1. LE NORMATIVE COSTITUZIONALI, EUROPEE ED INTERNAZIONALI SULLA TUTELA
NOTA: Le opinioni qui espresse non sono espressione ufficiale del Nucleo di Valutazione degli Investimenti Pubblici del MIBACT, di cui il sottoscritto è esperto legale, ma di squisita natura personale.
Prima di affrontare nello specifico il tema della tutela, e della sua programmazione e finanziamento a mezzo del D.Lgs in intitolazione, necessita fare preliminarmente un sintetico excursus delle normative sovraordinate, costituzionali, europee ed internazionali sul tema.
L’art. 9 della Costituzione prevede che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura nonché tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione[i].
Lo Stato ha legislazione esclusiva nel settore della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, a norma dell’art. 117 comma 2 punto s) della Costituzione.
Lo stesso articolo indica quale oggetto di legislazione concorrente la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, la promozione e la organizzazione di attività culturali.
Insieme alla Costituzione vi sono, anche, una serie di trattati e convenzioni internazionali che assumono lo stesso valore di una norma di rango costituzionale in forza di una previsione della Costituzione della Repubblica.
Ragione di tale sovraordinazione sta nell’art.11 della Costituzione che prevede, infatti, che l’Italia consenta (…) alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Inoltre, per come noto, il diritto unionale (già comunitario) prevale rispetto a quello nazionale in ossequio al principio del primato del diritto europeo[ii].
Si citeranno, dunque, di seguito e sinteticamente, articolati di Trattati europei e Convenzioni europee ed internazionali che in forza di tale previsione dell’art. 11 assumono valore di norma costituzionale.
Gli obblighi di tutela enunciati in tali normative sovraordinate prevalgono per i motivi sopra esposti sulle normative nazionali e per quel che interessa ai fini di questo scritto sulle previsioni, ove contrastanti, (di seguito esaminate) del D.Lgs 228/11 qui in trattazione.
Con riferimento alle norme dell’Unione Europea, si premette che risulta difficile affermare l’esistenza di una vera e propria politica comune del’Unione Europea in questo ambito causa la scarsità di competenze che i trattati, anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, attribuiscono all’Unione.
Tale constatazione non nuoce, peraltro, alla possibilità di individuare un concreto rilievo del termine in questione non solo nell’esperienza comunitaria in generale, ma anche sul piano della disciplina giuridica dell’ordinamento dell’Unione.
L’art. 3 punto 3 del Trattato dell’Unione Europea prevede che l’Unione “vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo”.
L’articolo 6 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea dispone che l’Unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri, tra gli altri, nel settore (punto c) della cultura.
L’art. 36 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea fa riferimento (in un contesto relativo al divieto di restrizioni quantitative tra gli Stati membri) alla protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale.
Lo stesso TFUE prevede all’art. 107 comma 3 punto d) che possono considerarsi compatibili con il mercato interno gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell’Unione in misura contraria all’interesse comune.
Tale norma prevede quindi una deroga discrezionale al generale divieto degli aiuti di Stato che presuppone una valutazione della Commissione sui singoli finanziamenti nazionali alle attività culturali, al fine di verificare se alterino la concorrenza. L’esecutivo europeo ha chiarito che gli aiuti devono rispettare il principio di legalità ed essere conformi con le norme del Trattato ed ha precisato che devono essere destinati a un prodotto culturale in senso stretto[iii]. La definizione di cultura e prodotto culturale spetta agli Stati Membri dato il carattere sussidiario della competenza che l’Unione ha in quest’ambito.
Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea all’art. 167, 2 comma, prevede che l’azione dell’Unione è intesa ad incoraggiare la cooperazione tra stati membri e, se necessario, ad appoggiare ed integrare l’azione di questi ultimi, tra gli altri, nei settori del miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei e della conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea (…)[iv].
La Convenzione culturale europea è stata firmata a Parigi, il 19 dicembre 1954 ed è entrata in vigore il 5 maggio 1955.
La Convenzione tratta la nozione di patrimonio culturale comune dell’Europa (art. 1) che verrà successivamente ripresa da altre convenzioni. Fanno parte del “patrimonio culturale” i beni che ogni Stato Contraente considererà di valore culturale europeo e per i quali prenderà misure necessarie a salvaguardarli e ne faciliterà l’accesso (art. 5).
La Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico, aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa, a Londra, il 6 maggio 1969, è entrata in vigore il 20 novembre 1970. Il preambolo parla dell’importanza del patrimonio archeologico in quanto elemento essenziale per la conoscenza del passato della civiltà e si prevede come la responsabilità della sua protezione incomba non solo allo Stato direttamente interessato ma anche all’insieme dei paesi europei. Finalità della Convenzione è la protezione del patrimonio archeologico in quanto fonte di memoria collettiva europea e strumento di studio storico e scientifico (art. 1, par. 1).
Ogni Stato parte si impegna, inoltre, ad adottare un sistema giuridico per la protezione del patrimonio archeologico (art. 2), alla conservazione integrata del patrimonio archeologico, realizzabile attraverso una collaborazione tra archeologi, urbanisti e responsabili del riassetto del territorio (art. 5). Per il finanziamento della ricerca e la conservazione archeologica le parti s’impegnano a prevedere un sostegno finanziario (art. 6).
La Convenzione europea del paesaggio, adottata il 19 luglio 2000 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, aperta alle firme il 20 ottobre 2000 a Firenze, è entrata in vigore il 1° marzo 2004.
La Convenzione europea del paesaggio si prefigge lo scopo di promuovere la salvaguardia, la gestione e la pianificazione dei paesaggi e di organizzare la cooperazione europea in questo ambito (art. 3). Gli Stati che ratificano la Convenzione devono impegnarsi a riconoscere giuridicamente il paesaggio, a stabilire politiche volte alla sua protezione e pianificazione, avviare procedure di partecipazione del pubblico e delle autorità regionali e locali nella realizzazione di tali politiche e ad integrare il paesaggio nelle politiche che possano avere un’ incidenza diretta o indiretta su di esso (art. 5).
La Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la società, più comunemente detta Convenzione di Faro è entrata in vigore il 1 giugno 2011. Essa ha come scopo il riconoscimento del valore che per la società hanno il patrimonio culturale e la cultura visti come realtà dinamiche, risultanti dagli scambi tra le creazioni dell’uomo trasmesse nel passato e quelle che l’umanità trasmetterà nel futuro. La Convenzione affronta la dimensione sociale del patrimonio spostandosi dal diritto del patrimonio, inteso come la definizione delle modalità della sua conservazione, al diritto al patrimonio, affrontando le ragioni e i modi della sua valorizzazione.
La conservazione del patrimonio culturale non è fine a se stessa, ne è solamente in relazione con il suo valore intrinseco, scientifico o estetico ma ha come obiettivo lo sviluppo umano e la qualità di vita (art.1, lett. c).
Il patrimonio culturale secondo la Convenzione quadro è un insieme di risorse ereditate del passato, identificate come espressione dei valori, credenze, conoscenze e tradizioni di una comunità patrimoniale (art. 2 lett. b) che sono in constante evoluzione (art. 2, lett. a).
La definizione di patrimonio culturale data nella Convenzione, la più ampia tra quelle proposte dai vari strumenti internazionali tiene conto anche della dimensione ambientale[v], includendo nel patrimonio culturale tutti gli aspetti dell’ambiente derivati dall’interazione tra persone e luoghi nel tempo (art. 2, lett. b).
La Convenzione UNESCO del 1972 contempla quale oggetto della propria disciplina, la protezione del patrimonio culturale e del patrimonio naturale di valore universale eccezionale. Questi vengono definiti all’art. 1 e all’art. 2 della Convenzione. Sono considerati patrimonio culturale i monumenti, gli agglomerati, i siti e, dal 1992, i paesaggi culturali. Costituiscono viceversa il patrimonio naturale, a norma dell’art. 2, i monumenti naturali, le formazioni geologiche e fisiografiche e zone strettamente delimitate costituenti l’habitat di specie animali e vegetali minacciate, i siti naturali.
