Nuovo modello lavorativo-organizzativo: lo smart working

Con la L. n. 81/2017 il legislatore ha disciplinato per la prima volta il lavoro agile quale modalità di svolgimento del lavoro subordinato, lasciando aperti notevoli dubbi, tra cui quello definitorio, in rapporto ad altre forme già codificate, ma poco frequenti, quale è il telelavoro.

Indice

  1. Il lavoro subordinato

1.1. Organizzazione del lavoro prima dello smart working

  1. Smart working in Italia nella dimensione della quarta rivoluzione industriale
  2. Definizione e principi dello smart working.

 

  1. Il lavoro subordinato

Ricorrendo ad una aggettivazione propositiva e dinamica, nonché ad un peculiare neologismo che mira a dare una veste giuridica a prassi e forme di lavoro già ampiamente diffuse, il lavoro agile o smart working è finalizzato ad “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”[1].

In questo senso, pertanto, la ratio legis degli artt. 18-24 della L. 22 maggio 2017, n. 81 si rinviene sì nel miglioramento della competitività dell’azienda, ma anche nella facilitazione della conciliazione tra esigenze di vita ed esigenze di lavoro[2].

Il primo, la competitività, è sicuramente un obiettivo di tipo economico, mentre la conciliazione tra esigenze di vita e di lavoro è un obiettivo di natura personalistica.

In entrambi i casi si tratta di obiettivi “alti”, in quanto espressione di valori costituzionali contenuti, rispettivamente, nell’art. 41 Cost. da un lato e negli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. dall’altro.

È innegabile, infatti, che l’obiettivo della competitività altro non sia se non una manifestazione concreta di quanto sancito dall’art. 41, comma 1, Cost., secondo il quale: “L’iniziativa economica privata è libera.”. Se la libertà di impresa è libera, infatti, essa può chiaramente svolgersi in regime di libera concorrenza e, quindi, di competitività.

Dall’altro lato, l’esigenza di conciliare la vita privata con il lavoro è il risultato di quanto previsto da diverse norme costituzionali. L’art. 2 Cost., infatti, sancisce che: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

L’art. 3, comma 2, Cost. prevede che: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione (…) economica (…) del Paese.”.

Ancora, l’art. 4, comma 1, Cost. sancisce che: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto.”.

Infine, secondo l’art. 35 Cost.: “La Repubblica promuove il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.”.

Le due esigenze descritte, pertanto, non sono in alcun modo subalterne l’una all’altra, ma si collocano su un piano paritario tra loro, in quanto entrambe tutelate a livello costituzionale.

Quindi non sarebbe corretto se prevalesse la sola esigenza di competitività aziendale, a discapito della conciliazione vita/lavoro.

Com’è noto, infatti, le risorse umane sono un elemento strategico per l’impresa e per il successo di essa, per cui è necessario che i lavoratori siano sereni affinché il business abbia successo. Diversamente, invece, il conflitto tra vita professionale e vita privata genera effetti negativi, quali lo stress, l’assenteismo e la predisposizione alle malattie, in tal modo minacciando il benessere dell’impresa e di coloro che vi lavorano.

È in tale logica di win-win, ossia di vantaggio reciproco per tutte le parti in causa, che, pertanto, ha preso piede anche il lavoro agile. Ossia quella stessa logica che già in precedenza aveva visto un’apertura da parte delle imprese più lungimiranti verso le politiche c.d. family-friendly.

Non si tratta, infatti, soltanto di una questione etica, ma di un vero e proprio vantaggio reciproco, in quanto in tal modo il beneficio in termini di qualità del clima organizzativo, di attrattività dell’azienda nel mercato del lavoro, di produttività degli individui e di raggiungimento di traguardi strategici, quali la riduzione dell’assenteismo e del tasso di turnover e la crescita dei livelli motivazionali dei lavoratori, viene a superare l’investimento economico necessario affinché tali misure vengano concretamente messe a regime.

Tuttavia, se questi sono gli obiettivi che la legge si prefigge non può certamente negarsi che affinché gli stessi vengano raggiunti non è necessario soltanto il raggiungimento di un delicato equilibrio tra esigenze organizzative ed esigenze della persona, ma occorrono anche interventi legislativi o da parte della contrattazione collettiva “utili a individuare i giusti pesi e contrappesi”[3].

Curiosa, ma soprattutto emblematica di quanto appena rilevato, è sicuramente la definizione di lavoro agile.

Se si sfoglia un dizionario della lingua italiana e si esamina la nozione di “agile”, infatti, si vede come tale aggettivo, che deriva dal latino agilis, abbia il significato di cosa o persona che “si muove con facilità”. Tant’è che i sinonimi di esso sono: elastico, scattante, sciolto, svelto[4].

Il contrario di agile, invece, è: goffo, impacciato, legato, lento, tardo.

Così ragionando, pertanto, il lavoro agile è una modalità di svolgimento del lavoro subordinato che si contrappone al lavoro dipendente “goffo”, “impacciato”, “lento”, ecc. tradizionalmente svolto in azienda.

Ciò significa, allora, che se il lavoro agile incrementa la competitività e agevola la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, il lavoro “lento” rende invece più difficoltosa l’alternanza tra lavoro e privato.

In tal modo, il legislatore parrebbe avere adottato una nozione di lavoro subordinato che, se svolto con tale modalità, reca in re ipsa addirittura un giudizio meritorio dello stesso.

Il più, forse, è capire (ma soltanto il tempo lo potrà dire) se i risultati saranno all’altezza delle aspettative che paiono trapelare dalle scelte di campo effettuate dal legislatore e se il lavoro agile costituirà davvero un volano per il cambiamento della cultura aziendale[5].

È stato poi rilevato come il lavoro agile sia maggiormente adatto per lo svolgimento di attività lavorative a contenuto intellettuale, rivolgendosi a impiegati, quadri e dirigenti, che non a operai, i quali potrebbero farvi semmai ricorso in occasione della partecipazione a corsi di formazione e-learning, ma anche su questo punto si rimanda la valutazione all’esito della concreta attuazione di tale istituto e del suo sviluppo concreto. Anche perché tale affermazione potrebbe essere smentita, ove si consideri che il lavoro agile sembra poter esercitare un impatto interessante anche sul lavoro dell’operaio. Quest’ultimo, infatti, attraverso l’utilizzo di software avanzati non svolgerà più solo una mera attività fisica di trasformazione del prodotto, ma opererà come una sorta di progettista, dotato di elevati livelli di competenza e di professionalità[6].

Il vincolo di subordinazione si pone come la premessa stessa per l’operatività della figura de qua, dal momento, come sottolinea espressamente il legislatore, che il lavoro agile è una modalità di svolgimento del lavoro descritto dall’art. 2094 c.c.

In realtà tale modalità lavorativa comporta per l’azienda la definizione di un inedito modello di organizzazione del lavoro imperniato sui seguenti tre pilastri: le risorse umane; la tecnologia e il monitoraggio costante dell’evoluzione del rapporto in relazione ai risultati.

Ma è realmente riuscito il legislatore a modificare il suo approccio al tema del lavoro? Di fronte a tale quesito l’interprete non può che prendere atto del ritardo, ma soprattutto dell’insuccesso dei risultati conseguiti in sede di riforma.

Le ragioni di tale conclusione negativa sono da ricondurre al fatto che il diritto del lavoro, oggi, appare ancora influenzato da “una realtà del lavoro pre-rivoluzione tecnologica, manuale o automatico-meccanica”[7], in alcun modo rispondente agli attuali concreti modi di operare, i quali determinano un profondo cambiamento sulla natura del lavoro tradotto in una digitalizzazione di esso, con tutto ciò che ne consegue in termini di distinzione tra autonomia e subordinazione.

Il lavoro oggi si svolge attraverso le più evolute tecnologie e strumentazioni informatiche e telematiche, che consentono non solo ai dispositivi di connettersi tra loro (internet delle cose), ma soprattutto alle persone di fare altrettanto (internet delle persone). Il ché incide sulle tradizionali coordinate spazio/temporali in cui si muove e si articola la prestazione di lavoro.

Pertanto, non è certamente più attuale il modello tayloristico di organizzazione del lavoro tipico del Novecento industriale che pretendeva che il tempo di lavoro coincidesse con la presenza fisica del lavoratore in azienda[8].

All’opposto, infatti, oggi si assiste ad una maggiore libertà ed autodeterminazione nella prestazione di lavoro, ma soprattutto ad un ambiente di lavoro on line “nel quale gli individui sono al tempo stesso utenti, lavoratori, produttori, appaltatori, consulenti, consumatori e “in ogni caso manager di sè stessi’”[9]. Il ché avrebbe preferibilmente dovuto indurre il legislatore a regolamentare il lavoro in modo nuovo, ponendo l’accento non tanto sulla limitata prospettiva di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, quanto piuttosto sulla centralità delle competenze e delle responsabilità dei lavoratori all’interno del nuovo paradigma del lavoro, nonché sulle tutele spettanti.

