Secondo i giudici europei, la direttiva 2004/18/CE deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella italiana, che limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione
A poche settimane di distanza dalla sentenza della Corte di Giustizia sulla disposizione di cui all’art. 105, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 (c.d. sentenza Vitali, 26 settembre 2019, causa C-63/18, commentata su questo sito in data 7 ottobre 2019), il subappalto torna a far parlare di sé, questa volta con una pronuncia dei giudici europei (c.d. sentenza Tedeschi, 27 novembre 2019, causa C-402/18) avente ad oggetto la versione della disciplina contenuta nel codice del 2006, all’art. 118, commi 2 e 4, anch’essa ritenuta non in linea con il diritto europeo degli appalti pubblici.
Tale decisione dell’Europea era molto attesa dagli operatori del settore, soprattutto a seguito della recente dichiarazione di illegittimità del limite generale e astratto – originariamente pari al 30% dell’importo del contratto e, di recente, aumentato al 40% dalla legge di conversione del decreto “sbloccacantieri” (l. 14 giugno 2019, n. 55 che ha convertito il d.l. 18 aprile 2019, n. 32) – fissato per il ricorso al subappalto dal nuovo codice dei contratti pubblici, che viene confermata anche nella nuova pronuncia della Corte di Giustizia (nella parte in cui esamina l’art. 118, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006).
Ma, con la c.d. sentenza Tedeschi, i giudici europei si spingono oltre quanto già affermato, contestando anche l’ulteriore limitazione imposta dal diritto italiano agli operatori economici, che non consente di ribassare i prezzi delle prestazioni subappaltate oltre il 20% rispetto a quelli praticati dall’aggiudicatario (art. 118, comma 4, d.lgs. n. 163 del 2006).
Valutate congiuntamente, la pronuncia di settembre 2019 e quella di novembre qui in commento indicano, quindi, in maniera chiara l’impostazione generale seguita dalla Corte di Giustizia in materia di subappalto, orientata a rimuovere qualsiasi misura restrittiva prevista dagli Stati membri, che – pur perseguendo obiettivi legittimi – non consenta di assicurare la massima apertura del mercato, e che dovrà essere valutata con attenzione dal legislatore italiano in sede di riscrittura della materia, ormai non più rinviabile.
Procedimento principale
Entrando nel dettaglio della sentenza del 27 novembre scorso, la questione interpretativa sottoposta all’attenzione dei giudici europei era stata sollevata dal Consiglio di Stato (ordinanza 11 giugno 2019, n. 3553, commentata su questo sito in data 18 giugno 2018) nell’ambito di una controversia riguardante l’impugnazione degli atti di una gara indetta dall’Università di Roma La Sapienza per l’affidamento di un appalto pubblico di servizi di pulizia.
All’esito della procedura, l’impresa seconda in graduatoria aveva proposto ricorso dinnanzi al T.a.r. per il Lazio avverso il provvedimento di aggiudicazione, sul presupposto che l’offerta prima classificata avesse violato il limite del 30% fissato dall’art. 118, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006 per l’individuazione della quota parte del contratto subappaltabile a terzi; e che, allo stesso tempo, le prestazioni lavorative subaffidate erano retribuite con corrispettivi ribassati di oltre il 20% rispetto a quelli praticati dall’aggiudicatario nei confronti dei propri dipendenti diretti, in aperto contrasto con quanto previsto dal successivo quarto comma del citato art. 118.
In primo grado, i giudici amministrativi avevano accolto le domande della ricorrente e, per l’effetto, annullato l’aggiudicazione e dichiarato l’inefficacia del contratto di appalto medio tempore stipulato (T.a.r. Lazio-Roma, sez. III, n. 12511 del 2017); in sede di appello, il Consiglio di Stato – dubitando della compatibilità delle limitazioni previste dalla normativa italiana in materia di subappalto con il diritto dell’Unione – ha, invece, sospeso il giudizio e chiesto alla Corte di Giustizia «se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 [TFUE], gli [articoli] 25 della [direttiva 2004/18] e 71 della [direttiva 2014/24], che non contemplano limitazioni per quanto concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare ai subappaltatori, nonché il principio [di diritto dell’Unione europea] di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’[articolo] 118 commi 2 e 4 del decreto legislativo [n. 163/2006], secondo la quale il subappalto non può superare la quota del [30%] dell’importo complessivo del contratto e l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un ribasso non superiore al [20%]».