L’art. 4 della Convenzione sancisce che spetta allo Stato l’obbligo di assicurare l’identificazione, la tutela, la conservazione e la trasmissione alle future generazioni dei beni presenti nel proprio territorio che corrispondano alle caratteristiche di cui agli artt. 1 e 2.
La Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile è il primo strumento multilaterale che vincola gli Stati aderenti alla salvaguardia del patrimonio culturale intangibile. Approvata il 17 ottobre 2003 dalla Conferenza Generale dell’UNESCO, è entrata in vigore il 30 aprile 2006.
La Convenzione dell’UNESCO del 20 ottobre 2005 ha come oggetto la protezione e la promozione della diversità culturale. Essa è entrata in vigore il 18 marzo 2007 ed è oggi in vigore tra 115 Stati inclusa l’Italia che l’ha ratificata con la legge 19 febbraio 2007, n. 19[vi].
L’art. 4 della convenzione, definisce “attività, beni e servizi culturali” come quei beni o servizi che “…incarnano o trasmettono delle espressioni culturali indipendentemente dal loro eventuale valore commerciale”.
Da ultimo la Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale il 25 settembre 2015 “Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”, al punto 11.4, prevede di “Potenziare gli sforzi per proteggere e salvaguardare il patrimonio culturale e naturale del mondo”.
Ritornando agli strumenti normativi unionali resta da evidenziare che il regolamento (CE) n. 116/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativo all’esportazione dei beni culturali, prevede che l’autorizzazione possa essere negata qualora i beni culturali siano già tutelati da una normativa che tutela il “patrimonio nazionale avente valore artistico, storico e archeologico nello Stato membro di cui trattasi” (art. 2, par. 2, 3° comma).
Finito il sintetico excursus sulle normative di tutela sovraordinate[vii], iniziamo l’esame dell’impianto ordinamentale nazionale in materia.
L’articolo 1, comma 2, del Codice dei Beni Culturali (Dlgs 22 gennaio 2004, n. 42 e smi) prevede che la tutela concorra insieme alla valorizzazione[viii] a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura[ix].
Da qui, dalla memoria della comunità nazionale[x], iniziamo ad esaminare la legislazione nazionale in materia e la sua bipolarità ondeggiante tra tutela e valorizzazione.
2. PRINCIPI DELLA TUTELA E NASCITA DEL CONCETTO DI VALORIZZAZIONE COME GENUS INDIPENDENTE DALLA TUTELA
Si diceva del comma 2 dell’art.1 del Codice (D.Lgs 42/04) che mette al centro della funzione di tutela la memoria della comunità nazionale.
La norma attribuisce le competenze di tutela e valorizzazione prevedendo che in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale in coerenza con le attribuzioni di cui all’articolo 117 della Costituzione e secondo le disposizioni dello stesso Codice dei Beni Culturali (art.1 c.1)
Ancora dispone che lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni assicurano e sostengono la conservazione del patrimonio (art.1 c.3)
Anche gli altri soggetti pubblici, nello svolgimento della loro attività, devono assicurare la conservazione e la pubblica fruizione del loro patrimonio culturale (art.1 c.4).
Si riprende il concetto della funzione sociale del patrimonio privato affermando che i privati proprietari, possessori o detentori di beni appartenenti al patrimonio culturale, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti[xi], sono tenuti a garantirne la conservazione (art.1 c.5).
Tale comma circoscrive il perimetro dei compiti dei privati obbligati esclusivamente a garantire la conservazione dei beni di cui abbiano la disponibilità[xii].
Il 6 comma dell’art.1 costituisce normativa residuale e di salvaguardia rispetto al nuovo impianto eterogeneo ripartito in tutela, conservazione, fruizione e valorizzazione. Esso prevede che le attività concernenti la conservazione, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale sono svolte in conformità alla normativa di tutela, riportando dunque ad unità gli istituti nella primazia della tutela rispetto alle altre funzioni.
L’art.3 del Codice procede alla tipizzazione del concetto di tutela[xiii]. La tutela consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione.
Dunque, la funzione della tutela viene a strutturarsi dal punto di vista logico in una preliminare attività conoscitiva tanto di tipo scientifico che di ricerca territoriale e non territoriale (ad esempio nel settore del patrimonio intangibile) finalizzata alla individuazione dei beni culturali. La conseguenza obbligata di tale attività scientifica è la concretizzazione degli obblighi costituzionali di protezione e conservazione. Il tutto avente poi come fine la fruizione pubblica, finalità che abbraccia tanto l’attività della conoscenza che la protezione e conservazione.
Al secondo comma si precisa che l’esercizio delle funzioni di tutela si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale.
Nell’articolo 3 viene, pertanto, enunciato il principio, di cui tra breve tratteremo più diffusamente, che vede nella tutela un’attività di tutela bipolare. Una, rivolta ad una funzione autoritativa finalizzata a regolare i comportamenti individuali, di gruppi o istituzioni. Un’altra, destinata all’ottemperamento degli obblighi conservativi.
Si prevede che al fine di garantire l’esercizio unitario delle funzioni di tutela, ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione, le funzioni stesse sono attribuite al Ministero per i beni e le attività culturali, che le esercita direttamente o ne può conferire l’esercizio alle regioni, tramite forme di intesa e coordinamento in materia di cooperazione delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia di tutela del patrimonio culturale (art.4 c.1)[xiv]. Sono fatte salve le funzioni gia’ conferite alle regioni (art. 5 c. 6).
Il Ministero esercita, per gli effetti del comma 2 dello stesso articolo, le funzioni di tutela sui beni culturali di appartenenza statale anche se in consegna o in uso ad amministrazioni o soggetti diversi dal Ministero. Viene pertanto fissato il principio del controllo e della vigilanza (oltre che della responsabilità in vigilando). Correlativamente il Ministero, a norma del comma 7 dell’articolo 5 relativamente alle funzioni esercitate dalle regioni, esercita le potestà di indirizzo e di vigilanza e il potere sostitutivo in caso di perdurante inerzia o inadempienza.
Le regioni, nonchè i comuni, le città metropolitane e le province cooperano con il Ministero nell’esercizio delle funzioni di tutela.
Viene resa possibile una specifica funzione di tutela alle regioni sulla base di specifici accordi od intese e previo parere della “Conferenza Stato-regioni”, le regioni possono esercitare le funzioni di tutela su manoscritti, autografi, carteggi, incunaboli, raccolte librarie, libri, stampe e incisioni, carte geografiche, spartiti musicali, fotografie, pellicole o altro materiale audiovisivo, con relativi negativi e matrici, non appartenenti allo Stato (art.5 c.2)
Sulla base dei principi di differenziazione ed adeguatezza, possono essere individuate ulteriori forme di coordinamento in materia di tutela con le regioni che ne facciano richiesta. Gli accordi o le intese possono prevedere particolari forme di cooperazione con gli altri enti pubblici territoriali.
Le funzioni amministrative di tutela dei beni paesaggistici sono esercitate dallo Stato e dalle regioni in modo che sia sempre assicurato un livello di governo unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite.
Infatti, in deroga al principio di sussidiarietà verticale[xv], la tutela viene esercitata a livello statale nel punto più distante dal luogo in cui è destinata a incidere la misura autoritativa per assicurare uno standard minimo comune nell’esercizio della tutela affidato alle Soprintendenze.
La tutela del patrimonio culturale comprende sia le attività amministrative e di regolazione, sia gli interventi operativi di conservazione e di difesa del patrimonio culturale. Ovvero consiste, per garantire la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione del patrimonio, anche nelle attività tese a progettare, realizzare e consegnare alla pubblica fruizione interventi di protezione, conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale.
In particolare a norma degli art.29-44 del D.Lgs 42/04 la tutela comporta misure di studio, prevenzione, manutenzione e restauro dirette a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto[xvi].
