimanga di fondo il problema di come collocare l’esercizio della libertà o il diritto di informazione tra le esigenze della società democratica e le tutele dei diritti della persona. Ed è emblematico che sia proprio lo statuto del giornalista delineato dall’ articolo 2 della Legge del 3 febbraio 1963 n. 69 a stabilire che “è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”.

Sinora va detto che la giurisprudenza si è dovuta cimentare soprattutto nel definire i contorni del diritto di cronaca rispetto al bilanciamento con altri diritti e interessi generali, quali la tutela di alcuni ambiti di segretezza, dal segreto d’ufficio al segreto delle indagini e del segreto di stato, e certamente in modo molto ampio rispetto alla tutela della reputazione della persona, apprestata essenzialmente dalla norma penale relativa alla diffamazione col mezzo della stampa ex art.  596 bis c.p.. Ma non va dimenticata anche la tutela del diritto all’immagine, la cui lesione nel diritto civile qualifica una responsabilità di tipo aquiliano (secondo l’opinione prevalente) ex art. 2043 c.c. per violazione di un diritto soggettivo perfetto, che ha un riconoscimento pari a quello degli altri correlati diritti della persona (come il nome, l’onore, la riservatezza e così via), tutti comunque tutelati dagli art. 2 e 3 della Costituzione.

La sentenza del Tribunale di Milano e la vicenda processuale.

Ora, la sentenza del Tribunale di Milano, Sezione VII n. 955/21 del 22 febbraio 2021 (Giudice Maria Angela VITA), apre un nuovo scenario per una giurisprudenza che, allontanandosi dalle prospettive giuridicamente più “raffinate” appena trattate, ha dovuto confrontarsi in un ambito sinora non ampiamente esplorato perché non si poteva immaginare che il diritto di cronaca potesse sconfinare addirittura in un esercizio della violenza privata. Ma ciò è purtroppo spiegato nel diritto vivente di questi tempi, in cui un certo modo di fare informazione si manifesta con tratti alquanto eccessivi – sempre più aggressivi e rivolti alla “gogna mediatica” anche attraverso l’amplificazione degli strumenti  digitali e dei social network – su cui molti attendono almeno una moral suasion delle stesse linee editoriali, e qualche prescrizione più specifica nelle regole deontologiche definite per ultimo nel “Testo unico dei doveri del giornalista” del Consiglio Nazionale dell’ Ordine dei Giornalisti (la cui versione più aggiornata è entrata in vigore il 1 gennaio 2021).

Si è così giunti a redde rationem, allorquando il Giudice penale non ha potuto esimersi dal far arretrare il diritto di cronaca rispetto ad un bene fondamentale, quale è quello rappresentato dalla libertà psichica o morale della persona, tutelato dalla norma sulla violenza privata ex art. 610 c.p.: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, è punito con la reclusione fino a quattro anni”[5].