Inoltre, il legislatore avrebbe potuto (rectius: dovuto) porsi molteplici quesiti, tra i quali svetta la seguente domanda: l’attività umana on line è misurabile attraverso le coordinate tradizionali spazio/tempo o necessita di una mutata unità di misura?.

In questo senso, tutte le considerazioni che precedono inducono a rimeditare la tradizionale impostazione del lavoro subordinato in termini di messa a disposizione delle energie lavorative dentro un arco temporale determinato in favore, piuttosto, della messa a disposizione della propria professionalità al di là della quantificazione del tempo di lavoro[10].

La forza destrutturante e decentralizzante delle tecnologie del web sulla tradizionale categoria del lavoro subordinato, pertanto, viene ridimensionata dall’inserimento del lavoro agile nella categoria giuridica del lavoro subordinato inteso in senso tradizionale. Ciò perché la subordinazione all’interno del lavoro agile si configura in modo del tutto particolare rispetto alla nozione, per così dire, tradizionale delineata dall’art. 2094 c.c.

In questo senso, infatti, si assiste sicuramente ad una nuova (ma forse ancora confusa) forma mentis del legislatore, il quale introduce nei rapporti di lavoro subordinato delle novità tratte dai fenomeni sociali ed economici dei nostri giorni, quali l’innovazione tecnologica e le nuove forme dell’economia digitale.

Le grandi novità che segnano lo scostamento dalla fattispecie classica di lavoro subordinato consistono, da un lato, nel fatto che i poteri del datore di lavoro siano oggetto di accordo individuale e, dall’altro, nel fatto che il lavoratore agile non sia tenuto al rispetto di precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro.

Se è pur vero, sotto il primo profilo, che l’accordo individuale non si spinge fino a rendere consensuale l’esercizio dei poteri datoriali, limitandosi piuttosto ad attribuire all’autonomia delle parti la definizione delle modalità di esercizio di tali prerogative, è pur vero che ciò costituisce una deviazione rispetto allo schema classico, emancipando le parti “dalle rigidità di una definizione eteronoma della sistemazione degli interessi e dalle dinamiche contrattuali collettive”[11].

Infatti, se l’accordo individuale concerne le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro agile e se quest’ultimo è, a sua volta, una modalità di svolgimento del lavoro subordinato, ciò significa allora che le parti, con accordo individuale, negoziano le modalità di svolgimento del lavoro subordinato a norma dell’art. 19, comma 1, L. n. 81 del 2017.

E poiché il lavoro dipendente implica l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, questo implica anche che l’accordo individuale prenderà posizione circa l’esercizio di tali prerogative datoriali.

Com’è noto, il lavoratore subordinato ha l’obbligo di conformarsi alle direttive del datore di lavoro circa le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere.

Ci si chiede, ad esempio, se sia lecito che le parti stipulino un accordo individuale di lavoro agile stabilendo di comune accordo l’esercizio del potere direttivo.

La soluzione adottata dal legislatore è frutto della presa di coscienza del fatto che l’impresa è oggi in radicale trasformazione e che l’organizzazione del lavoro è mutata.

Ciò determina un ripensamento del potere direttivo sancito dall’art. 2086 c.c., nel senso che il datore di lavoro deve coordinare le varie prestazioni di lavoro riconoscendo al lavoratore flessibilità di orario e di luogo.

Inoltre, in quanto assoggettato al vincolo di subordinazione, il lavoratore subordinato è soggetto all’obbligo di diligenza nello svolgimento del lavoro, nonché all’obbligo di fedeltà, quindi deve astenersi dallo svolgere lavoro per conto proprio e di terzi in concorrenza con l’imprenditore.

Obblighi, quello di diligenza e quello di fedeltà, cui corrispondono il potere di controllo e il potere disciplinare del datore di lavoro. Infatti, il datore di lavoro ha il potere di controllare l’esatta esecuzione della prestazione lavorativa, verificando la diligenza di quest’ultimo nello svolgimento della stessa ai sensi dell’art. 2104 cc., nonché l’osservanza delle direttive impartitegli, anche al fine di avviare eventuali azioni disciplinari ex artt. 2106 c.c. e 7 dello Statuto dei lavoratori.

Su tali poteri si è espresso il successivo art. 21 della L. n. 81 del 2017, il quale precisa che l’accordo di cui all’art. 18, comma 1, deve contenere la disciplina dell’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro quando la prestazione viene resa al di fuori dei locali aziendali.

In tali casi il potere di controllo deve esercitarsi nel rispetto di quanto disposto dall’art. 4 Stat. lav., così come recentemente riformato dal D.Lgs. n. 151 del 2016 e dal D.Lgs. n. 185 del 2016.

Se il richiamo a tutto l’art. 4 della L. n. 300 del 1970 “e successive modificazioni” consente di tenere conto dell’intervento riformatore che ha interessato la norma dello Statuto dei lavoratori, un punto di criticità è rilevabile con riferimento al comma 3 di tale disposizione.

L’art. 4, comma 3, infatti, prevede che le informazioni raccolte, per essere utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro devono essere oggetto di “adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli” e devono rispettare il D.Lgs. n. 196 del 203 sulla privacy.

Ora, il richiamo dell’art. 21 all’art. 4 consente di ritenere richiamata anche la normativa sulla privacy, ma non garantisce necessariamente che il datore di lavoro abbia assolto l’obbligo di adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli.

Pertanto, delle due l’una: o il datore di lavoro fornisce tali informazioni all’interno dell’accordo sul lavoro agile oppure i dati raccolti non potranno essere utilizzati, né opponibili al lavoratore.

Inoltre, l’accordo individuale deve individuare le condotte, connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari. Previsione, quest’ultima, che ha fatto molto discutere in quanto attraverso di essa l’autonomia individuale viene abilitata ex lege a regolare istituti ordinariamente riservati all’autonomia collettiva, quali la tipizzazione delle condotte disciplinarmente rilevanti[12].

Ancora, sul punto si rileva come attraverso l’accordo individuale, le condotte disciplinarmente rilevanti si reputeranno conosciute, ritenendosi con ciò assolto l’obbligo di pubblicità del codice disciplinare, mentre in assenza di forma scritta il potere disciplinare non sorgerà e non potrà essere esercitato, trattandosi di un accordo scritto non solo ad probationem, ma ad substantiam.

Già tale aspetto di novità incide sulla classica dialettica regolativa subordinazione/autonomia, dando vita a quella “destandardizzazione” della disciplina in tema di subordinazione in precedenza evidenziata.

Ma tale alternanza tra logiche di comando e controllo tipiche della idea novecentesca di subordinazione con forme di lavoro autorganizzate o, comunque caratterizzate da un coordinamento tenue con il datore di lavoro lascia dubbiosi circa i rischi derivanti dall’estendere con acrobazie “circensi” al lavoratore agile i poteri di organizzazione del datore di lavoro, senza chiari confini con i tempi di vita.

Come ha rilevato la dottrina, “il lavoratore subordinato diventa più autonomo e ciò avviene proprio quando lo stesso legislatore impone l’applicazione delle tutele del lavoro subordinato alle collaborazioni continuative (…). Quindi il lavoro subordinato diventa più autonomo e le collaborazioni autonome tendono a essere più subordinate”. E tanto vale a dire che “la linea di tendenza dell’ordinamento (…) è ancora quella non della detipizzazione della fattispecie fondante il diritto del lavoro, bensì quella della destandardizzazione della disciplina applicabile”[13].

Non è un caso, pertanto, a parere di chi scrive, che il legislatore abbia inteso inserire la disciplina de qua in un unicum corpus con il lavoro autonomo. Tale scelta sistematica, infatti, tradisce la presa di coscienza di una ibridazione di forme contrattuali di portata potenzialmente destrutturante per la categoria giuridica del lavoro subordinato.

Non convince del tutto la tesi prospettata in dottrina secondo la quale il lavoro agile rappresenta una fattispecie speciale di lavoro subordinato, in quanto presenta una deviazione causale dal tipo legale, per cui il sinallagma contrattuale si viene ad arricchire sotto il profilo degli interessi.

Secondo tale tesi l’interesse all’esercizio dei poteri datoriali in conformità con le esigenze di conciliazione vita/lavoro, unitamente all’interesse di definire le prerogative imprenditoriali a fronte di una prestazione “disintermediatasi” dall’ambiente di lavoro standard, allora, costituirebbe quel quid pluris che renderebbe speciale il lavoro agile rispetto a quello subordinato.

Tale tesi non convince pienamente per le seguenti ragioni.

In primis, la tesi parla di “fattispecie speciale di lavoro subordinato” e di “deviazione causale dal tipo legale”, utilizzando formule che non sembrano appropriate, là dove, come nel lavoro agile, non si ha a che fare con una tipologia contrattuale, ma con una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato” ex art. 18, comma 1. E, in quanto modalità, il lavoro agile certamente non dispone di una causa autonoma rispetto a quella del lavoro subordinato, di cui costituisce una mera declinazione modale.