Altra parte costitutiva la tutela è l’espropriazione di beni culturali a norma della quale i beni culturali immobili e mobili possono essere espropriati per causa di pubblica utilità, quando l’espropriazione risponda ad un importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni medesimi (art.95).
La funzione di tutela può essere esercitata ovvero progettando interventi di acquisizione/esproprio di beni culturali, insieme al restauro e manutenzione conservativa degli stessi.
La tutela dei beni paesaggistici comprende le attività di pianificazione, di salvaguardia e di integrazione dei valori del paesaggio nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile. Lo Stato (Ministero) ha quindi l’esclusiva titolarità della tutela che esercita con tre modalità:
- direttamente
- conferendone l’esercizio alle regioni
- con forme di cooperazione con Comuni, Province, Città
L’idea della valorizzazione del bene culturale è un’idea nuova[xvii]. Essa è intesa in due modi: quale potenziamento dell’espressione del valore culturale del bene o come criterio di gestione dell’istituto della cultura capace di autofinanziarsi secondo canoni di efficienza-efficacia economicità.
Il termine “valorizzazione dei beni culturali” è stato poi introdotto in un testo normativo concernente il conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali (d.lgs 31 marzo 1998, n. 112 in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59[xviii]).
L’articolo 148, comma 1 lettera e) del Dlgs 112/98 stabilisce che la «valorizzazione» è “ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali e ad incrementarne la fruizione”[xix].
La Valorizzazione è divenuta di fatto l’attività non autoritativa esercitata dalle regioni[xx], ad esse attribuita poi, dalla riforma del Titolo V, con l’articolo 117 della Costituzione, che indica quale ambito di legislazione concorrente la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali.
La Tutela è diventata, invece, la conformazione autoritativa della proprietà e un limite alla libertà d’uso del bene, mentre la valorizzazione corrispondeva all’erogazione di sussidi e incentivi[xxi] (tra essi quelli comunitari dei fondi strutturali).
Ovvero, la tutela si manifesta attraverso atti limitativi della sfera giuridica dei soggetti (vincoli, acquisizioni coattive, espropriazioni, assoggettamento a regimi autorizzatori di attività su beni culturali), mentre la valorizzazione si attua attraverso forme di sovvenzioni o di erogazione di utilità e di prestazione di servizi.
3. LA DIVARICAZIONE TRA TUTELA E VALORIZZAZIONE NEL DLGS 42/2004 – IL PONTE NEGOZIALE
La “valorizzazione” “consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere le conoscenze e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso (art.6).
Dal punto di vista sistematico le norme sulla valorizzazione, dopo la definizione di cui all’art. 6, vengono dal legislatore poste al “Capo II Principi della valorizzazione dei beni culturali del Codice dei Beni Culturali” (dall’art.111 all’art.121 del Codice), distinguendole dalle norme sulla tutela.
La conservazione[xxii], che prima del Dlgs 42 apparteneva anche alla valorizzazione, sia pur come “miglioramento delle condizioni di conservazione” del bene, passa più coerentemente, alla tutela[xxiii].
A sorpresa, però, la Conferenza Unificata Stato-Regioni, Città ed Autonomie locali del 10 dicembre 2003, aggiunse, però, nel secondo periodo del comma 1 dell’articolo 6, che la valorizzazione comprende anche la promozione ed il “sostegno degli interventi di conservazione”: “Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale”.
Va detto che tale dispositivo mirava soprattutto a non precludere gli interventi di restauro finanziati agli enti territoriali e regionali dai fondi strutturali europei, nonché a chiarire che, ad esempio, i finanziamenti concessi da mecenati sponsor o da una ex Fondazione bancaria (articoli 121 e 120 del codice), pur relativi all’ambito della valorizzazione ben possono riguardare interventi di conservazione[xxiv].
Tale aggiunta però ha determinato una significativa confusione[xxv], poiché, ad esempio, se il sostegno della conservazione è anche valorizzazione, allora, le norme sugli interventi finanziari del Ministero, a sussidio degli oneri per le spese degli interventi conservativi sostenuti dai proprietari, possessori o detentori di beni culturali (non statali), previsti dagli articoli 34 e ss. del codice, sono tutela o sono (anche) valorizzazione? E l’articolo 113 del codice (valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata) può comprendere anche benefici pubblici di sostegno a interventi conservativi (che sono di tutela)?
Ovvero tutte le erogazioni di sussidi o incentivi sono tutti di interventi di valorizzazione o possono essere distinti tali interventi finanziati per finalità di conservazione?
La confusione però aumenta considerando che al sopraccitato concetto di valorizzazione” come “funzione” oggetto di “esercizio” si sovrappone una diversa accezione del termine, come svolgimento di “attività” e di cui all’articolo 111 del Dlgs 42.
Esso fornisce una nuova definizione della “attività di valorizzazione dei beni culturali”, come attività di costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero di messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all’esercizio delle funzioni ed al perseguimento delle finalità indicate all’articolo 6.
E’ stato osservato che la valorizzazione è costituita prevalentemente di mere attività e operazioni materiali, non di attività amministrative riconducibili all’esercizio di funzione amministrativa in senso stretto[xxvi]. Ovvero la valorizzazione è tanto un insieme di atti di regolazione, di organizzazione e di disciplina, a necessaria connotazione pubblicistica, quanto operazioni materiali (attività).
Per come visto all’inizio, la riforma del titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001) ha amplificato la divaricazione tra tutela e valorizzazione, assegnando alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (articolo 117, secondo comma, lettera s) ed attribuendo alla potestà legislativa concorrente delle regioni la valorizzazione dei beni culturali e ambientali (articolo 117, terzo comma).
E’, purtuttavia, evidente che tutelare un bene culturale significa valorizzarlo, così come, correlativamente, valorizzarlo significa anche farne tutela.[xxvii]
E’ logico supporre che, forse, l’impianto normativo di cui al D.Lgs 112/1998, al successivo Testo Unico e poi al D.Lgs 42/04, sia dovuto ad un tentativo di redistribuzione territoriale, secondo un criterio di sussidiarietà verticale, dei compiti e delle funzioni afferenti alla cultura, con allocazione ai diversi livelli territoriale di governo delle funzioni e attività, distinguendo, in omaggio alle politiche regionali della Unione Europea, quelle di valorizzazione degne di attirare risorse dei fondi strutturali, da quelle della tutela deputate, oltre che alla funzione autoritativa e regolatrice dei comportamenti, a reperire le risorse statali destinate alla tutela[xxviii].
E’ vero però che oggi, non si deve più ragionare in termini di separazione (per materia o per territorio), con riferimento alle competenze amministrative, ma in termini di partenariato istituzionale[xxix] e di “leale cooperazione”[xxx] di diversi soggetti, tutti ad un tempo titolari di competenza (sulla stessa materia e sullo stesso territorio), secondo una regola di sussidiarietà verticale[xxxi].
Lo strumento negoziale dell’accordo di programma o accordo tout court, applicando il principio della sussidiarietà/adeguatezza, per come suggerito dalla sentenza della Consulta n. 303 del 2003, può consentire di superare la confusione o ambiguità tra livelli istituzionali e le rispettive competenze in materia di tutela e valorizzazione.
Tale sistema di regolazione negoziata tra i vari livelli istituzionali, è previsto negli articoli 4, 5, 102 e 112 del codice dei beni culturali.
Si potrebbe eccepire alla tesi sulla cooperazione negoziale, il Carpentieri tra i più illustri propugnatori, che spesso le ragioni della leale cooperazione istituzionale o dei partenariati istituzionali sono sottomesse alle ragioni dello scontro politico, che spesso, troppo spesso, tracima nel conflitto istituzionale[xxxii].
