1. Le obbligazioni pecuniarie: nozione
2. La distinzione tra debiti di valore e debiti di valuta
3. Ruolo e natura degli interessi nelle obbligazioni risarcitorie
1. Le obbligazioni pecuniarie: nozione
La sezione I del Capo VII (dedicato ad alcune specie di obbligazioni) del Titolo I, Libro IV, del Codice civile disciplina una peculiare specie di obbligazioni: le obbligazioni pecuniarie.
Queste, da taluni definite come una particolare tipologia di obbligazioni generiche[1], si caratterizzano per il fatto di avere ad oggetto una somma di denaro.
Esse sono diffusissime nell’esperienza economica in quanto il denaro, a differenza di altri beni, rappresenta uno strumento generale di acquisto, oltre che un mezzo per misurare il valore di beni e servizi.
Dunque, proprio l’oggetto di siffatte obbligazioni determina la necessità di disciplinarle con regole ad hoc.
- 1.1. Il principio della naturale fecondità del denaro.
Tipico delle obbligazioni pecuniarie è il principio della naturale fecondità del denaro.
Ai sensi dell’art. 1282 c.c., i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge – come accade, ad esempio, per i crediti relativi a fitti e pigioni, i quali producono interessi solo dopo la costituzione in mora – o dal titolo (si pensi, ad esempio, al mutuo gratuito).
Gli interessi anzidetti vengono comunemente qualificati corrispettivi, benché il Codice civile non li denomini espressamente, poiché rappresentano la normale remunerazione da doversi corrispondere in ragione della disponibilità del denaro altrui (funzione remuneratoria-compensativa degli interessi).
Tradizionalmente, la categoria degli interessi corrispettivi veniva contrapposta a quella degli interessi moratori, questi ultimi aventi funzione risarcitoria in quanto dovuti come liquidazione forfettaria del danno da ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie (art. 1224 c.c.)[2].
Il Codice civile, tuttavia, all’art. 1499 c.c., menziona – in materia di vendita – anche gli interessi compensativi. Nondimeno questa classe di interessi, secondo l’opinione maggioritaria, avrebbe dovuto essere inquadrata in una delle due categorie predette, a seconda del ruolo svolto di volta in volta.
Invero, la collocazione sistematica degli interessi compensativi ha da sempre infiammato il dibattito dottrinale.
Così, secondo altra dottrina, gli interessi compensativi dovrebbero essere accomunati a quelli corrispettivi, poiché sia gli interessi compensativi che quelli corrispettivi hanno la medesima funzione remuneratoria del godimento del denaro altrui.
Più recentemente, invece, è stato sostenuto che gli interessi compensativi rappresentano solo una parte degli interessi non moratori.
Essi sono dovuti, per ragioni equitative, per compensare il creditore del mancato godimento del prezzo quando la cosa sia stata consegnata, nonostante il prezzo non sia ancora esigibile; nonché per compensare il mancato godimento di somme risarcitorie o indennitarie, ancorché non liquidate.
In altri termini, gli interessi compensativi sono da corrispondersi quando non sussistono i caratteri della liquidità ed esigibilità della somma di denaro. In questo caso, infatti, non può trovare applicazione l’art. 1282 c.c. ma, nonostante ciò, è necessario compensare il vantaggio tratto dal debitore per il ritardato pagamento, come si desume dal combinato disposto di cui agli artt. 2056 e 1223 c.c.
Quanto alla fonte ed al saggio, inoltre, gli interessi si distinguono in legali e convenzionali.
I primi sono previsti dalla legge e la loro misura è stabilita annualmente dal Ministro del Tesoro con proprio decreto.
Gli interessi convenzionali sono quelli stabiliti dalle parti. La loro misura, se superiore a quella legale, deve essere determinata per iscritto ed, in caso contrario, sono dovuti nella misura legale.
- 1.2. Il principio nominalistico
Tra i principi specifici dettati in materia di obbligazioni pecuniarie si annovera, altresì, il principio nominalistico, secondo cui le obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al momento del pagamento e per il suo valore nominale (art. 1277 c.c.).
Secondo l’art. 1278 c.c. il principio nominalistico è previsto anche quando la somma dovuta sia determinata in una moneta non avente corso legale nello Stato poiché il debitore può pagare nella moneta legale, al corso del cambio nel giorno della scadenza dell’obbligazione e nel luogo in cui il pagamento debba avvenire, salva la possibilità di apporre la clausola “effettivo” o altra equivalente (art. 1279 c.c.).