Nel caso in specie, il processo ha riguardato un intervistatore ed un cameramen di una nota trasmissione televisiva che avevano pressantemente inseguito una donna nell’atrio condominiale della sua abitazione, dopo essersi presentati al portiere come corrieri di una impresa di spedizione. L’intento della inchiesta televisiva era indirizzato a documentare un fatto di cronaca in cui la donna inseguita, anch’essa giornalista, era stata coinvolta in un procedimento penale riguardante accessi abusivi informatici sulla posta elettronica di alcuni personaggi famosi, procedimento comunque conclusosi con la sua assoluzione. La troupe si era appostata nel cortile condominiale, e «frapponendo il piede tra il montante e il portone d’ingresso» aveva impedito alla donna di escluderla, «frustrando in tal modo la sua libera determinazione di bloccare l’accesso al giornalista e al cameraman, non gradendo di essere né intervistata né ripresa dalle telecamere». Inoltre, la parte offesa veniva inseguita sino all’ascensore non consentendole di utilizzarlo, ed investita ancora insistentemente con una serie di domande, alle quali replicava di non voler rispondere e di non volere essere ripresa. In particolare, secondo quanto accertato nell’esame testimoniale, l’intervistatore «frapponendosi con il proprio corpo tra la soglia e la porta dell’ascensore, ha impedito insistentemente» alla donna «anche con la mano, di chiudere le porte dell’ascensore». La vittima «sentendosi oppressa dalla presenza dei due soggetti che insistevano nell’inseguirla e riprenderla con la telecamera, usciva dall’abitacolo dell’ascensore, sedendosi sulle scale del pianerottolo, ove si determinava a chiamare, in ausilio, le forze dell’ordine» con il telefono cellulare. In tali frangenti, prima di allontanarsi, l’intervistatore insisteva ancora nel porre domande con formulazioni accusatorie (“prima si fa gli affari degli altri, entra nelle mail, guarda, monitora, poi quando qualcuno fa domande eh..no..no..non si può..”), che il giudice ha quindi ritenuto tendenti ad anticipare giudizi di responsabilità, in chiave marcatamente colpevolista, attaccando la parte offesa sul piano personale e professionale. Nonostante una diffida inoltrata subito dopo l’accaduto alla produzione televisiva, le immagini dell’“intervista” così realizzata venivano comunque mandate in onda nel corso di una puntata della trasmissione. La sentenza si è conclusa con la condanna dell’intervistatore a due mesi di reclusione, convertiti in 15.000 euro di pena pecuniaria, per il reato di «violenza privata» ext. 610 c.p., al risarcimento dei danni materiali e non, oltre al pagamento delle spese processuali e di una provvisionale immediatamente esecutiva[6].

Nella vicenda processuale la linea difensiva è stata protesa a contestare in primo luogo i riferimenti ai comportamenti “violenti” o “minacciosi”, ritenuti in ogni caso di “particolare tenuità”, che però l’esame testimoniale e delle registrazioni televisive ha indotto il giudice a valutare come concretamente realizzatisi – escludendone la tenuità – anche per una valutazione complessiva della coerenza e dell’attendibilità complessiva della denunciante. Elemento centrale della posizione difensiva ovviamente è stata la tesi della scriminante del diritto di cronaca ex art. 51 c.p., laddove si è enfatizzato il fine perseguito dall’inchiesta televisiva dell’interesse pubblico, ritenuto di particolare la rilevanza, alla conoscenza della gravità dei fatti di cronaca narrati, riguardante la supposta realizzazione di accessi abusivi informatici in violazione di obblighi di correttezza professionale.

Le motivazioni principali della sentenza sono state pertanto articolate sui due aspetti fondamentali, il primo sui profili di diritto sostanziale della configurazione del reato di violenza privata nei sui elementi costitutivi, il secondo sulla conseguente connotazione dei limiti del diritto di cronaca rispetto a quelle modalità di acquisizione delle informazioni che configurano reati.

Sulla violenza privata ex art. 610 c.p..

Sulla nozione del reato di violenza privata ex art. 610 c.p., intesa ope legis come la costrizione della vittima a fare, tollerare o omettere qualcosa, mediante la violenza o a minaccia, il giudice ha puntualmente richiamato gli orientamenti giurisprudenziali secondo cui la definizione di violenza non va intesa, sic et simpliciter, come violenza “fisica” id est la c.d. violenza in senso proprio, ma anche la sola c.d. violenza impropria o morale, che si esplica attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui (Cass.Pen. Sez V 9.4.2019 n. 35092; Cass. Pen. Sez. V 24.2.2017 n. 29261; Cass. Pen. Sez. V 29.9.2015 -2.2.2016 n. 4284). Conseguentemente anche la minaccia abbraccia qualsiasi atteggiamento intimidatorio “che si atteggi come idoneo ad eliminare o ridurre sensibilmente, nel soggetto passivo, la capacità di determinarsi e di agire secondo la propria volontà”. Conclude quindi il giudice rilevando che integra il reato di violenza privata qualsiasi comportamento dotato della capacità di coartare, fisicamente e/o psichicamente la volontà altrui, posto che la tutela apprestata dalla norma penale anela a proteggere la libertà morale  ovvero la libertà psichica  dell’individuo, da intendersi quale facoltà di autodeterminarsi spontaneamente, sia formando liberamente la propria volontà, sia orientando i propri comportamenti in conformità delle deliberazioni liberamente prese (cfr. Cass. Pen. Sez. V 9.4.2019 n. 35092, Cass. Pen. Sez. V 6.6.2017 n. 40291). Quanto alla configurabilità del reato nel caso concreto, nelle motivazioni viene richiamata una pronuncia della Suprema Corte (Cass. 21.3.2016 n. 11914) che ha sanzionato una condotta analoga a quella posta in essere dall’intervistatore, e specificamente quella di un ex marito che “aveva ostacolato la persona offesa mentre cercava di chiudere l’ingresso della propria abitazione, con la frapposizione del piede in mezzo alla porta”. L’ inseguimento nell’atrio condominiale, l’ostacolare il rientro nel domicilio, la reiterazione delle domande surrettiziamente accusatorie, la presenza delle telecamere e dei microfoni prolungata anche durante la forzata permanenza della donna sul pianerottolo, nonostante il rifiuto espresso ad aderire all’intervista, hanno dunque concretizzato una seria limitazione alla autodeterminazione della donna, sia in senso fisico che psichico, tanto da indurla a chiamare il numero di emergenza delle forze di polizia: si tratta evidentemente di  elementi oggettivi ampiamente provati che configurano il reato di violenza privata nei termini esposti, e dunque con un grado di particolare offensività che porta ad escludere la “tenuità dei fatti”.