4. LA DIVARICAZIONE TRA TUTELA E VALORIZZAZIONE NEL DLGS 42/2004 – IL PONTE DELLA FRUIZIONE
In dottrina si è elaborato il riferimento del bene culturale quale bene pubblico per eccellenza, come bene non di “appartenenza”, ma di “fruizione”, sottoposto al concorso del dominio eminente del proprietario con il dominio utile pubblico sul valore culturale della cosa, come bene funzionalmente “immateriale”[xxxiii].
La fruizione è servizio pubblico di offerta del bene culturale alla pubblica fruizione.
La fruizione è, inoltre, punto di armonizzazione tra la tutela e la valorizzazione.
Essa comprende quei tratti di esercizio della funzione che si pongono a scavalco tra la tutela e la valorizzazione e, pertanto, è il punto comune che caratterizza le definizioni normative di essa.
Nell’articolo 1 del Dlgs 42/04 si afferma che la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a promuovere lo sviluppo della cultura (comma 2), mentre al comma 4 dell’art. 2 che i beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela.
Altro concetto sulla fruizione è esposto nel comma 3 dello stesso articolo 1, dove si assegna allo Stato e agli enti pubblici territoriali il compito di sostenere la conservazione del patrimonio culturale e di favorire la pubblica fruizione e la valorizzazione.
Ancora, nell’articolo 3, nella definizione della tutela, viene chiarito che la protezione e la conservazione sono sorrette da “fini di pubblica fruizione”.
Il concetto è ribadito, infine, nell’articolo 6, relativamente alla definizione della valorizzazione, dove è scritto che la valorizzazione serve ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio culturale.
La 7^ Commissione del Senato, sul tema, scrisse: “è indubbio che la fruizione precede la valorizzazione, in quanto inscindibilmente connessa alla tutela, della quale rappresenta lo sbocco necessario”, poiché “la valorizzazione interviene su un bene già tutelato e quindi, di regola, già fruibile”[xxxiv].
La fruizione – intesa come tutela e mantenimento del bene per l’offerta alla pubblica fruizione – costituisce, dunque, un prius rispetto alla valorizzazione. Le attività di valorizzazione migliorano la fruibilità del bene, incrementando la fruizione del bene preventivamente tutelato.
Si diceva prima del ponte costituito dal sistema della programmazione negoziata e degli accordi interistituzionali tra i diversi livelli di governo competenti per le diverse attività di tutela e di valorizzazione.
Gli articoli 102 (fruizione), 112 (valorizzazione) e 115 (forme di gestione) costituiscono la premessa per una gestione condivisa dei beni culturali mediante la progettazione di sistemi integrati di fruizione e valorizzazione dei beni in ambito territoriale regionale, attraverso la scelta di adeguate forme di gestione.
Gli accordi di fruizione, di cui all’articolo 102, comma 5, fanno sì che beni di appartenenza diversa si incontrino in un “progetto unitario di gestione” nel cui ambito è possibile anche il trasferimento della disponibilità del bene dallo Stato alle Regioni nella nuova ottica della strumentalità a un progetto condiviso di gestione integrata.
Oltre al principio della cooperazione tra i livelli istituzionale, il Codice ha fissato come criterio di distinzione delle competenze amministrative in materia di valorizzazione tra Stato e Regioni quello dell’appartenenza del bene. La valorizzazione compete al soggetto che ha la disponibilità del bene e quindi allo Stato o alle Regioni o agli Enti Territoriali a seconda della titolarità sui beni stessi,[xxxv] anche con riferimento ai beni la cui gestione sia stata loro trasferita dal Ministero. Le attività di valorizzazione vengono inoltre distinte in base all’appartenenza pubblica o privata dei beni oggetto di valorizzazione[xxxvi].
L’articolo 112 regola gli accordi di valorizzazione che hanno, invece, ad oggetto le attività di valorizzazione e sfociano nell’individuazione comune di una forma di gestione diretta o indiretta (art.115). “E’ ben possibile e auspicabile che i suddetti accordi, su base regionale, siano contestuali, avvengano cioè con un unico atto riguardante sia l’integrazione dei beni per la fruizione che l’integrazione delle attività di valorizzazione”[xxxvii].
Abbiamo trattato nei precedenti capitoli, del problema della divaricazione funzionale ed istituzionale tra tutela e valorizzazione.
Purtuttavia, come visto, la dottrina parla del “ruolo di primato da assegnare alla tutela misura delle altre funzioni quale la valorizzazione”. Essa ha caratteri di elevata pervasività[xxxviii], specie in rapporto agli istituti in cui si articola sovrapponendosi a taluni degli interventi che qualificano anche la valorizzazione, per come visto sopra. Uno degli aspetti più delicati e pervasivi è, infatti, quello penale. Di esso ora tratteremo in estrema sintesi.
5. RESPONSABILITA’ DELLA TUTELA IN CAPO ALL’ENTE PROPRIETARIO E/O ALL’ENTE VIGILANTE – PROFILI PENALI
L’ordinamento nel suo complesso appresta al patrimonio storico e artistico un’ accentuata tutela contro le azioni dannose, prevedendo poteri-doveri di tutela di grande pregnanza, che ricevono particolari riconoscimento e copertura Costituzionale (cnfr. tra gli altri gli artt. 838 c.c., l’art. 733, gli artt. 169 e 181 cod. beni culturali, e innanzitutto l’art. 9 Cost.).
Gli obblighi di tutela sono anche a carico delle pubbliche amministrazioni titolari dei beni culturali. Può essere soggetto attivo del reato di cui all’art. 733 c.p. non solo il proprietario, bensì anche il rappresentante di un ente pubblico[xxxix]. La contravvenzione di cui all’art.733 c.p., infatti, “prevede nella parte precettiva l’obbligo in capo a chi ha la disponibilità dei beni di prevenire ed evitare ogni forma di danneggiamento degli stessi, sia di fare tutto ciò che è opportuno per la buona conservazione degli stessi[xl]”. Secondo i Giudici della Cassazione, “il reato di danneggiamento dei beni culturali sarebbe integrato anche attraverso l’omesso compimento di opere di manutenzione, conservazione e restauro delle cose di interesse storico e artistico”[xli]
Pertanto l’elemento psicologico risulta essere integrato anche nel caso in un cui tale evento lesivo si verifichi per negligenza, imprudenza o imperizia, come per esempio, omettendo di porre in essere le dovute operazioni di conservazione del bene[xlii]. E’ tuttavia necessario, perché possa dirsi integrato il reato di cui all’art. 733 c.p., che l’agente sia a conoscenza del rilevante pregio artistico archeologico o storico nazionale del bene[xliii]. Orbene, si presume che un Soprintendente non possa non conoscere il pregio artistico archeologico o storico nazionale del bene sottoposto alla sua funzione di tutela.
La giurisprudenza recente di merito, però, ha ravvisato altrettante responsabilità penali in capo anche a quegli altri organi della p.a. preposti per legge, anche in via suppletiva, ad obblighi di intervento omessi dall’ente proprietario (cnfr. ad es. art. 677 c.p.). “E’ indubitabile infatti che la funzione di vigilanza e di tutela di un bene immobile di notevole importanza monumentale da esercitarsi innanzitutto mediante una gestione e una manutenzione ordinaria adeguate, non afferiscono a profili di discrezionalità del proprietario o di chi sia investito ad altro titolo della sua conservazione, anche ove questi siano delle pubbliche amministrazioni, ma a ben specifici obblighi giuridici di agire, che si traggono agevolmente dalla disciplina penale (che incrimina condotte di violazione della integrità del bene culturale, cnfr. artt. 733 e 677 c.p., artt.169 e 181 cod. beni culturali; anche una discarica abusiva dentro il bene monumentale può configurare altrettante violazioni), dalla disciplina civilistica (art. 838 c.c.), dalla normativa di natura amministrativa, che regolamenta l’esercizio di relativi compiti e poteri affidati a diversi organismi della p.a., e dal fondamentale principio di rango costituzionale di tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio della nazione (art. 9 Cost.e cnfr. Inoltre art. 117 Cost. comma 2 lett. S).