Invero, è discussa la possibilità di estinguere un debito pecuniario utilizzando mezzi di pagamento diversi dal denaro (ad esempio, assegni bancari o vaglia postali). Tuttavia – mentre secondo la tesi tradizionale tale opportunità doveva essere inquadrata nell’ambito della cd. datio in solutum (art. 1197 c.c.), che richiede il consenso del creditore ai fini dell’effetto liberatorio – oggi la giurisprudenza di legittimità ritiene che il rifiuto del creditore a ricevere il pagamento con mezzi di pagamento diversi dal denaro diffusi nella prassi commerciale deve ritenersi contrario a buona fede, salva la circostanza che l’effetto liberatorio consegue all’incasso.
Ad ogni modo, il principio nominalistico è finalizzato alla tutela delle parti dalle situazioni di incertezza derivanti dall’oscillazione della moneta.
Se la moneta si apprezza il creditore avrà diritto ad una somma di denaro che avrà un valore reale maggiore; in caso contrario – che è invero quello che maggiormente si verifica nella pratica – la moneta si svaluta, ma il debitore sarà tenuto a corrispondere la medesima somma originariamente pattuita anche se il suo valore reale sia diminuito.
Alle parti, però, è consentito derogare convenzionalmente al principio nominalistico attraverso diversi meccanismi, i più diffusi dei quali sono le cd. clausole oro, le clausole valuta estera e le clausole ISTAT. In questi casi, la somma dovuta sarà rivalutata con riferimento al prezzo dell’oro o della moneta forte cui si è fatto rifermento oppure alle variazioni dei prezzi dei beni di consumo e dei servizi.
D’altro canto, vi sono crediti pecuniari che, per scelta legislativa, sono sottratti al principio nominalistico. Il riferimento è, in primis, ai crediti di lavoro (art. 429 c.p.c.) o ancora, ad esempio, all’assegno di divorzio (art. 5 L. 898/1970).
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2. La distinzione tra debiti di valore e debiti di valuta
Tra i temperamenti alla rigidità del principio nominalistico può menzionarsi, inoltre, la distinzione – di matrice prettamente giurisprudenziale – tra debiti di valuta e debiti di valore.
I debiti sono di valuta se hanno ad oggetto, fin dall’inizio, una somma di denaro liquida o facilmente determinabile attraverso un’operazione aritmetica. A questi debiti si applica il principio nominalistico.
Invece, i debiti di valore sono quelli che non hanno ad oggetto, ab origine, una somma liquida o agevolmente liquidabile poiché rappresentano il succedaneo di un altro bene.
Il debito è ancorato al valore del bene e, pertanto, non subisce gli effetti derivanti dall’applicazione del principio nominalistico.
Non sempre è agevole distinguere quando si tratti di un debito di valuta o di valore e sarebbe preferibile svolgere tale valutazione caso per caso.
Tuttavia, vi è sufficiente concordanza sul fatto che si possano ritenere debiti di valore i conguagli, le obbligazioni indennitarie e quelle risarcitorie, queste ultime specifico oggetto della presente disamina.
La ragione della qualificazione prospettata risiede nel fatto che il risarcimento e, mutatis mutandis, l’indennizzo ed il conguaglio mirano a reintegrare in modo completo il patrimonio del danneggiato o del condividente della perdita subita o a livellare situazioni contabili sperequate. Di conseguenza, in queste fattispecie non può non tenersi in cale il reale valore di acquisto del denaro.
In particolare, il danneggiato deve essere messo in grado di procurarsi nuovamente lo stesso bene all’attuale valore di mercato o, comunque, di ritornare nella disponibilità di una somma equivalente di denaro.
Recente giurisprudenza di legittimità conferma tale impostazione affermando che l’obbligazione indennitaria della compagnia assicuratrice nei confronti dell’assicurato-danneggiato costituisce, di regola, un debito di valore dal momento della sua insorgenza, avvenuta al verificarsi del sinistro, fino alla liquidazione e, pertanto, solo da questo momento è assoggettata al principio nominalistico.
Siffatta qualificazione non è esclusa nemmeno dalla previsione di un massimale, in quanto quest’ultimo non rappresenta l’ammontare determinato ab origine del debito dell’assicurazione, limitandone bensì soltanto il tetto massimo.
Al contrario, qualora ad esempio sia assicurato un capitale fisso, a fronte della morte o dell’invalidità permanente dell’assicurato, l’obbligazione indennitaria dell’assicuratore potrebbe ragionevolmente essere qualificata quale debito di valuta.
Orbene, poiché l’esperienza insegna che sia molto improbabile che le obbligazioni risarcitorie o indennitarie vengano adempiute immediatamente, atteso che di solito intercorre un certo lasso di tempo tra il momento in cui sorge l’obbligazione e quello in cui essa viene adempiuta, ne deriva la necessità di attualizzare l’oggetto della prestazione attraverso la cd. taxatio, che generalmente avviene facendo riferimento agli indici ISTAT del costo della vita.