In secondo luogo, le perplessità riguardano la causa speciale individuata da tale teoria, dal momento che il rinvio agli interessi specialmente di conciliazione delle esigenze di vita privata e di lavoro, non può essere un elemento causale, posto che esso costituisce all’opposto la ratio dell’intervento legislativo in esame e, come si è detto, tale ratio è assai riduttiva rispetto alla portata della realtà che si accinge a normare.

Diversamente da quanto sopra teorizzato, allora, si ritiene che ciò che viene ad assumere carattere di specialità non sia la causa del lavoro agile, essendo quest’ultimo una modalità di svolgimento del lavoro subordinato, bensì che divenga speciale la causa del lavoro subordinato ove quest’ultimo venga declinato nella modalità di lavoro agile.

E in che cosa consiste tale specialità? Nel fatto che il lavoro subordinato, quando è agile, non presenta la tradizionale causa del contratto data dallo scambio tra prestazione lavorativa in regime di subordinazione, ossia assoggettata ai tradizionali poteri direttivo, di controllo e disciplinare, e retribuzione, bensì consiste nello scambio tra prestazione lavorativa maggiormente autonoma e libera, ma finalizzata al raggiungimento degli obiettivi e quindi responsabilizzata, ex lato lavoratore, e retribuzione dal lato del datore di lavoro.

Quindi la causa del lavoro subordinato in modalità agile è data dallo scambio tra il raggiungimento degli obiettivi e il pagamento della retribuzione, secondo un progressivo abbandono della tradizionale concezione della subordinazione in termini di obbligazione di mezzi versus un’obbligazione di risultato. Ma la causa è connotata anche da una responsabilizzazione del dipendente nel raggiungimento dei risultati.

Il lavoro agile non necessariamente copre l’intero campo di estensione della prestazione di lavoro, nel senso che esso può riguardare una parte di essa oppure l’intero lavoro, fermo il solo limite della connessione funzionale della prestazione con l’attività dell’impresa. Esso, ad esempio, può essere organizzato per fasi, per cicli o per obiettivi, il ché rappresenta una possibilità così come pare emergere dall’utilizzo della congiunzione “anche” riferita a tali forme di organizzazione.

Il legislatore non chiarisce il significato dell’organizzazione per fasi e cicli, anche se la formula sembra riecheggiare, per certi versi, la modalità del lavoro a progetto della legge Biagi.

Senonché, però, come si ricorderà, nel lavoro a progetto tale formula è stata abbandonata proprio a causa della sua genericità, per cui ci si domanda dell’utilità di reintrodurla ora nonostante il passato insuccesso.

Forse un chiarimento sulla ratio di tale previsione può rinvenirsi nel breve enunciato programmatico della relazione accompagnatoria al D.d.l. n. 2233 presentato alla Presidenza il 3 febbraio 2017, in cui si afferma che: “Non più un posto di lavoro per tutta la vita, ma neanche un unico luogo di lavoro durante lo stesso rapporto di lavoro, e neppure un orario fisso. Non poche persone preferiscono oggi lavorare per obiettivi, fasi e cicli ed essere conseguentemente valutate sulla produttività e sul risultato raggiunto piuttosto che in base a parametri come l’ora di lavoro e la presenza fisica nei locali aziendali.”.

Esistono, infatti, alcune realtà aziendali in cui il lavoro viene organizzato per fasi lavorative o per cicli produttivi e, forse, il riferimento normativo deve essere inteso in tale modo. Ma sul punto si ritiene che sarebbe più opportuno un chiarimento ministeriale, così come il Ministero del lavoro fece con la circ. 14 gennaio 2004, n. 1 sul lavoro a progetto, la quale aveva chiarito che i concetti di “programma” e “fase” erano da considerare quali sinonimi e consistevano in un tipo di attività che non era direttamente riconducibile ad un risultato finale, quanto ad un risultato parziale che andava a confluire con altri risultati parziali in vista di un unico esito finale.

Un problema che è stato posto a livello sindacale è se l’introduzione di elementi valutativi della prestazione lavorativa commisurati al raggiungimento di obiettivi possa esplicare effetti nell’esercizio del potere di licenziamento per scarso rendimento da parte dell’azienda. Secondo gli orientamenti giurisprudenziali più attuali, infatti, il datore di lavoro deve dimostrare non solo il mancato raggiungimento degli obiettivi, ma anche che ciò deriva da un negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore.

Tale nuova previsione, infatti, viene ad ampliare e ad aggravare la violazione del dovere di diligenza, il ché potrebbe dare il “la” al datore di lavoro per un licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Diversamente dagli orientamenti tradizionali, infatti, se come nel lavoro agile viene specificamente pattuito che il lavoratore debba raggiungere determinati obiettivi, il datore di lavoro potrebbe limitarsi ad invocare il mancato raggiungimento di essi ricadendo sul lavoratore l’onere di dimostrare il contrario.

Il nuovo assetto del rapporto di lavoro agile, quindi, sospinge la subordinazione verso l’autonomia ed è contraddistinto da un’assunzione di rischio da parte del lavoratore agile, il quale vedrà valutata la propria prestazione in base agli obiettivi raggiunti.

Il lavoro per obiettivi, secondo logiche di risultato e di autodeterminazione, proprie della opposta categoria del lavoro autonomo[14], pertanto, nelle intenzioni del legislatore rappresenta un superamento del lavoro subordinato in termini di obbligazione di mezzi, con la conseguenza che la prestazione di lavoro verrà esaminata ora anche (o soprattutto) per i risultati conseguiti, secondo una valorizzazione della professionalità, delle competenze e dell’apporto del singolo alla creazione di valore per l’impresa. Ciò in quanto la prestazione lavorativa viene esentata dal coordinamento spazio/temporale con l’organizzazione aziendale nel senso tradizionale, avvicinandosi maggiormente alla continuità della prestazione di lavoro, in tal modo venendo così ad assumere i connotati della prestazione autonoma.

In questo modo si vorrebbe realizzare quel change management volto a sviluppare una nuova cultura organizzativa, in cui la prestazione lavorativa non è più basata sul tempo e sul controllo del lavoratore, ma sui risultati, sulla produttività e sulla fiducia.

Ora, se la soluzione adottata dal legislatore è il frutto di una presa di coscienza del fatto che l’impresa è in trasformazione e che l’organizzazione del lavoro è oggi mutata, soprattutto sotto il profilo della allocazione geografica e dei tempi dell’apporto di lavoro all’organizzazione produttiva del datore, è anche vero che ciò determina la necessità di operare una rimeditazione più profonda, certo non semplice e certamente ad oggi non ancora compiuta, della nozione tradizionale di subordinazione nella sua declinazione di lavoro agile[15], se non addirittura, ma l’obiettivo è alto e il percorso da fare ancora estremamente lungo, dell’intero lavoro.

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1.1. Organizzazione del lavoro prima dello smart working

Nell’attuale fase, di pandemia da Corona Virus Disease (noto come Covid-19 o, secondo la nuova classificazione, SARS-CoV-2), di grande disorientamento e incertezza, con una drammatica esperienza globale di paura e preoccupazione, siamo stati catapultati in un futuro che credevamo molto lontano: quello in cui moltissime persone lavorano (e insegnano), nel settore pubblico e in quello privato, al computer/tablet/smartphone, distanti fisicamente dai luoghi di lavoro, da colleghi, fornitori/clienti, studenti, ecc., ma iper-connesse attraverso la rete di Internet.

L’inedita e cupa situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha introdotto negli ambienti di lavoro una nuova categoria di potenziale rischio da agente biologico (ai sensi dell’art. 268, D.Lgs. n. 81/2008), completamente diverso rispetto a quelli sinora conosciuti, a causa di un microrganismo invisibile, sconosciuto e subdolo che si intrufola dappertutto e persiste a lungo sulle superfici contaminate. Tale rischio di infezione per la persona ci costringe a modificare le modalità di lavoro e di vita, ricercando, ove possibile, un distanziamento nella vita quotidiana (lavorativa e sociale) in funzione della cura dei corpi; distanziamento fisico reso possibile dalle tecnologie che permettono di restare in relazione, o meglio in rapporto (anche di lavoro), senza prossimità, cioè a distanza.

Già nella fase 1 – della prima emergenza e del blocco delle attività, cioè della preminenza delle preoccupazioni sanitarie – fra le misure igieniche per prevenire e contrastare la diffusione del Covid-19 ha assunto una centralità inedita il lavoro eseguito fuori dai luoghi di lavoro, rectius in quarantena casalinga. Il lavoro in modalità a distanza, per le sue caratteristiche di isolamento e distanziamento, costituisce una cura non farmacologica efficace per proteggere la salute delle persone che continuano a lavorare.

Nell’attuale fase 2, le preoccupazioni sanitarie incrociano quelle economiche, con la parziale e progressiva riattivazione delle attività produttive e lavorative, in coesistenza con il rischio virus. In questo sfondo, il lavoro a distanza fisica (ove utilizzabile), calato in un contesto di concorrenza globale, continua ad essere l’antidoto preferito contro il contagio, quale strumento di prevenzione e precauzione utile e modulabile, senza i costi degli ammortizzatori sociali o dell’integrale perdita della retribuzione.