La palese violazione di tali specifici obblighi giuridici consumati, nella specie dall’ente proprietario e responsabile del monumento e di quelli su cui, anche in via temporanea e o suppletiva gravavano obblighi di conservazione e vigilanza, e il principio del comma secondo dell’art.40 c.p. (secondo cui non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo) fondano a carico dei medesimi le responsabilità relative ai reati di danneggiamento del patrimonio artistico e di omissioni di lavori in presenza di minacce di crolli con pericolo per le persone, ai sensi degli artt. 733 e 677 c.p….” (G.I.P. Palermo Ord. 8 ottobre 2013).
Dal precedente brevissimo excursus normativo e giurisprudenziale emerge la fattispecie della responsabilità penale in capo all’Amministrazione, con riferimento a quanto interessa per questo studio, a motivo della mancata predisposizione di atti per interventi di tutela e conservazione del patrimonio la cui titolarità è in capo alla stessa Amministrazione, come anche con riferimento alla culpa in vigilando rispetto alle omissioni di interventi di tutela su beni la cui titolarità è in capo ad altri soggetti.
Tanto osservato, ne riviene che atti amministrativi di programmazione, valutazione e selezione che dovessero comportare vulnus o ostacolo all’adempimento dei detti obblighi di tutela risulterebbero contrari all’ordinamento costituzionale della Repubblica e gravidi delle dette conseguenze penali.
6. STRUMENTI NORMATIVI E FINANZIARI PER GLI INTERVENTI CONSERVATIVI – CONFIGURAZIONE DEGLI ISTITUTI DELLA CONSERVAZIONE/TUTELA E DELLA CONSERVAZIONE/VALORIZZAZIONE
Andando ora alla seconda parte di questo contributo.
Ripetiamo quanto già sopra esposto in tema di risorse finanziarie. Ricordiamo che la Conferenza Unificata Stato-Regioni, Città ed Autonomie locali del 10 dicembre 2003, aggiunse nel secondo periodo del comma 1 dell’articolo 6, che la valorizzazione comprende anche la promozione ed il “sostegno degli interventi di conservazione”.
Si è detto che tale dispositivo mirava, secondo noi, soprattutto a non compromettere gli interventi di restauro finanziati dai fondi strutturali europei, nonché a chiarire che, ad esempio, i finanziamenti concessi da privati (sponsorizzazione ex-articoli 121 e 120 del codice), pur relativi all’ambito della valorizzazione ben possono riguardare interventi di conservazione.
Tale aggiunta, ripetiamo, però ha determinato una significativa confusione.
Ovvero tutte le erogazioni di sussidi o incentivi sono interventi di valorizzazione o possono essere distinti tali interventi, finanziati per finalità di conservazione, tra tutela e valorizzazione?
Certamente, una prima differenza è che nella valorizzazione, e non nella tutela, rientrano tutti gli interventi diretti dei privati (anche per la conservazione dei beni pubblici), tanto a mezzo delle modalità partecipative, quanto a mezzo di sistemi di concessione.
Sul primo punto, quello relativo alle modalità partecipative, notiamo che il Capo II del Codice relativo ai “Principi della valorizzazione dei beni culturali” è relativo alla possibile partecipazione di privati a soggetti giuridici impegnati nella realizzazione di investimenti nel settore dei beni culturali a mezzo dell’elaborazione e dello sviluppo di piani strategici di sviluppo culturale[xliv].
Con riferimento al secondo punto, la gestione di interventi di conservazione su beni pubblici a mezzo di strumenti di concessione, osserviamo che, a norma dell’art. 115 del Codice, la gestione indiretta di attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica è attuata tramite concessione a terzi delle attività di valorizzazione, anche in forma congiunta e integrata, da parte delle amministrazioni cui i beni pertengono o dei soggetti giuridici, qualora siano conferitari dei beni, mediante procedure di evidenza pubblica, sulla base della valutazione comparativa di specifici progetti.
Lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali ricorrono alla gestione indiretta al fine di assicurare un miglior livello di valorizzazione dei beni culturali. La scelta tra le due forme di gestione (quella diretta da parte dell’Ente pubblico e quella indiretta da parte di un privato) e’ attuata mediante “valutazione comparativa” in termini di sostenibilità economico-finanziaria e di efficacia, sulla base di obbiettivi previamente definiti. La gestione in forma indiretta e’ attuata nel rispetto dei parametri di cui ai livelli di qualità della valorizzazione previsti dall’art. 114 del Codice. Altrettanto, sempre con riferimento alla valorizzazione, vale per la gestione dei servizi per il pubblico negli istituti e nei luoghi della cultura: possono essere, ovvero, istituiti servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico attuati anche nelle summenzionate forme della gestione indiretta (art. 117 Dlgs 42/04 e smi, DM.29 gennaio 2008 e allegato 1 alla Circolare n. 49 del 23.03.2009) ovvero in concessione e/o project finance[xlv].
Al contrario tutte le attività di tutela, ovvero gli interventi di studio, prevenzione, manutenzione e restauro per detti beni culturali pubblici, non sono MAI eseguiti con interventi di concessione (di cui alla parte IIII e IV del Dlgs 50/16 e smi), ma con contratti di appalto pubblico, di cui alla Parte II del Dlgs 50/16 e smi.
D’altronde, tanto è logico attesa la mancanza nell’attuale ordinamento legislativo di previsioni di forme di intervento partecipativo o gestionale/concessorio da parte di privati nel settore della tutela/conservazione. Nè, peraltro e come ovvio, di alcun interesse economico da parte dei privati ad interventi di sola tutela.
L’unica forma contrattuale possibile, pertanto, per la conservazione/tutela è quella dell’appalto.
La differenza è assolutamente sostanziale.
Tutte le varie forme di realizzazione delle opere con le modalità della concessione di lavori pubblici (anche in finanza di progetto) incorporano l’elemento della gestione economica dell’opera realizzata da parte del soggetto realizzatore e di conseguenza l’esistenza di un potenziale ritorno economico e la necessità di programmarne (con il piano economico-finanziario) vita e sviluppo.
Mentre con i contratti concessione e project finance[xlvi] o PPP la gestione dell’opera e i rischi connessi passano al privato, con il contratto di appalto tutti i rischi sono a carico dell’ente pubblico e nessun rischio viene assunto da privati[xlvii].
Altrettanto i rischi finanziari di accesso e provvista a risorse finanziarie bancarie o altro passano al privato nei contratti di concessione, project finance e PPP.
Si aggiunga, anzi, che la nuova normativa prevede espressamente la risoluzione dei detti contratti laddove il privato non fornisca prova della stipula dei contratti di finanziamento con banche o intermediari finanziari[xlviii].
Dunque, concludendo, si possono distinguere, all’interno degli interventi di conservazione di beni culturali da parte di enti pubblici, due diversi settori formali e sostanziali:
- uno quello degli interventi di conservazione/tutela realizzati sempre a mezzo di contratti di appalto pubblico di lavori, forniture di beni e servizi[xlix];
- l’altro quello degli interventi di conservazione/valorizzazione realizzabili (anche) a mezzo di contratti di concessione, project finance PPP (e anche sponsorizzazioni), oltre che con gli ordinari contratti di appalto pubblico di lavori, forniture di beni e servizi.
Tipologia interventi di conservazione | Tipologia contrattuale | Norme della Costituzione della Repubblica | Norme Codice Contratti Pubblici | Norme Codice Beni Culturali |
conservazione/tutela | Appalti pubblici | Art. 9 e Art. 117, 2° comma punto s) | Parte II del Codice Contratti Pubblici (Direttiva UE 24/14) | Artt.3, 4, 29, 30 e 39 del Codice Beni Culturali |
conservazione/valorizzazione | Concessioni/project finance/PPP (sponsorizzazioni) | Art. 117, 3° comma | Parte III e IV del Codice Contratti Pubblici (Direttiva UE 23/14) | Art. 6 comma 1 e art.111, 112, 115 e 117 del Codice Beni Culturali |
Dunque, lo spartiacque costituzionale tra funzioni di tutela e valorizzazione ha prodotto degli effetti rilevanti in termini di contrattualistica pubblica. Di rimando, però, anche in termini di strumenti finanziari sottesi.