Sulla scriminante ex art. 51 c.p..

Altrettanto efficaci e puntuali appaiono infine le argomentazioni a sostegno della esclusione della scriminante ex art. 51 c.p. del diritto di cronaca, laddove la ricognizione del Giudice penale prende le mosse dalla sentenza della Corte di Cassazione Sez. I Pen.  6 luglio 2016 n. 27984, in cui si afferma espressamente:

– “il diritto di cronaca può certamente costituire scriminante per gli eventuali reati commessi con la pubblicazione e la diffusione della notizia, ma non per quelli compiuti al fine di procacciarsi la notizia;

– “sarebbe davvero singolare, ad esempio, se un giornalista potesse introdursi con violenza e contro la volontà del dominus all’interno di un’abitazione privata, allo scopo di intervistare un soggetto – sia pure di grande rilevanza pubblica e giornalistica – che si trovi in quel luogo, senza perciò rispondere dei delitti di violenza privata e di violazione di domicilio”.

Viene inoltre ricordata la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 43569 del 24 ottobre 2019, in base alla quale la scriminante del diritto di cronaca rileva solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia “e non anche rispetto ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima (fattispecie in cui la suprema Corte ha escluso la configurabilità dell’esimente per il giornalista che, utilizzando false generalità ed una falsa qualità, si era introdotto in una struttura medico assistenziale per acquisire notizie utili per la realizzazione di un servizio televisivo)”. La stessa pronuncia della Corte osserva che, se così non fosse, risulterebbe poi paradossale – e si potrebbe dire anche aberrante nel senso giuridicamente inteso – che la scriminante operasse anche per gravi reati quali il furto, la rapina o altri reati contro l’integrità fisica per procacciare notizie utili e rilevanti.