La modalità di lavoro non in presenza è resa possibile grazie all’utilizzo di dispositivi informatici (stando ai dati delle vendite, con una rivincita del personal computer rispetto a tabletsmartphonephablet, ecc.), di piattaforme digitali (ZoomTeamsMeetHangouts, ecc.) e dell’ecosistema della comunicazione. È vero, questi artefatti tecnologici erano già a nostra disposizione, ma – per varie ragioni (in primis di cultura aziendale e digitale) – la loro possibilità di desincronizzare e flessibilizzare l’attività lavorativa rispetto ad un posto e un orario fisso risultava sottoutilizzata.

Prima dell’emergenza Covid-19, l’intima connessione tra forme di lavoro digitale e attività lavorativa a distanza è rimasta sullo sfondo nella normativa italiana sia del settore pubblico, sia di quello privato, seppur la contrattazione collettiva ha coltivato significative sperimentazioni nelle grandi aziende tecnologicamente più avanzate. Così nell’interpretazione della legge non emerge con evidenza la consapevolezza che l’innovazione tecnologica – con un processo circolare – cambia radicalmente l’organizzazione del lavoro e della produzione, nonché il modo in cui si lavora, e ne è a sua volta condizionata. La rivoluzione digitale e l’automazione scompongono e ricompongono i processi lavorativi alimentando l’esigenza di sperimentare forme nuove di regolazione del lavoro, con una maggior rilevanza del “cosa” il lavoratore fa – rispetto al “dove” e al “quando” lo fa – con ricadute pure sull’identità professionale di “chi” lo fa.

La pandemia, quale “fulmine a ciel sereno”, ha dato luogo ad una forte discontinuità che ci ha trovato del tutto impreparati. La complessa situazione di emergenza travolge e stravolge l’attuale organizzazione dei luoghi e dei tempi di lavoro in molte attività economiche e sull’intero territorio nazionale, determinando una sorta di accelerato processo di alfabetizzazione digitale coatta. Data la natura dell’epidemia, la contaminazione delle modalità digitali di lavoro si diffonde a livello globale. Così l’impatto dell’attuale crisi mette in discussione il punto di vista con cui guardare il valore e il ruolo del lavoro nel futuro, insomma è un fatto di grandi cambiamenti nel mercato del lavoro che può disegnare una vera e propria faglia nella formazione del diritto del lavoro. Il vortice del cambiamento, nell’immediato, con la forza delle cose influenza il modus operandi e la mentalità di ogni persona (nei diversi ruoli di datore, lavoratore, consumatore) a cui è chiesta una riprogettazione e una visione diversa, anche ambientale. Non è chiaro cosa resterà come lascito strutturale e sistemico della pandemia[16], quali tracce emergeranno per disegnare il futuro del lavoro, ma di sicuro queste dipenderanno anche da come è gestita, vissuta e percepita l’attuale fase di emergenza.

Come segnalato, l’eccezionale spinta alla digitalizzazione del lavoro, a livello globale, non proviene dal fronte tecnologico che stavamo monitorando (con forte preoccupazione per la tenuta dell’occupazione), bensì dall’imprevedibile (ma non per i virologi!)[17] emergenza della pandemia da coronavirus, veicolata in tutto il mondo dalla rete logistica mondiale. Il boom del lavoro a distanza è spinto, quindi, non dall’avanzamento della tecnologia, bensì dalle paure primordiali per la salute della persona e dall’esigenza di ridurre la presenza nei luoghi di lavoro; paura, questa, trasportata dalla Cina al resto del mondo, in tempo reale, per via dell’altra rete tessitrice della grande trasformazione, quella digitale. Non c’è dubbio, la reazione istintiva di fronte alla paura del contagio è quella della disconnessione fisica, del richiudersi negli spazi limitati sicuri e protetti, a partire dalla propria casa.

Ma la paura per la salute non viaggia sola, è accompagnata da quella per l’economia, cioè dalla preoccupazione di salvaguardare, nel contempo, l’attività lavorativa. Non a caso, l’emergenza sanitaria si è già trasformata in crisi economica e sociale. Se così è, accanto alla curva dei contagi dobbiamo studiarne altre due, con effetti anch’essi potenzialmente letali: la curva di resistenza dell’economia e quella della tenuta sociale del Paese[18].

Emergono così le forze opposte dell’emergenza: davanti alla paura del contagio, l’essere umano cerca la disconnessione fisica rifugiandosi nel luogo più familiare; dinanzi al timore della disoccupazione, la persona cerca la connessione sociale facendosi raggiungere ove possibile, dal proprio lavoro dentro le mura di casa. Tali forze opposte di disconnessione (fisica)/connessione (lavorativa) trovano una conciliazione, temporanea, nel rifugio del lavoro a distanza dal proprio domicilio.

Il lavoro da remoto, con un balzo veloce e impensabile, da provvedimento marginale nella vita aziendale (meno di 600.000 posti) è diventato in poco tempo del tutto centrale (si stimano 6 o addirittura 8 milioni di lavoratori da casa), a testimonianza di una notevole reattività e straordinaria resilienza del sistema italiano, nonostante i noti problemi strutturali. Non c’è dubbio, però, che il lavoro (e la socializzazione) da remoto è resa possibile dalle opportunità offerte della tecnologia e dalla sua presenza reticolare nel vissuto della realtà quotidiana (famiglia, lavoro e scuola) non soltanto dei “nativi”, ma anche degli “immigrati” digitali. Da qui, l’emersione di un importante effetto retroattivo, con riflessi positivi e negativi: il fattore propulsivo dell’emergenza che si manifesta nell’accelerazione di utilizzo delle tecnologie, sperimentandone usi anche imprevisti, dato che il digitale rompe di fatto il vincolo spazio-temporale di molte attività, non solo di tipo professionale.

La paura del contagio sta accelerando, in maniera forzata e drastica, le possibilità di utilizzo per tutti delle tecnologie disponibili[19] e alle crescenti possibilità di interconnessione tra cose e persone. Le nuove esperienze e memorie collettive di vita vissuta (lavoro a distanza, video conferenze, didattica a distanza, acquisti on line, ecc.,) cambiano mentalità e abitudini esistenziali e lavorative lasciando lasciare tracce profonde nel modo di abitare il mondo e il lavoro del futuro.

Questa convivenza forzata, figlia del bisogno di sicurezza, con le utilità delle tecnologie di distanziamento (senza “se”, ma con molti “ma”, visto il degradarsi delle forme di socialità e di identità) può comunque aiutarci a comprendere le loro caratteristiche essenziali e le implicazioni che derivano dall’utilizzo su larga scala. Da qui la possibile rivoluzione nel modo non solo di lavorare, ma anche di pensare e disegnare il lavoro, rafforzando le traiettorie sostenibili della straordinaria e dirompente potenza (a costi calanti) dell’innovazione digitale. La tecnologia apre, quindi, inedite potenzialità e scenari di sviluppo, anche per il capitale umano, per una nuova visione manageriale e di relazioni industriali, se ed in quanto impareremo ad affrontarla con una cassetta degli attrezzi in parte diversa da quella novecentesca.

Paradossalmente, la tecnologia, mentre alimenta preoccupazioni per i possibili effetti distruttivi del lavoro umano in azienda, ci aiuta a conservare il lavoro, in ambiente casalingo. L’innovazione tecnologica, vissuta in negativo come rischio di perdita del lavoro, viene rovesciata in positivo, quale misura di prevenzione della salute e di conservazione dell’attività lavorativa. La tecnologia, quindi, offre straordinarie opportunità, ma anche nuovi rischi ed esigenze di tutela della persona che lavora a distanza nel mondo a parte della rete di Internet in cui evapora il confine tra dentro e fuori dallo schermo, tra (tempo e luogo di) lavoro e non lavoro. È facile prevedere che, nelle azioni di rilancio e ricostruzione post-virus, anche in conseguenza del ricambio generazionale, il digitale farà la differenza: le tecnologie disegneranno la nuova architettura per l’economia, per l’organizzazione del lavoro, nonché per la vita quotidiana, con una linea d’ombra sfumata (se non una crescente ibridazione) tra off e on line, come sintetizza il paradosso dell’identità “onlife[20].

Il lavoro da remoto presumibilmente costituirà una forma importante di lavoro, se non una pratica comune, nel settore pubblico e privato, in quello dipendente e in quello autonomo, anche libero professionale. Si tratta di una concreta e intrigante possibilità di lavorare, ma solo per chi può farlo a distanza e soltanto con certe cautele. Come intuibile, non tutte le attività economiche possono essere svolte in toto con modalità di lavoro agile: importanti servizi essenziali non sospesi (in primis sanità, assistenza e trasporti) e importanti settori produttivi da riaprire (ad esempio: produzione manifatturiera, edilizia, e lo stesso commercio a meno che non vi sia una conversione all’on line assistito) presentano una bassa fattibilità di smart working.