Se per la conservazione/tutela si agisce solo con appalti pubblici ne discende che il sistema finanziario bancario o degli intermediari finanziari è in toto escluso dagli interventi di conservazione/tutela attesa la permanenza del rischio in capo al pubblico, salvo che sia l’ente pubblico il diretto beneficiario dei servizi finanziari, ad esempio, con prestiti bancari per la realizzazione dell’opera di conservazione. Tale ultima ipotesi è comunque rarissima attesa la usuale provvista finanziaria in sovvenzione a fondo perduto per la copertura integrale dei costi a beneficio dell’ente pubblico e i problemi di vincoli di bilancio che affliggono gli Enti.
Il sistema bancario/finanziario interviene, invece, per il reperimento delle risorse finanziarie necessarie ai privati.
L’accesso al mercato agli strumenti finanziari (prestiti, partecipazioni di capitale, garanzie e controgaranzie, finanziamenti mezzanini, etc.) è, dunque, proprio dei contratti di conservazione/valorizzazione a mezzo di strumenti di concessione, project finance o PPP, in generale.
Per essere ancora più puntuali nella precisazione, puntualizziamo ulteriormente che gli strumenti finanziari previsti dagli art. 37 e seguenti del Reg.UE 1303/13 e, forse in futuro[l], le risorse di cui al Piano Juncker (Reg.UE 1017/2015) sono per loro natura, dunque, attribuibili solo agli interventi di conservazione/valorizzazione, realizzabili con interventi dei privati a mezzo di strumenti di concessione, project finance o PPP[li].
Tipologia interventi di conservazione | Tipologia contrattuale | Rischi | Tipologia finanziaria |
conservazione/tutela | Appalti pubblici | Rischi sul pubblico | sovvenzioni a fondo perduto a copertura del 100% dei costi |
conservazione/valorizzazione | Concessioni/project finance/PPP | Rischi operativi sul privato | Strumenti finanziari art. 37 e ss del Reg. 1303/13, Piano Juncker (forse in futuro), etc. |
7. IL D.LSG 228/11 – SINTESI
Durante il governo Monti, nella fase successiva alla crisi finanziaria e alla cosiddetta “salita dello spread”, in particolare, il Governo affrontò il tema della delega fatta con la legge 31 dicembre 2009, n.196, recante legge di contabilità e finanza pubblica, e smi, ed in particolare l’articolo 30, commi 8 e 9, lettere a), b), c) e d), che delegava il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi, al fine di garantire la razionalizzazione, la trasparenza, l’efficienza e l’efficacia delle procedure di spesa relative ai finanziamenti in conto capitale destinati alla realizzazione di opere pubbliche.
Il primo decreto legislativo (il 228) introdusse la valutazione delle opere finanziate con fondi statali sia prima, in fase di scelta, sia dopo l’esecuzione per verificare se una volta completata l’infrastruttura soddisfi effettivamente le esigenze.
Il secondo decreto (il 229) istituì una nuova banca dati delle amministrazioni pubbliche gestita direttamente dal ministero dell’Economia in cui confluiscono tutte le informazioni relative ai finanziamenti, agli appalti e allo stato di avanzamento delle opere finanziate con risorse statali. Con l’obiettivo, a regime, di far scattare il definanziamento automatico della quota statale sulle opere ferme.
Entrambi i provvedimenti sono stati ereditati dal Governo Berlusconi (e, in parte, portano ancora l’impronta dell’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti), ma sono poi stati rielaborati, anche sulla base delle indicazioni delle commissioni parlamentari e della Conferenza unificata, con una proposta congiunta tra il presidente del Consiglio, Mario Monti, e il ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca.
Lo stesso Ministro Barca aveva da poco esitato il suo Rapporto Barca commissionato dalla Commissione Europea, con il quale veniva tracciata la via dello sviluppo locale “place-based” quale via per uscire dalla crisi mondiale: al centro stava la strategia di sviluppo locale basata sula valorizzazione delle risorse immobili sottoutilizzate e, prime tra esse, quelle culturali, oltre che una nuova politica per l’esclusione sociale[lii].
Il campo di applicazione del decreto legislativo 29 dicembre 2011, n. 228 riguarda le attività di valutazione ex ante ed ex post delle opere finanziate con risorse dei singoli Ministeri.
I Ministeri sono tenuti a svolgere le attività di valutazione ex ante ed ex post per le opere pubbliche e di pubblica utilità a valere sulle risorse iscritte negli stati di previsione dei singoli Ministeri, ovvero oggetto di trasferimento da parte degli stessi a favore di soggetti attuatori, pubblici o privati, in forza di specifica delega, ovvero anche per le opere opere pubbliche che prevedono emissione di garanzie a carico dello Stato.
Il decreto legislativo n. 228/2011 fissa criteri per la valutazione preventiva degli investimenti pubblici e, in sintesi, stabilisce:
- ogni Ministero deve valutare ex ante ed ex post la spesa di investimento in opere pubbliche (prevista da leggi di spesa pluriennale e a carattere permanente) al fine di garantirne “la razionalizzazione, la trasparenza, l’efficienza e l’efficacia”, sia che si tratti di finanziamento con risorse iscritte nel bilancio sia che si tratti di finanziamento con trasferimento a favore di soggetti realizzatori pubblici o privati sia che si tratti di “emissione di garanzie a carico dello Stato” (articolo 1)
- ogni Ministero quindi, con cadenza triennale, predispone un “Documento pluriennale di pianificazione” (da sottoporre preventivamente e da rendicontare al CIPE) composto da tre sezioni (la prima con l’analisi ex ante dei fabbisogni infrastrutturali; la seconda con metodologia e risultati della valutazione e della selezione delle opere da realizzare; la terza con i criteri per le valutazioni ex post degli interventi individuati e le sintesi delle valutazioni ex post già compiute) (articolo 2)
- per orientare la preparazione di ciascun “Documento pluriennale di pianificazione”, il Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, ha avuto il compito di definire un modello di riferimento ed uno schema tipo di Documento (il compito è stato assolto nell’agosto 2012 con l’approvazione di linee guida), in base a cui ogni Ministero doveva poi predisporre entro novanta giorni proprie specifiche linee guida per la valutazione degli investimenti del proprio settore di intervento (articolo 8)
- la prima sezione del “Documento pluriennale di pianificazione” deve contenere la valutazione ex ante del fabbisogno totale attuale e futuro di infrastrutture, gli obiettivi da raggiungere “quantificati attraverso indicatori specifici[liii] e misurabili e determinati anche nel rispetto di criteri di convenienza economica e sostenibilità finanziaria sulla base di valutazioni economico-finanziarie”, le relative priorità, “l’elenco degli studi di fattibilità propedeutici all’individuazione degli interventi funzionali al raggiungimento degli obiettivi, con indicazione delle risorse finanziarie necessarie per l’elaborazione degli studi stessi e la relativa copertura finanziaria, e/o degli eventuali progetti disponibili”, curando comunque – per quanto riguarda le infrastrutture strategiche – la coerenza con i criteri da seguire per predisporre il Programma Infrastrutture Strategiche (articolo 3)
- per le singole opere da realizzare è necessaria una fase preliminare di valutazione ex ante che consiste essenzialmente nella realizzazione obbligatoria degli studi di fattibilità lo studio di fattibilità deve in ogni caso contenere (articolo 4, comma 2) anche tutti gli elementi previsti dall’articolo 14, comma 1, del regolamento del Codice dei contratti pubblici lo studio di fattibilità, inoltre, deve sempre contenere gli indicatori di realizzazione e di risultato (per preparare la valutazione ex post), “il piano economico-finanziario del progetto di investimento, corredato dagli indicatori sintetici di valutazione della redditività”, “l’analisi della sostenibilità gestionale dell’opera” (articolo 4, comma 2)
- per le opere di costo stimato superiore a 10 milioni, allo studio di fattibilità deve essere allegata l’analisi dei rischi, senza la quale l’opera non può essere inserita nel “Documento pluriennale di pianificazione” e le procedure di affidamento dei lavori non possono essere avviate (articolo 4, commi 4-6)
- la seconda sezione del “Documento pluriennale di pianificazione” contiene l’individuazione delle singole opere da realizzare in ordine di priorità, i criteri di selezione, la sintesi degli studi di fattibilità, la localizzazione e le problematiche ambientali, la “stima dei costi delle singole opere, la relativa articolazione temporale, le risorse disponibili, con l’indicazione delle specifiche fonti di copertura finanziaria, e il fabbisogno finanziario residuo articolato in termini temporali sulla base degli andamenti di cassa” (articolo 5)
- le opere non incluse nel Documento o nelle relazioni annuali dirette al CIPE non possono essere ammesse al finanziamento, salva un’eccezione (articolo 5, comma 3)
- le valutazioni ex post dei Ministeri devono misurare l’efficacia e l’utilità delle opere realizzate (risultati, impatto, economicità, efficienza, eventuale scostamento dagli obiettivi) (articolo 6, commi 1-2)
- per garantire ciò, la terza sezione del “Documento pluriennale di pianificazione” contiene proprio l’elenco delle opere destinate alla valutazione ex post ed il dettaglio delle attività di valutazione previste (articolo 6, comma 3)
- “i Ministeri pubblicano, altresì, in formato aperto, informazioni relative ai tempi, ai costi e agli indicatori di realizzazione delle opere completate … “ (articolo 9, comma 2)
- “al fine di garantire ampia trasparenza” sui “processi di pianificazione, realizzazione e valutazione delle opere”, sui siti istituzionali dei Ministeri deve trovarsi una apposita sezione – curata dal rispettivo Nucleo di valutazione – contenente “le linee guida per la valutazione degli investimenti, il Documento, le relazioni annuali, ogni altro documento predisposto nell’ambito della valutazione, ivi inclusi i pareri dei valutatori che si discostino dalle scelte delle amministrazioni e gli esiti delle valutazioni ex post che si discostino dalle valutazioni ex ante” (articolo 9, comma 1).