La rivalutazione monetaria non costituisce, pertanto, una autonoma categoria giuridica, ma rappresenta una mera operazione di calcolo finalizzata ad aggiornare la somma necessaria ad estinguere il debito risarcitorio.
Essa, peraltro, non coincide né con il maggior danno da mora derivante dalla svalutazione monetaria rispetto a quello coperto dagli interessi legali, a mente del secondo comma dell’art. 1224 c.c., né con il mancato guadagno.
D’altronde, una storica, ancorché risalente, pronuncia della Corte di Cassazione aveva già affermato la compatibilità della rivalutazione monetaria e del pagamento degli interessi nelle obbligazioni risarcitorie in quanto la prima corrisponderebbe al danno emergente; mentre gli interessi, da qualificarsi come compensativi, avrebbero lo scopo di risarcire il lucro cessante[3].
3. Ruolo e natura degli interessi nelle obbligazioni risarcitorie
Recentemente, ribadendo posizioni espresse nella citata sentenza, la Corte di Cassazione si è espressa ancora più chiaramente sul ruolo e sulla natura degli interessi nel caso di debiti di valore, quali sono le obbligazioni risarcitorie[4].
La Corte – prendendo le mosse dalla correlazione degli interessi compensativi al lucro cessante – finisce per ancorarli strettamente ai debiti di valore, fondando il suo ragionamento sulla distinzione tra la nozione di mora e quella di ritardo.
Gli interessi compensativi rappresentano una modalità di liquidazione del lucro cessante derivante dal mancato godimento del denaro dal momento dell’insorgenza del debito di valore, ove la sola rivalutazione monetaria (che pertiene al danno emergente) non sia in grado di ripristinare lo status quo ante in capo al creditore.
Tale mancato godimento deriva dal semplice ritardo nella percezione della somma di denaro, ritardo soggettivamente non imputabile al debitore, ma considerato in modo oggettivo.
L’argomento a sostegno di tale assunto si rinviene nell’art. 1218 c.c., il quale prende in considerazione il ritardo in sé per sé, senza che ad esso si riconnettano le conseguenze dettate dalla mora (art. 1219 c.c.), ovverosia gli effetti della mora sul rischio (art. 1221 c.c.) e le ricadute risarcitorie previste dall’art. 1224 c.c.
Dal mero ritardo ex art. 1218 c.c., insomma, discende soltanto l’obbligo di pagare gli interessi compensativi, a seguito della dimostrazione – anche a mezzo di presunzioni semplici– di un impiego maggiormente remunerativo del denaro ove immediatamente corrisposto.
Alla luce di una simile ricostruzione, le tre species di interessi acquistano delle caratteristiche intrinseche che valgono a distinguerli gli uni dagli altri.
Gli interessi corrispettivi derivano da crediti liquidi ed esigibili; gli interessi moratori hanno funzione risarcitoria; gli interessi compensativi hanno lo scopo di bilanciare il danno (che abbia la natura di lucro cessante) derivante dal mancato godimento del denaro causato dal ritardo, oggettivo e non imputabile al debitore, nel pagamento della somma dovuta.
Poi, essendo gli interessi compensativi, non facilmente dimostrabili nel loro preciso ammontare possono essere liquidati in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c.
Questa tipologia di interessi, inoltre, si caratterizza per non essere necessariamente accessori all’obbligazione pecuniaria, ben potendo accadere che la sola rivalutazione monetaria copra interamente il danno subito, concretandosi questo nella sola voce del danno emergente.
Ne discende che gli interessi compensativi non sono dovuti automaticamente, ma solo se il lucro cessante sussista, sia dimostrato e la corresponsione di siffatti interessi sia richiesta; nonché se la disciplina codicistica non preveda già il risarcimento della voce di danno attinente al lucro cessante[5].
Così avviene, ad esempio, nell’ipotesi di mora del debitore nella quale, dal giorno della mora, sono dovuti non solo gli interessi moratori (art. 1224, 1° co., c.c.), ma anche il risarcimento ulteriore per il maggior danno (art. 1224, 2° co., c.c.).
Parimenti, gli interessi compensativi non sono dovuti se spettino quelli corrispettivi per crediti liquidi ed esigibili, espressione della generale remuneratività del denaro.
In definitiva, la valorizzazione di un quid pluris riferito ad ognuno dei tre diversi tipi di interessi permette di evitare ingiustificate duplicazioni delle voci di danno e, correlativamente, locupletazioni eccedenti rispetto al danno subito.
Note
[1] C.M. Bianca, Diritto civile. IV. L’obbligazione, Milano, 2009, p. 143.
[2] C.M. Bianca, cit., p. 340.
[3] Cass. civ., sez. un., 17 febbraio 1995, n. 1712.
[4] Cass. civ, sez. III, 12 febbraio 2008, n. 3268.
[5] F. Del Grosso, in Nuova giur. civ., 2008, 9, 11014.
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