Per la mappatura delle cautele del lavoro a distanza bisogna apprendere e trasformare le difficoltà della sperimentazione necessitata e forzosa dell’emergenza in un monito per far emergere le regole per rendere il lavoro veramente agile, nel senso pieno della parola, cioè sostenibile per datori e lavoratori, spesso lavoratrici.

Per cogliere le caratteristiche e le eredità del lavoro agile al tempo del coronavirus, è necessario prendere le mosse dalla disciplina previgente di lavoro a distanza, anche in quanto questa è destinata a ritornare la regola rispetto all’eccezione del periodo di emergenza.

Come noto, l’antenato prossimo del lavoro agile è il telelavoro del decennio ’90, a sua volta, parente lontano del lavoro a domicilio degli anni ’70. Le tre varianti di lavoro a distanza prevedono modalità flessibili di occupazione che mettono in crisi contemporaneamente due indicatori tradizionali della subordinazione ritenuti “naturali”: il luogo (entro il cemento del perimetro aziendale) e l’orario (entro le sequenze temporali unitarie e sincronizzate) di lavoro e di non lavoro dell’organizzazione sociale dell’impresa.

Non a caso, già la L. n. 877/1973 qualifica la subordinazione del lavoratore a domicilio “in deroga a quanto stabilito dall’art. 2094 c.c.” e il telelavoro viene disciplinato (dalla legge, dall’autonomia collettiva e individuale) come una tipologia diversa dalla normalità. La querelle sulla destrutturazione della subordinazione non è quindi una novità del lavoro agile, seppur il legislatore la tacita inglobando l’agilità dentro il contenitore legale della subordinazione ex art. 2094 c.c., quale modalità di lavoro che fornisce risposte alle sfide di un aumento dell’autonomia e della responsabilità del lavoratore. Quello che è sicuramente cambiato nell’evoluzione della disciplina del lavoro a distanza è il contesto economico-sociale e, soprattutto, tecnologico di riferimento: dapprima meccanico, poi analogico e ora digitale. Quest’ultimo si differenzia dai precedenti per le potenzialità trasformative delle innovazioni, il tipo e la velocità del cambiamento.

Non c’è dubbio, il lavoratore subordinato che “auto-organizza” tempo e luogo dell’attività lavorativa e che lavora per obiettivi o progetti ricorda il prototipo del lavoratore a domicilio “a cottimo”, anzi diventa, di fatto, molto simile al lavoratore autonomo, data anche l’eventualità di una traslazione di una parte del rischio di impresa dal datore al lavoratore, con possibili conseguenze di ibridazione o di osmosi delle nozioni giuridiche fondanti la separazione binaria delle monolitiche categorie tradizionali del nostro diritto del lavoro (subordinazione versus autonomia).

Secondo la narrazione prevalente, il telelavoro non ha attecchito – sia nel pubblico sia nel privato – per la sua regolamentazione troppo complicata e rigida. Ritengo, invece, che la resistenza principale dipenda dalla forza delle cose: il ritardo tecnologico, l’età del personale sempre più avanzata e l’inadeguata formazione digitale, e soprattutto la cultura organizzativo-manageriale modellata sull’immagine novecentesca della fabbrica fordista con le sue rigidità e i controlli verticali di luogo e orario di lavoro. Salvo casi eccezionali – di lavoratori, spesso lavoratrici, “fragili” per ragioni di cura dei figli e/o assistenza degli anziani, ovvero di disabilità – ha prevalso su ogni altra innovazione la mentalità del lavoro dentro “l’ufficio-fabbrica”, cioè a contatto fisico con la comunità aziendale. Pur avendo avuto una modesta diffusione, la regolamentazione del telelavoro resta, tuttavia, un’importante pietra di paragone per i nuovi modi di lavorare.

La normativa che per prima ha disciplinato il lavoro agile in Italia – noto all’estero e in molti contratti collettivi come smart working (o telelavoro o lavoro da casa) – è entrata in vigore dal 14 giugno 2017, a seguito della L. 22 maggio 2017, n. 81, c.d. “Statuto dei lavori”, recante “Misure (…) volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”[21]. Il Capo II regolamenta, con 6 articoli (18 ss.), in modo organico seppur scarno, il lavoro agile quale variante di lavoro subordinato, assecondando – ma soltanto in parte – tendenze già emerse in alcuni contesti produttivi e spesso recepite nella negoziazione collettiva del settore privato (per lo più: di livello aziendale, nelle grandi imprese, specie multinazionali). Il lavoro agile permette, mediante accordo tra le parti individuali, di far ‘vibrare’ lo spazio e il tempo nel rapporto di lavoro subordinato oltre i vincoli tradizionali, lavorando anche per obiettivi o progetti, con conseguente misurazione e valutazione sul risultato raggiunto (cioè sull’apporto del singolo alla creazione di valore per l’impresa) piuttosto che in base ai parametri classici, quali l’ora di lavoro fissa e la presenza fisica nei locali aziendali.

Da qui l’esigenza di programmarne l’utilizzo del lavoro agile in un contesto organizzativo diverso, di project management, integrato con le tecniche del change management, con idonea informazione, condivisione e formazione di dirigenti e dipendenti.

Per effetto delle tecnologie digitali ci troviamo quindi di fronte a nuovi indicatori di una subordinazione “agile” più leggera ma dilatata, caratterizzata da attenuazione della soggezione, da immissione di dosi di autonomia e di autogestione, con una crescente responsabilizzazione del lavoratore sui risultati all’interno dei confini della nozione giuridica di subordinazione e con una probabile maggiore incidenza della retribuzione di risultato.

Rispetto al modello social-tipico di lavoro subordinato, la principale innovazione della disciplina legale – figlia della regolamentazione del telelavoro nel settore privato[22] – risiede nella valorizzazione dell’autonomia individuale per la definizione “dell’ossatura dell’intero rapporto” di lavoro agile. La legge punta tutto sull’”accordo tra le parti”, cioè tra datore e singolo lavoratore (c.d. “patto di agilità”), quale clausola accessoria che veicola un implicito patto di fiducia tra i contraenti (art. 18, comma 1, L. n. 81/2017); prevedendo la possibilità di risolvere il medesimo accordo senza obbligo di giustificazione, salvo il rispetto del termine di preavviso (art. 19, comma 2, L. n. 81/2017).

La scelta di affidare la regolazione della prestazione lavorativa all’autonomia privata individuale – seppur appaia coerente con la tendenza all’individualizzazione dei rapporti di lavoro in funzione delle specifiche esigenze della persona che lavora e della concreta realtà organizzativa – non tiene conto, tuttavia, sia dei possibili condizionamenti in concreto della libera volontarietà del soggetto parte debole del rapporto di lavoro (in assenza di una rete di garanzie per la genuinità del consenso), sia dell’importante e prezioso ruolo della contrattazione collettiva (non solo di anticipazione delle regole legali, ma pure) di riequilibrio dello squilibrio contrattuale. Quindi la negoziazione collettiva opera in condizioni di “semi-clandestinità”, essendo autorizzata ad intervenire solo in virtù della libertà sindacale.

Da qui il tentativo dei lavoristi di ricercare, fra le pieghe e gli echi della normativa, il rinvio “perduto” alla regolamentazione collettiva del lavoro agile[23], per es. coltivando gli effetti del rinvio legale (implicito) ad essa veicolato dal limite della durata massima dell’orario di lavoro. In tale direzione, una spinta indiretta deriva dagli incentivi per le misure di c.d. “welfare aziendale” concordate a livello aziendale. Tale misura, dando per presupposto che l’agilità incide sulla produttività del lavoro, “realizza in forma inedita una sorta di monetizzazione del valore della flessibilità (…) esprimendo in chiari termini l’equazione flessibilità-produttività”. La negoziazione sindacale a livello di categoria, invece, si è impegnata nell’opera di adattamento delle previsioni contrattuali in materia di telelavoro o viceversa nella ricerca di una netta ripartizione tra le fattispecie di telelavoro e lavoro agile, o ancora in termini di mero rinvio alle previsioni legislative[24].

Il lavoro agile è disciplinato non quale nuova tipologia negoziale, bensì quale particolare “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato (…) senza precisi vincoli di orari o di luogo di lavoro”, con una prestazione eseguita “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa” (art. 18, comma 1, L. n. 81/2017). Nella fase ante-emergenza, il lavoro agile era utilizzato in alternanza, di regola, all’esterno soltanto per uno o due giorni alla settimana.

Tale disciplina risulta applicabile, in modo espresso, anche al settore pubblico privatizzato (art. 18, comma 3, L. n. 81/2017), con alcune cautele per garantire il fisiologico adattamento alle diverse esigenze dell’assetto organizzativo della pubblica amministrazione. Risalta, qui come nel settore privato, l’assenza di qualsiasi richiamo (e ricorso) al contratto collettivo, nonostante lo spiraglio dell’art. 40, D.Lgs. n. 165/2001.