La perdurante mancanza delle linee guida di settore (salvo di quelle del MIT) – nonostante l’approvazione delle linee guida generali e dello schema tipo del “Documento pluriennale di pianificazione” con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 3.8.2012[liv] – rende praticamente inoperante buona parte del meccanismo[lv].
Oltre al DPCM 3.8.2012, un altro documento messo a disposizione dei Ministeri è il “Vademecum per l’applicazione del Modello di Linee Guida ai fini della predisposizione del Documento Pluriennale di Pianificazione ai sensi del D.Lgs. n. 228/2011“, redatto dal Dipartimento per la Programmazione e il Coordinamento della Politica Economica della Presidenza del Consiglio dei Ministri (DIPE) e dal Dipartimento dello Sviluppo e della Coesione Economica (DPS) integrato a mezzo di un Addendum nel marzo 2015.
Esso è stato redatto in esecuzione della previsione di cui al comma 3 dell’art. 8 del Dlgs 228/11: dunque, tale Vademecum costituisce “modello di riferimento per la redazione da parte dei Ministeri delle linee guida”.
Utilizzando lo stesso schema sopra visto, ma richiamando quanto illustrato ai superiori punti con riferimento all’impianto ordinamentale successivo alla riforma del titolo V della Costituzione, ne risulta quanto segue in termini di applicazione dal punto di vista delle competenze amministrative.
Se, da una parte il sistema delle competenze amministrative rende applicabili le valutazioni del D.Lgs 228/11 al MIBACT, dall’altra parte gli interventi di conservazione/tutela del MIBACT rischiano di non essere tra gli interventi selezionati in forza delle previsioni dello stesso DLGS 228, del DPCM e del Vademecum contrastanti con l’impianto ordinamentale degli appalti pubblici, di cui tra poco si tratterà in prosieguo.
Tutti gli interventi di conservazione/tutela della Regione Siciliana[lvi] estranei alla competenza amministrativa del MIBACT, così come quelli di conservazione/valorizzazione della stessa Regione, poiché estranei al sistema del D.Lgs 228/11 potrebbero non trovare copertura finanziaria, ad es., nel caso di uscita della Regione dal novero delle Regioni meno sviluppate (ex-Obiettivo 1) ed ulteriore taglio delle risorse regionali erogate al settore sui bilanci ordinari[lvii]. Lo stesso vale per le altre Regioni, cui non si applica il D.Lgs 228/11, nel settore della conservazione/valorizzazione. Le esigenza di protezione del patrimonio culturale rischiano di non trovare adeguate risorse finanziarie per le dette esigenze sia nelle Regioni a Statuto Speciale che nelle regioni a statuto ordinario.
Tipologia interventi di conservazione | Tipologia contrattuale | Riparto Istituzionale delle Competenze Amministrative | Compatibilità competenze amministrative per i fini del D.Lgs 228/11 |
conservazione/tutela | Appalti pubblici | MIBACT / Regione Siciliana | Non compatibili gli appalti pubblici (vedi di seguito) |
conservazione/valorizzazione | Concessioni/project finance/PPP | MIBACT / Regioni / Enti Territoriali sui beni a rispettiva titolarità | Non si applica il D.Lgs 228 alle Regioni e agli Enti Territoriali. Si applica al MIBACT. |
8. ART.4, COMMA 2, PUNTO B), DEL DLGS 228/11 : PIANO ECONOMICO-FINANZIARIO – CONSEGUENZE DELLA PREVISIONE LEGISLATIVA
A norma del punto b) del comma 2 dell’art.4 del Dlgs 228/11, oltre a quanto previsto dall’articolo 14, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207 (tra poco ci ritorneremo), lo studio di fattibilità deve contenere “il piano economico-finanziario del progetto di investimento, corredato dagli indicatori sintetici di valutazione della redditività”.
Atteso che gli studi di fattibilità devono essere obbligatoriamente fatti in sede di valutazione ex-ante del fabbisogno di infrastrutture per ogni opera da finanziare a norma dell’art.3 comma 2 punto e), essi devono contenere, comunque, per l’effettuazione della valutazione ex-ante delle singole opere, un Piano economico-finanziario quale condizione per la successiva selezione delle opere[lviii].
Il testo di legge, però, non distingue tra opere caratterizzate o non caratterizzate dal c.d. ritorno economico e dunque, richiede per tutte il Piano economico-finanziario (PEF).
La norma, osserviamo, ha trasferito il piano economico-finanziario dalla fase delle offerte alla gara (art.165 comma 4 e art. 183 comma 15 del D.Lgs 50/16) alla fase precedente delle analisi di fattibilità di un’opera pubblica.
Il D.Lgs 228/11 “ha superato di conseguenza le limitazioni del sistema del Codice in cui il piano economico- finanziario risulta necessario solo per le opere pubbliche o per le infrastrutture strategiche destinate ad essere realizzate con la modalità della concessione di lavori pubblici (eventualmente in finanza di progetto) in quanto capaci di produrre la redditività destinata a compensare la partecipazione del capitale privato”[lix].
Tuttavia il 228/2011 non ha fissato né definizione né contenuto del “nuovo” piano economico-finanziario, se si eccettua il vago richiamo agli “indicatori sintetici di valutazione della redditività”.
Mancano precisazioni e definizioni anche nel successivo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 3.8.2012 contenente l’attuazione dell’articolo 8, comma 3, del decreto legislativo 29 dicembre 2011, n. 228 in materia di linee guida per la valutazione degli investimenti relativi ad opere pubbliche e del Documento pluriennale di pianificazione degli investimenti in opere pubbliche[lx].