L’analisi del Giudice si inoltra poi nel valutare quanto fosse realmente impellente e rilevante l’interesse pubblico all’acquisizione e alla divulgazione delle informazioni rispetto ai fatti posti in essere, implicitamente per procedere ad un bilanciamento degli effettivi diritti e interessi posti in gioco. Ebbene la valutazione non poteva non considerare che nel caso in esame i fatti non erano stati ancora valutati in sede penale, ma semplicemente denunciati all’autorità giudiziaria, e che solo qualche giorno dopo l’intervista sarebbe iniziato il procedimento penale, che peraltro si sarebbe concluso con l’assoluzione piena della persona interessata all’intervista. Sul punto il giudice sottolinea che “l’altissimo compito di informazione” deve, in ogni caso, attenersi – finché non intervenga una sentenza di condanna – al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza dell’imputato e “non può tacciare quindi l’indagato (o l’imputato) di una colpevolezza non ancora accertata (Cass.Pen. 17.4.1991, Bocconetti in Riv. Pen. 1991,912) come – invece – accaduto a parere di chi giudica nel caso di specie”.  Invero, il Tribunale richiama certamente il principio della prevalenza, anche sulla presunzione costituzionale di non colpevolezza, dell’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti di rilievo sociale relativi all’esercizio dell’attività giudiziaria, ma rileva che, come affermato dalla stessa Corte Europea di Diritti dell’Uomo, nella sentenza CEDU 26.4.1979, caso Sunday Times, l’esercizio del diritto di cronaca (giudiziaria) non può tradursi nella celebrazione di “pseudo processi” che inducano la pubblica opinione a pervenire a conclusioni sulla base di quanto viene diffuso dai mezzi di comunicazione di massa, “ con il rischio ulteriore – peraltro- di una  perdita di fiducia nell’autorità giudiziaria, in aggiunta alla violazione della presunzione di non colpevolezza degli accusati”. Molto caustica ed esplicita è dunque la valutazione conclusiva del Giudice, per il quale “il fine perseguito dal servizio in esame fosse lontano dal portare ad una corretta informazione della pubblica opinione su un fatto di interesse generale, essendo teso piuttosto – per come realizzato (e poi montato) – ad un attacco personale” nei confronti della parte offesa, “formulando – anticipatamente – giudizi di responsabilità e spettacolarizzando la notizia in questione , nei modi e termini sopra delineati, per attrarre ed, al tempo stesso, soddisfare la curiosità (più che l’interesse pubblico alla notizia in sé)  di un elevato numero di spettatori”. E dunque in simili casi il diritto di cronaca non può certamente essere reclamato come scriminante perché “viola i c.d. limiti esterni che impongono un corretto bilanciamento tra valori costituzionali contrapposti”.

 

Ulteriori profili: configurazione del dolo e scriminante putativa.

A margine di quanto analizzato sui contenuti salienti della sentenza, si può formulare ancora qualche considerazione conclusiva. Nella vicenda vi è qualche profilo che probabilmente soprattutto la linea difensiva avrebbe potuto esplorare, ma non si può escludere che la stessa abbia perseguito una strategia processuale volta ad introdurre questi aspetti nei prevedibili rimedi di appello. Nel sostenere la tesi della prevalenza del diritto di cronaca, su cui come si è detto esiste ampia giurisprudenza, poteva forse introdursi il tema della sussistenza dell’elemento psicologico, ovvero del dolo generico previsto per la violenza privata, che richiede la contemporanea rappresentazione, nell’agente, del fatto e della sua antigiuridicità. In altri termini, nella rappresentazione soggettiva del giornalista poteva sussumersi che l’alta valenza “morale” della sua azione, diretta a soddisfare il diritto all’informazione della collettività – su fatti che gli apparivano di particolare gravità – lo aveva indotto ad escludere che i comportamenti “pressanti” posti in essere nei confronti dell’intervistata potessero considerarsi antigiuridici. Si tratta di un aspetto che richiederebbe un ampio approfondimento, per una giurisprudenza molto variegata sul punto e che è difficile calare nel caso concreto. E tuttavia un orientamento che porterebbe ad escludere la percorribilità di tale tesi difensiva lo si può individuare nel diritto attuale, seguendo i criteri posti dalla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988, secondo cui nel caso di reati di offesa (o secondo altri autori, di danno) per la configurabilità del dolo occorre: a) la conoscibilità astratta del precetto penale b) la consapevolezza dell’offensività del fatto.

Ebbene ci sono sicuramente vari elementi deduttivi per configurare nella vicenda sia l’una che l’altra condizione. Sulla “conoscibilità del precetto”, va osservato che il soggetto agente non è una persona qualunque, ma è un “giornalista”, titolare di una professione cui è pervenuto dopo un particolare percorso formativo, che pertanto deve ben conoscere le limitazioni che gli sono poste dalle regole deontologiche e dalle norme generali che sono alla base della tutela dei diritti della persona.

Non siamo di fronte ad una “posizione di garanzia” in senso proprio – che si qualifica invece nella figura del direttore della testata giornalistica  rispetto a precisi obblighi di verifica in toto del corretto esercizio della informazione – ma certamente si deve parlare di una figura professionale qualificata che non può dirsi inconsapevole del rilievo  penale di una propria condotta insistente e aggressiva, sul piano fisico e psichico, nei confronti di chi fosse oggetto di una sua intervista, che peraltro aveva espresso esplicitamente il rifiuto ad essere intervistata.