Per il prosieguo dell’analisi, va rilevato che la disciplina del lavoro a distanza, ex L. n. 81/2017, racchiude una coppia di obiettivi ben visibili nella trama legale. Primo, nel lavoro pubblico e privato, di “agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” dei dipendenti (art. 18, comma 1), con priorità per la cura dei figli piccoli o disabili (art. 18, comma 3 bis, aggiunto dall’art. 1, comma 486, L. n. 145/2018) e possibilità di prevedere il diritto al lifelong learning (art. 20, comma 2). Secondo, nel privato “di incrementare la competitività” (art. 18, comma 1) e nel pubblico “di razionalizzare l’organizzazione del lavoro e realizzare maggiori economie di gestione” (anticipato nell’art. 4, L. n. 191/1998); in entrambi i casi, con l’aspettativa di una riduzione dei costi dell’assenteismo, degli spazi lavorativi e, più in generale, di risparmi per il datore di lavoro (costi per luce, riscaldamento, connessione internet, missioni e trasferte, ecc.)[25] e per il lavoratore (costo e stress del raggiungimento del luogo di lavoro per qualche giorno al mese). Come svelano già le prime sperimentazioni, la doppia intentio menzionata dal legislatore potrebbe essere arricchita da quella di sostenibilità ambientale: in una realtà territoriale come quella italiana (vuoi di piccoli comuni montani, vuoi di metropoli), lo smart working potrebbe migliorare la mobilità, riducendo il traffico e l’inquinamento.

Così il lavoro agile alimenta grandi aspettative (specie nelle P.A.): se ben organizzato e gestito, potrebbe rendere diverso il rapporto di lavoro, migliorare il clima tra azienda e lavoratori, valorizzando il lavoratore come protagonista dell’innovazione in un’ottica di risultati specifici e misurabili e forse anche di partecipazione.

Nei primi tre anni di applicazione della normativa, tuttavia, resta del tutto sbiadita e sullo sfondo l’idea più innovativa veicolata dalla legge, specie se questa viene letta con gli occhiali del giurista tradizionale. La nuova sfida è quella di declinare in modo diverso il valore e la dimensione identitaria (e ambientale) della prestazione di lavoro agile, attribuendo un senso differente e plurimo alla sua “modalità di esecuzione”, passando dalla rilevanza dell’orario di lavoro e della presenza fisica in ufficio ad un approccio in termini di programmazione su obiettivi di lavoro cognitivo, professionalizzato e collaborativo, nel contesto di una trasformazione dell’organizzazione aziendale: in sintesi dalla azienda c.d. “orologio” a quella c.d. “organismo”[26]. Solo che tale idea presuppone un cambiamento non soltanto produttivo e tecnologico, ma pure strutturale (per colmare il digital divide e per formare il capitale umano) e soprattutto culturale (inclusa la dimensione psicologica), di manager consulenti, lavoratori e sindacati che ancora manca nella maggioranza delle aziende e delle amministrazioni pubbliche del nostro Paese.

Chi coltiva una prospettiva interdisciplinare, nel lavoro agile intravede – ma solo in controluce o nelle imprese più avanzate – bagliori di un cambio di prospettiva, con un ripensamento generale delle modalità di svolgimento e di organizzazione della prestazione lavorativa in termini di maggiore flessibilità, complessità, autonomia e quindi responsabilità/collaborazione del lavoratore.

  1. Smart working in Italia nella dimensione della quarta rivoluzione industriale

Ricostruito lo stato dell’arte ante-coronavirus, per inoltrarsi nell’attuale contesto è opportuna una mappatura del fitto susseguirsi (“a getto continuo”) e stratificarsi a-sistematico (a volte con sovrapposizioni, sostituzioni parziali, refusi e ambiguità lessicali) di frammenti di regolamentazione del lavoro agile, nel settore privato e pubblico, quale prima misura precauzionale e di prevenzione anti-contagio stabilita nei provvedimenti di emergenza per Covid-19, ribadita con forza nel Protocollo sicurezza e nelle linee guida dell’INAIL[27].

La ricognizione richiede una premessa – su finalità, caratteristiche e contesto normativo – che consenta di inquadrare la portata della nuova figura speciale di lavoro agile.

Al di là delle delicate questioni di rapporto tra le fonti, le disposizioni d’emergenza risultano tenute assieme da una doppia finalità pubblica di salute e di occupazione: favorire al massimo le attività lavorative “a distanza” (definite dapprima “in modalità domiciliare”, poi di “lavoro agile” o di “lavoro a distanza”), in forma massiva e continuativa (con una sub-specie di agilità temporanea, ma a tempo pieno, senza alternanza), ovunque sia possibile, e renderlo operativo in tempi rapidissimi. In questa direzione, il lavoro agile è individuato dal Governo-legislatore quale strumento, valido ed efficace, per tenere assieme due diritti costituzionali (salute nell’art. 32, lavoro nell’art. 4) dato che consente di conciliare la prosecuzione dell’attività lavorativa (nella propria abitazione) con il mantenimento della distanza fisica per il contenimento del contagio nei luoghi di lavoro.

Nel contesto patologico, diventano quindi del tutto prioritari i nuovi obiettivi non soltanto di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, ma anche di sostegno alla continuità dell’attività lavorativa – in deroga al factum principis[28] – che giustificano deroghe significative allo svolgimento del lavoro agile rispetto alla normativa del 2017. A partire dal suo elemento essenziale, costituito dall’accordo tra le parti, tanto da far dubitare del corretto utilizzo dell’aggettivo “agile” ad una modalità lavorativa unilateralmente imposta, quindi facilmente e rapidamente utilizzabile da casa, per effetto dell’esercizio dello jus variandi datoriale. Il lavoro agile presuppone, a monte, una trasformazione del modello organizzativo e, a valle, una modifica del tipo di cooperazione (o diligenza) nella prestazione di lavoro. E qui sta il vero cuore pulsante del c.d. change management.

Infine, tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi che citeremo rientrano nella cornice della dichiarazione dello “stato di emergenza” nazionale, deliberato dal D.P.C.M. 31 gennaio 2020 per la durata di sei mesi. Siamo quindi dentro ad un regime straordinario ed eccezionale di emergenza, della cui tenuta costituzionale si può discutere, ma non è questo l’ambito. L’attuale condizione è pacificamente riconducibile al significato inglese di “emergency“, quale particolare momento critico per far fronte ad una situazione imprevista di grave pericolo che richiede provvedimenti eccezionali e interventi immediati. Siamo, quindi, in presenza di un lavoro agile “d’emergenza” o “pandemico”, destinatario di regole eccezionali più volte estese nella loro durata sino a farle coincidere, in genere, con quella dello stato di emergenza (fino, nel momento in cui si scrive, al 31 luglio 2020). La stessa locuzione, tuttavia, veicola un significato ulteriore di “riemersione”, di produzione di effetti diversi che possono tracciare piste nuove per la ricostruzione e ridefinizione del lavoro e dei modi di (con)vivere.

  1. Definizione e principi dello smart working

Ciò premesso, la spinta iniziale all’utilizzo del lavoro non in presenza, quale prevenzione dell’ulteriore diffusione del virus, fa capolino nel D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 (convertito nella L. n. 13/2020), “recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19”, con il riferimento, rispettivamente, ad attività lavorative “che possono essere svolte in modalità domiciliare” e alle “specifiche deroghe, anche in ordine ai presupposti, ai limiti e alle modalità di svolgimento del lavoro agile” (art. 1, comma 2, lett. n, o). Le coeve disposizioni attuative, racchiuse nell’art. 3 (“Applicazione del lavoro agile”), D.P.C.M. 23 febbraio 2020, dispongono l’incerta applicabilità “in via automatica” e, allo spesso tempo, “provvisoria” “e anche in assenza degli accordi individuali” relativi alle modalità di lavoro agile, “ad ogni rapporto di lavoro subordinato”, nell’ambito dei Comuni sedi delle c.d. “zone rosse” di rischio, in via provvisoria, per soli “quattordici giorni” (art. 5). Due giorni dopo, il D.P.C.M. 25 febbraio (art. 2), specifica meglio la portata delle semplificazioni ed estende la previsione – sempre temporanea – (oltre alle c.d. “zone gialle”, anche) ai datori e lavoratori connessi con (gran parte del) le Regioni del nord Italia: Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Liguria, Veneto e Friuli Venezia Giulia.

Dopo una settimana, il D.P.C.M. 1° marzo (artt. 2, 4, comma 1, lett. a) amplia tale possibilità all’intero territorio nazionale, con una procedura semplificata di caricamento massivo delle comunicazioni, per la durata dello stato di emergenza, determinando un impulso, rapido e diffuso, all’utilizzo del lavoro a distanza. Il boom è assecondato e rinforzato da vari decreti amministrativi: quelli del 4 marzo (art. 1, comma 1, lett. n), 8 marzo (art. 2, comma 1, lett. r), 11 marzo 2020 (art. 1, comma 7, lett. a e 10), 22 marzo 2020 (art. 1, comma 1, lett. a, c), 25 marzo (art. 1, lett. ff), 10 aprile (art. 1, lett. gg e ii), infine 26 aprile (art. 1, lett. gg e ii). Alcune Regioni hanno previsto forme di incentivazione economica per micro, piccole e medie imprese, in particolare per l’acquisto delle attrezzature informatiche per agevolare la continuità dell’attività produttiva mediante modalità di lavoro agile[29].