Sul limite del trenta per cento
Con una motivazione analoga a quella contenuta nella c.d. sentenza Vitali – ampiamente richiamata anche nella pronuncia ora in commento – la Corte di Giustizia è giunta ad affermare la non compatibilità con il diritto europeo degli appalti pubblici neppure della disposizione di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006 che limita al 30% dell’importo complessivo del contratto, per i servizi e le forniture, e rispetto alla categoria prevalente, per i lavori, la parte delle prestazioni che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi (art. 118, comma 2).
Le ragioni sono ormai note: pur essendo riconosciuta alle amministrazioni aggiudicatrici la facoltà di limitare il ricorso ai subappaltatori dei quali non siano state in grado di verificare le capacità in sede di valutazione delle offerte, non risulta in linea con l’obiettivo di apertura del mercato perseguito dalle direttive europee del 2004 (e riproposto in quelle del 2014) una normativa, come quella italiana, che vieta in modo generale e astratto di subaffidare a terzi una parte dell’appalto che superi una determinata percentuale, indipendentemente dal settore economico interessato e senza che residui alcun margine di valutazione in capo alle stazioni appaltanti.
Secondo i giudici europei, anche a voler ammettere – come tenta di far valere anche in questa occasione il Governo italiano dinnanzi alla CGUE e il Consiglio di Stato nell’ordinanza di rimessione – che la restrizione quantitativa prevista in materia di subappalto sia idonea a contrastare il fenomeno della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici, rendendo meno appetibili le commesse per le organizzazioni criminali, essa non può comunque ritenersi proporzionata rispetto a tale obiettivo, non essendo consentito agli enti aggiudicatori di escluderne l’applicazione ove ritenuta non necessaria.
Sul limite del venti per cento
Come anticipato, la vera novità rispetto alla precedente pronuncia dei giudici europei, si incentra però sulla dichiarazione di non conformità con le direttive europee della disposizione che limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate oltre il 20% rispetto a quelli risultanti dall’aggiudicazione, prevista dall’art. 118, comma 4, d.lgs. n. 163 del 2006 (e oggi trasferita all’art. 105, comma 14, d.lgs. n. 50 del 2016).
Tale restrizione quantitativa è, infatti, da considerarsi idonea a rendere meno allettante la facoltà (riconosciuta dal diritto europeo) di ricorrere al subappalto per l’esecuzione dei contratti, poiché «limita l’eventuale vantaggio concorrenziale in termini di costi che i lavoratori impiegati nel contesto di un subappalto presentano per le imprese che intendono avvalersi di detta possibilità».
Anche in questo caso, ad essere contestata è la previsione di un limite generale e astratto che si impone in modo imperativo, indipendentemente da qualsiasi verifica della sua effettiva necessità e prescindendo dal settore economico di riferimento, per assicurare ai lavoratori del subappaltatore una tutela salariale minima, senza che siano tenuti in considerazione leggi, regolamenti e contratti collettivi vigenti in materia di condizioni di lavoro.
In detta prospettiva, lo schema argomentativo seguito dai giudici europei è pressoché il medesimo di quello utilizzato con riferimento al limite quantitativo del trenta per cento. Se, infatti, l’obiettivo della tutela dei lavoratori può – ad avviso della Corte – giustificare talune limitazioni al ricorso al subappalto, la restrizione del venti per cento di cui all’art. 118, comma 4, d.lgs. n. 163 del 2006 eccede tale finalità, esistendo nel diritto nazionale altre misure meno severe già dirette a garantire la tutela sociale nel mercato del lavoro e a consentire alle amministrazioni aggiudicatrici di verificare le capacità e l’affidabilità dei subappaltatori prima dell’esecuzione delle prestazioni.
Il limite del venti per cento previsto dalla normativa italiana non potrebbe giustificarsi neanche alla luce dell’esigenza di attuazione del principio di parità di trattamento, che potrebbe ritenersi sacrificato laddove la corresponsione di prezzi ridotti ai subappaltatori, senza variazioni nella remunerazione del contraente principale indicata nell’offerta, comportasse una riduzione dei costi per l’operatore economico e il conseguente aumento del profitto ricavato dall’appalto.
La mera circostanza che un offerente sia in grado di limitare i propri costi in ragione dei prezzi negoziati con i subappaltatori non è, infatti, di per sé idonea a determinare la violazione dei principi vigenti nel settore dei contratti pubblici, contribuendo piuttosto al raggiungimento di una concorrenza rafforzata.
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