Stesse argomentazioni valgono per riscontrare anche la “consapevolezza dell’offensività”, comprovata anche da due elementi probatori acquisiti nel processo: 1) la simulazione posta in essere qualificandosi come  corriere di una impresa di spedizione per introdursi nell’area condominiale, ingannando il portiere, è indicativa della consapevolezza di dovere compiere una “forzatura” per vincere un possibile rifiuto all’intervista, rifiuto che era nel pieno diritto della parte offesa; 2) la circostanza poi che la troupe televisiva si è allontanata allorquando la vittima ha chiamato le forze dell’ordine, è altrettanto indicativa della consapevolezza che si stava operando eccedendo i propri limiti professionali: se vi fosse stata convinzione della piena legittimità del loro operato di giornalisti, quale migliore occasione se non attendere l’arrivo delle forze di polizia, che sono chiamate – se del caso anche interloquendo telefonicamente con l’autorità giudiziaria, il “p.m. di turno” –   a tutelare i diritti di ogni cittadino ed anche quelli dei giornalisti, quando non travalicano i confini del diritto di cronaca? E non v’è dubbio che tali considerazioni, peraltro, portano ad escludere anche l’atro profilo residuale della “scriminante putativa”, ex art. 59 c.p. in base al quale “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a suo favore”.

Conclusioni: un nuovo profilo per il bilanciamento del diritto di cronaca.

In sintesi, la sentenza del Tribunale di Milano apre gli scenari per una nuova giurisprudenza sulla “continenza modale” dell’esercizio del diritto di cronaca e induce a valutarne la portata alla luce dei precedenti orientamenti anche di rilievo costituzionale, secondo un corretto bilanciamento dei diritti e degli interessi posti in gioco. Mutuando infatti il criterio della “continenza” intesa come “correttezza formale dell’esposizione”, potrà introdursi un’altra condizione per configurare la legittimità del diritto di cronaca, che potremmo chiamare criterio della “continenza modale”, ovvero della “correttezza delle modalità di acquisizione” delle informazioni, che non devono ledere i diritti inviolabili della persona, con specifico riferimento alla libertà psichica e morale dell’individuo.

In ogni caso, la ricognizione dei principi affermati sul diritto di cronaca consente di pervenire alla decisa esclusione della scriminante laddove nelle modalità di acquisizione delle informazioni si sia trascesi nell’esercitare una coartazione della libertà morale o psichica altrui. In nessun caso la libertà di stampa e di cronaca possono prevalere sui diritti fondamentali dell’individuo, quali l’inviolabilità della persona e la sua libera determinazione. E ciò dovrebbe porre le basi per una riflessione più ampia, che induca lo stesso Ordine professionale a valutare gli effetti distorsivi di un certo modo di fare informazione, che certamente non risponde agli interessi generali della collettività e  alla tutela della democrazia, alimentando quel degrado culturale che purtroppo vede la coartazione, la violazione dell’integrità fisica e morale della persona diffusamente espresse in varie  manifestazioni di comportamenti sociali dell’attuale modernità.

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Note

[1] Ex multis, Cassazione civile, sez. III, 04 febbraio 2005, n. 2271, Cassazione penale, sez. II, 17 settembre .2019, n. 38277

[2] PALADIN L. Diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1998; PALADIN L. (a cura di), La libertà di informazione, Torino, Utet, 1979.

[3] ESPOSITO C., La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, Giuffrè, 1958

[4] MORTATI C., Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1976

[5] La norma prosegue indicando che “La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339”, fra cui figurano l’uso di armi, il travisamento, lo scritto anonimo, etc.

[6] Il processo non ha potuto accertare invece le responsabilità del cameramen, perché la sua individuazione soggettiva nella responsabilità delle azioni è risultata insufficiente (in relazione al mancato riconoscimento certo della vittima e alle acquisite testimonianze di “continue rotazioni” di un gran numero di giovani operatori durante le registrazioni).

 

Sentenza collegata

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maurizio delli santi

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