Con un crescendo, si prevede la sospensione delle attività produttive e la raccomandazione per le attività produttive e professionali (sospese e non) di attuare “il massimo utilizzo (…) di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”. Nelle attività produttive ritenute essenziali (e quindi aperte), la modalità di lavoro agile è la preferita dato che il legislatore ne raccomanda il più ampio uso in tutti i contesti aziendali in cui ciò sia possibile; mentre in quelle attività produttive ritenute non essenziali (momentaneamente sospese), la modalità di lavoro agile è l’unica possibilità di prosecuzione dell’attività lavorativa. In tale fase, di c.d. lockdown, la regola di vita e di lavoro diviene, nel nome della salute, la limitazione della libertà di circolazione dei cittadini e della libertà di impresa.

Il ricorso al lavoro agile nelle Pubbliche amministrazioni – con una digitalizzazione dei processi di erogazione dei servizi per la collettività molto arretrata e in assenza di sperimentazione collettiva – arriva tardi, parte molto lento (e a macchia di leopardo, a seconda degli orientamenti di alcune amministrazioni), ma esplode a seguito dell’emergenza sanitaria, con una brusca “terapia d’urto” che potrebbe lasciare un significativo segno nell’organizzazione di gran parte del lavoro pubblico, se non peseranno troppo le modalità anomale dell’attuale ricorso sostanzialmente ad una forma di lavoro da casa, con le proprie tecnologie e connessioni.

Sulla scia dei citati provvedimenti, il ricorso al lavoro agile viene accelerato anche nel lavoro pubblico, con una rapida successione di atti normativi statali, con un crescendo (a partire dal cit. D.L. n. 6/2020) dell’ambito di applicazione e del favor per il lavoro a distanza[30]. La Ministra per la funzione pubblica dispone, dapprima con la (timida) Dir. n. 1 del 25 febbraio 2020, poi con quella (più decisa) n. 2 del 12 marzo (che sostituisce la precedente), aggiornata dalla Dir. n. 3 del 4 maggio 2020 un ulteriore rafforzamento del ricorso al lavoro agile, definito quale “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa” con l’obiettivo prioritario di includervi anche attività originariamente escluse per garantire la continuità dell’azione amministrativa.

Nella transizione fra la prima e la seconda fase – di graduale e lenta riapertura delle attività economiche sospese – il D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (convertito, con modd., nella L. 24 aprile 2020, n. 27), c.d. “Cura Italia”, interviene con disposizioni che, al momento, costituiscono lo sfondo normativo basico del lavoro agile pandemico nel settore privato e pubblico. Per un verso, l’art. 39 inserisce criteri per rafforzare, nel privato, il diritto o la precedenza di accesso per soggetti particolarmente fragili (v. oltre). Per altro verso, l’art. 87 (rubricato “Misure straordinarie in materia di lavoro agile …”) specifica che “il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni” (comma 1)[31]. Dato che per le P.A. non è prevista la sospensione dell’erogazione dei servizi, per il contenimento della situazione epidemiologica, il datore pubblico deve limitare la presenza dei dipendenti (e il loro spostamento) nei “luoghi di lavoro” come extrema ratio, esclusivamente per le attività che si ritengono “indifferibili” e che richiedono “necessariamente tale presenza” (anche solo per alcune giornate) in loco, anche in ragione della gestione dell’emergenza (lett. a); “prescindono dagli accordi individuali e dagli obblighi informativi previsti” dalla L. n. 81/2017 (lett. b).

Sempre per agevolare l’uso del lavoro a distanza – nonostante la L. n. 81/2017, non contempli in generale un obbligo del datore di fornire gli strumenti tecnologici – il comma 2 dell’art. 87, D.L. n. 18/2020, prevede che “la prestazione lavorativa in lavoro agile può essere svolta anche attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dall’amministrazione”; in tali casi, il datore di lavoro è esonerato dalla responsabilità della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici (di cui all’art. 18, comma 2, L. n. 81/2017). Infine le P.A. sono destinatarie di specifiche forme di accelerazione delle procedure di acquisto e di incentivazione economica per la fornitura di beni e servizi informatici e di servizi di connettività necessari per agevolare lo svolgimento del lavoro a distanza nel pubblico impiego (artt. 75 e 87 bis, D.L. n. 18/2020).

Al pari della normativa statale, le Regioni e le Province autonome hanno provveduto con propri atti regolamentari a promuovere il ricorso ordinario al lavoro agile, escludendo soltanto i dipendenti le cui mansioni sono strettamente correlate all’emergenza epidemiologica. Emerge, così, un nuovo modello normale di lavoro pubblico agile applicabile, come recita la norma, nell’ambito del perimetro dei pubblici impieghi, tracciato dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001. In teoria, la scommessa è azzeccata dato il tipo e la qualità del lavoro e dei servizi delle pubbliche amministrazioni; in pratica, la sua riuscita dipenderà da fattori strutturali e culturali, dai tempi, quantità e qualità del ricambio generazionale, nonché dagli investimenti in formazione continua a partire dal management pubblico.

Il D.P.C.M. 26 aprile 2020, nel disporre la riapertura di alcune attività, conferma: per le attività sospese la possibilità di “proseguire se organizzate in modalità a distanza o lavoro agile” (art. 2, comma 2); per i datori pubblici l’obbligo e per quelli privati la preferenza per la modalità di lavoro agile (“può essere applicata (…) a ogni rapporto di lavoro subordinato”) nelle forme di deroga ma nel rispetto dei principi della L. n. 81/2017 (art. 1, comma 1, lett. gg); “in ordine alle attività professionali si raccomanda che sia attuato il massimo utilizzo di modalità di lavoro agile” (art. 1, comma 1, lett. aa)[32].

Da ultimo, nella fase di progressiva riapertura è altamente probabile un utilizzo elevato del lavoro agile, anche per evitare la compresenza di tutti i lavoratori nelle sedi in cui riprende l’attività, pure nell’ottica di una rarefazione delle presenze, eventualmente limitate a pochi giorni alla settimana. Non sorprende, pertanto, che l’ultimo (per ora) mostruoso manufatto giuridico (più di 260 articoli e svariati allegati), D.L. 19 maggio 2020, n. 34, recante “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, si occupi ancora di lavoro agile. Nel complesso, tuttavia, l’art. 90, dedicato al “Lavoro agile” nel pubblico e nel privato, e l’art. 263, contenente “Disposizioni in materia di lavoro agile e per il personale delle pubbliche amministrazioni”, del decreto c.d. “Rilancio” sostanzialmente confermano le disposizioni “semplificate” del lavoro agile di cui al D.L. n. 18/2020 (conv. nella L. n. 27/2020) fino alla fine dell’emergenza e anche oltre nel lavoro pubblico (ma entro il 31 dicembre 2020).

Le mini-novità del D.L. n. 34/2020 riguardano l’aggiunta, nel settore privato, di nuove ipotesi di diritto all’agilità per alcune tipologie di lavoratori (art. 90: v. oltre), l’integrazione, nel settore pubblico, di disposizioni sulle modalità organizzative del lavoro e dell’erogazione dei servizi rispetto alle esigenze dei cittadini e delle imprese, rinviando anche ad ulteriori decreti del Ministro per la P.A. (art. 263).

A questa fitta rete normativa, occorre aggiungere la raccomandazione prevista nelle linee guida del “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVD-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 14 marzo 2020 e integrato il 24 aprile 2020, di avvalersi del lavoro dal proprio domicilio o a distanza ove possibile. Il legislatore pare attribuire rilievo a tale protocollo con l’allegazione al D.P.C.M. 26 aprile 2020. L’obbligo ivi previsto, di adottare e rispettare specifici protocolli di sicurezza anti-contagio, potrebbe costituire un modello per garantire la ripartenza in sicurezza delle attività produttive, inclusa l’enfasi ad utilizzare al massimo le modalità di lavoro agile e a ridurre la presenza nei luoghi di lavoro “anche in forma alternata (…) facendo ricorso a specifici piani di alternanza e/o di rotazione” (punti 8 e 22, capo VII, Protocollo).

La promozione del lavoro agile, come strategia aziendale di prevenzione e di precauzione sanitaria, traspare anche nel cit. documento tecnico n. 49/2020 dell’Inail sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro.

Infine, segnalo che la contrattazione collettiva, nella fase emergenziale, ha per lo più assecondato la traiettoria della semplificazione del lavoro agile o coltivato la mission quasi impossibile di distinguerlo dal telelavoro. In vista del ritorno alla nuova normalità l’autonomia collettiva, specie nei contratti aziendali, potrebbe far emergere fili diversi per tessere la cornice di un lavoro genuinamente agile, cioè sostenibile.

Volume consigliato

Note

[1] Manzella – Nespoli, Le parole del lavoro: un glossario internazionale/22- Agile o smart?, Bollettino Adapt, 2 febbraio 2016.

[2] Caruso, “The bright side of the moon”: politiche del lavoro personalizzate e promozione del welfare occupazionale, in Riv. it. dir. lav., 2016, I, 2, 177 ss.

[3] Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, 2017, 25.

[4] In proposito si ricorda che anche l’Accademia della Crusca – Gruppo Incipit, Accogliamo con piacere il “lavoro agile”, Firenze, 1° febbraio 2016, esprimendosi sul D.d.l. n. 2233, ha formulato un giudizio positivo sulla terminologia utilizzata, rispetto al termine straniero “smart working“.

[5] Dal Rapporto 2016 sullo smart working dell’Osservatorio Smart Working della School of management del Politecnico di Milano (www.osservatori.net), che ha elaborato la ricerca coinvolgendo 339 manager delle funzioni IT, HR e Facility, oltre a 1.004 lavoratori (in collaborazione con Doxa), sono emersi i seguenti dati: sono già 250 mila (circa il 7% del totale e il 40% in più rispetto al 2013) gli impiegati, i quadri e i dirigenti impegnati in progetti di lavoro agile. Inoltre, è emerso che lo smart woker “tipo” è un uomo nel 60% dei casi che ha un’età media di 41 anni e che risiede al Nord nel 52% dei casi, al Centro nel 38% e al Sud nel 10% dei casi. Inoltre, si rinvia ai dati emersi dallo studio ANPAL servizi S.p.a., Il lavoro agile o smart working nella legge 22 maggio 2017, n. 81, nella Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 1° giugno 2017, n. 3 e nella contrattazione collettiva, del 4 luglio 2017, finanziato dal Fondo Sociale Europeo Investiamo nel tuo Futuro.

[6] Corso, Smart Working, in Sacconi – Massagli (a cura di), Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0, ADAPT Labour Studies e-Book series, 2016, 60, 12.

[7] Troisi, Il comma 7, lettera f), della legge delega n. 183/2014: tra costruzione del Diritto del lavoro dell’era tecnlogica e liberalizzazione dei controlli a distanza sui lavoratori, in Rusciano – Zoppoli (a cura di), Jobs Act e contratti di lavoro dopo la legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, Collective Volumes, 2014, 3, 118.

[8] Bavaro, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato, Bari, 2008, in particolare cap. 1.

[9] Tullini, C’è lavoro sul web?, cit., 9. Cfr., inoltre, Voza, Il lavoro e le piattaforme digitali: the same old story, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, 2017, 336.

[10] Grandi, Nuove riflessioni sull’oggetto del contratto di lavoro, in Aa.Vv., Scritti in onore di Edoardo Ghera, Bari, 2008, 497 ss.; Napoli, Disciplina del mercato del lavoro ed esigenze formative, in Riv. giur. lav., 1997, 263 ss.; Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, Padova, 2002, passim; Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, Milano, 2004, passim.

[11] Fiorillo, Il lavoro agile: continua il processo di ridefinizione del Diritto del lavoro, in Fiorillo – Perulli (a cura di), Il jobs act del lavoro autonomo e del lavoro agile, cit., 171, secondo il quale “non ci troviamo di fronte a soluzioni che compromettono l’assetto garantista della materia, quanto, piuttosto, ad una sorta di limitazione dell’intervento protettivo”.

[12] Santoro Passarelli, Lavoro eterorganizzato, coordinato, agile e il telelavoro: un puzzle non facile da comporre in un’impresa in via di trasformazione, cit., 13.

[13] Proia, L’accordo individuale e le modalità di esecuzione e di cessazione della prestazione di lavoro agile, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Il jobs act del lavoro autonomo e del lavoro agile, cit., 179.

[14] Donini, Nuova flessibilità spazio-temporale e tecnologie: l’idea del lavoro agile, in Tullini (a cura di) Web e lavoro: profili evolutivi e di tutela, Torino, 2017, 82-84.

[15] Failla, Job Act autonomi e smart working: “specchio dell’evoluzione sociale”, in Quotidiano Ipsoa, 8 aprile 2017.

[16] Caruso, Tra lasciti e rovine della pandemia: più o meno smart working?, in corso di pubbl. In precedenza sulle traiettorie verso il futuro v. Id., Il lavoro digitale e tramite piattaforma: profili giuridici e di relazioni industriali. I lavoratori digitali nella prospettiva del Pilastro sociale europeo: tutele rimediali legali, giurisprudenziali e contrattuali, in Dir. rel. ind., 2019, 4, 1005.

[17] Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Milano, 2013, a conferma che la pandemia era largamente annunciata e del tutto prevedibile in un mondo “fuori controllo” e globalizzato.

[18] Per ora, l’emergenza non pare trasformarsi anche in crisi politica, ma se aumenta la percezione sociale che non si adottano opportune misure è probabile che quello sarà il passaggio successivo.

[19] Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino, 1998, 13.

[20] Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, 2017, 12. Molto stimolante anche la lettura di Baldwin, La grande convergenza. Tecnologia informatica, web e nuova globalizzazione, Bologna, 2018, 11.

[21] Garofalo (a cura di), La nuova frontiera del lavoro: autonomo – agile – occasionale, Adapt University Press, 2018, 345 ss.; Zilio Grandi – Biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, Padova, 2018, 461 ss.; Perulli – Fiorillo (a cura di), Il Jobs Act del lavoro autonomo e del lavoro agile, Torino, 2018, 165 ss. (ed ivi segnalo il contributo di Pessi – Fabozzi, Gli obblighi del datore di lavoro in materia di salute e sicurezza, 227); Verzaro (a cura di), Il lavoro agile nella disciplina legale, collettiva ed individuale. Stato dell’arte e proposte interpretative di un gruppo di giovani studiosi, Napoli, 2018. Cfr. inoltre Spinelli, Tecnologie digitali e lavoro agile, Bari, 2018; Signorini, Il diritto del lavoro nell’economia digitale, Torino, 2018; Occhino, Il lavoro e i suoi luoghi, Milano, 2018, 125 ss.; Ricci, La nuova disciplina del “lavoro agile”, in Nuove leggi civ., 2018, 3; Cairoli, Il lavoro agile, in G. Santoro Passarelli (a cura di), Omnia, Torino, in corso di pubbl.; nonché gli ulteriori contributi segnalati nelle prossime note. V. anche Dagnino – Menegotto – Pelusi – Tiraboschi, Guida pratica al lavoro agile dopo la legge n. 81/2107, Adapt University Press, 2017.

[22] Miscione, Diverse tipologie contrattuali, cit.

[23] Recchia, Lavoro agile e autonomia collettiva, in D. Garofalo (a cura di), op. cit., 380 ss.

[24] Cfr. VI Rapporto Adapt, La contrattazione collettiva in Italia (2019), cit.

[25] Garofalo, Produttività, efficienza e lavoro agile, in D. Garofalo (a cura di), La nuova frontiera del lavoro, cit., 399 ss.

[26] Butera, da ultimo, Organizzazione e società. Innovare le organizzazioni dell’Italia che vogliamo, Venezia, 2020,

[27]  Cfr. INAIL, Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione, approvato dal CTS nella seduta n. 49 del 9 aprile 2020, in https://www.inail.it/cs/internet/docs/alg-pubbl-rimodulazione-contenimento-covid19-sicurezza-lavoro.pdf.

[28] De Marinis, Obbligazione di lavoro ed emergenza epidemiologica, e L. Foglia, Emergenza lavoro e lavoro in emergenza, entrambi in A. Pileggi (a cura di), Il diritto del lavoro dell’emergenza epidemiologica, ed. LPO, e-book, 2020, rispettivamente 23, 28.

[29] Cfr., per es., la Delibera della Giunta Regionale Friuli Venezia Giulia 4 aprile 2020, n. 517 e avviso n. 5758 del 5 maggio 2020.

[30] Frediani, Il pubblico impiego in regime di coronavirus tra modifica d’imperio del luogo della prestazione e lavoro a domicilio, in Foro.it, 2020, 5, 511 ss.

[31] V. il monitoraggio del lavoro agile nelle P.A. in http://www.funzionepubblica.gov.it/lavoro-agile-e-covid-19/monitoraggio-lavoro-agile. Ivi anche le c.d. FAQ, le risposte alle domande frequenti per orientare l’uso del lavoro agile. Interessante il progetto Lavoro agile per il futuro della PA: v. il sito http://www.amministrazioneagile.it e la pagina Facebook https://www.facebook.com/lavoroagilePA/.

[32] Secondo un’indagine sui modelli organizzativi di oltre 3 mila realtà tra commercialisti, consulenti e avvocati, realizzata dell’Osservatorio del Politecnico di Milano e anticipata dal Sole 24-ore (11 maggio 2020, 13), il lavoro da remoto è utilizzato in 2 studi su 3, ma è poco strutturato.

Avv. Martina Liaci

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