Tali precisazioni avrebbero dovuto in teoria trovarsi nei modelli per l’elaborazione degli studi di fattibilità delle infrastrutture strategiche che il CIPE sarebbe tenuto ad approvare, compito previsto dal disposto dell’articolo 4, comma 3, del decreto legislativo n. 228/2011.
Fatte le superiori puntualizzazioni, torniamo all’esame della norma e delle sue conseguenze.
Dal testo del Dlgs 228/11 discende che non sarebbe possibile valutare e selezionare progetti, per la successiva finanziabilità, non dotati di studi di fattibilità, a loro volta, non contenenti piani economico-finanziari.
Nel D.Lgs 50/2016, Codice dei Contratti, il Piano economico finanziario è, però, previsto nell’art. 165 comma 4 relativo ai contratti di concessione, nell’art. 180 comma 7 (che richiama l’art. 165 commi 3,4 e 5) e nell’art. 183, comma 3 e comma 15, relativi ai PPP, ovvero nelle Parti III e IV del Codice dei Contratti Pubblici. In tutte le sopraccitate norme esso è previsto quale parte delle offerte al bando di gara. L’articolo 17, comma 4, del regolamento del Codice (decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207), nella parte ancora in vigore, prevede che il progetto preliminare di opere pubbliche destinate ad essere realizzate con la modalità dell’affidamento in concessione di lavori pubblici deve contenere un piano economico- finanziario di massima.
Se, dunque, per il nuovo Codice dei contratti il PEF è parte dell’offerta di gara nel project, PPP e concessioni, per il Regolamento è parte del progetto preliminare sempre nel settore delle concessioni.
Il Piano economico-finanziario non è, però, previsto in alcun articolo della Parte II del D.Lgs 50/2016 relativa ai Contratti di Appalto. Il Piano economico-finanziario non è previsto e non si applica, dunque, nei contratti di appalto pubblici.
Il Vademecum del DIPE e del DPS[lxi] a pag, 19 nota 43 rimanda al documento “Piano economico-finanziario ex art. 4, comma 140, della legge n. 350/2003: Schema sintetico da allegare alle richieste di assegnazioni di fondi a carico delle risorse di cui all’art. 1, comma 7, lett. f. del D.Lgs. n.190/2002” (Legge Obiettivo). Tale documento tratta di “ricavi ancillari, Tariffa o altri ricavi unitari, Margine Operativo Lordo (MOL), VAN di progetto, TIR di progetto, VAN del capitale Investito, TIR del capitale investito”, etc., ovvero di tecniche e termini propri dei business plan (PEF) di opere realizzate in PPP, finanza di progetto o da società private.
Lo stesso documento è ancora più esplicito a pag. 16, ove recita: “Lo schema in oggetto e stato predisposto avendo principalmente a riguardo (…) la realizzazione del progetto in base a un modello societario di tipo project finance oppure a una più convenzionale soluzione corporate”.
Attesa l’impossibilità normativa di redigere il Piano Economico Finanziario (PEF), previsto dall’art. 4 comma 6 del Dlgs 228/11, nei contratti di appalto sarà impossibile effettuare il previsto PEF da cui trarre i dati di fattibilità finanziaria (costi e ricavi) e di fattibilità economica e sociale (analisi costi-benefici), fondamentali nella fase della “valutazione ex-ante delle opere” descritta a pag. 18 e 19 del detto Vademecum e della successiva “selezione delle opere” prevista a pag.22 del Vademecum.
Non è possibile, pertanto, nè avviare nè concludere il processo valutativo e selettivo previsto dal D.Lgs 228/11 a causa della erronea previsione del Piano economico-finanziario quale componente dello studio di fattibilità.
Atteso che, come sopra precisato, il settore della conservazione/tutela vede quale tipologia contrattuale per la realizzazione dei lavori di conservazione il contratto di appalto pubblico, e non quello della concessione, project finance o PPP, ne discende come conseguenza che la previsione dell’obbligo di studi di fattibilità contenenti piani economico-finanziari, di cui al punto b) del comma 2 dell’art.4 del Dlgs 228/11, rende inapplicabile tale previsione al settore della conservazione/tutela applicata con contratti di appalto pubblico.
Con riferimento al settore della conservazione/tutela svolto con contratti di appalto, tali previsioni arrecano un vulnus all’adempimento degli obblighi di tutela costituzionalmente sanciti, determinando la non valutabilità e, dunque, non selezionabilità di interventi di conservazione/tutela.
Tipologia interventi di conservazione | Tipologia contrattuale | Punto b), comma 2 dell’art.4 del D.Lgs 228/11 | Fattibilità della previsione per i fini del D.Lgs 228/11 |
conservazione/tutela | Appalti pubblici | Piano economico-finanziario | Non fattibile |
conservazione/valorizzazione | Concessioni/project finance/PPP | Piano economico-finanziario | Fattibile |
9. ARTICOLO 4, COMMA 2 DEL D.LGS 228/11 : RIMANDI ALL’ART. 14 COMMA 1 DEL REGOLAMENTO – CONSEGUENZE DELLA PREVISIONE LEGISLATIVA
A norma dell’articolo 4, comma 2 del D.Lgs 228/11, lo studio di fattibilità deve in ogni caso “contenere anche tutti gli elementi previsti dall’articolo 14, comma 1, del Regolamento” del Codice dei contratti pubblici (decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207). More tempore lo studio di fattibilità si è fuso con il progetto preliminare creando il nuovo “progetto di fattibilità tecnica ed economica” (art.23 D.Lgs 50/16 e smi)
L’ art.14 comma 1 del Regolamento non si applica al settore dei beni culturali poiché il settore[lxii] è ancora temporaneamente regolamentato dall’art. 242 del DPR 207/2010 relativo alla progettazione nel settore culturale che prevede quali documenti del progetto preliminare: a) relazione illustrativa; b) relazione tecnica; c) indagini e ricerche preliminari; d) planimetria generale ed elaborati grafici; e) prime indicazioni e disposizioni per la stesura dei piani della sicurezza; f) calcolo sommario della spesa; g) quadro economico di progetto.
Anche il nuovo regolamento concernente gli appalti pubblici di lavori riguardanti i beni culturali tutelati, concertato tra MIBACT e MIT, e redatto con riferimento all’articolo 23, comma 3 del DLGS n. 50 del 2016[lxiii], all’art. 15 comma 2, in ordine alla progettazione di fattibilità, prevede la stessa documentazione[lxiv] di cui all’art. 242 del DPR 207/2010, con qualche previsione in più.
Tanto conferma la diversità di documentazione tra gli elementi richiesti dall’art.14 comma 1 e quelli richiesti nel settore culturale[lxv].
La obbligatoria previsione degli elementi dello studio di fattibilità di cui all’art.14 comma 1 ovvero “di una relazione illustrativa contenente: a) le caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali, economico‐finanziarie dei lavori da realizzare; b) lʹanalisi delle possibili alternative rispetto alla soluzione realizzativa individuata; c) la verifica della possibilità di realizzazione mediante i contratti di partenariato pubblico privato di cui allʹarticolo 3, comma 15‐ter, del codice; d) lʹanalisi dello stato di fatto, nelle sue eventuali componenti architettoniche, geologiche, socio‐economiche, amministrative; e) la descrizione, ai fini della valutazione preventiva della sostenibilità ambientale e della compatibilità paesaggistica dellʹintervento, dei requisiti dellʹopera da progettare, delle caratteristiche e dei collegamenti con il contesto nel quale lʹintervento si inserisce, con particolare riferimento alla verifica dei vincoli ambientali, storici, archeologici, paesaggistici interferenti sulle aree o sugli immobili interessati dallʹintervento, nonché lʹindividuazione delle misure idonee a salvaguardare la tutela ambientale e i valori culturali e paesaggistici”, risulta pertanto in contrasto con riferimento all’attuale art.242 del Regolamento.
Spicca, per la diversità, la previsione nell’art. 14 comma 1, tra le altre, di una “verifica della possibilità di realizzazione mediante i contratti di partenariato pubblico privato di cui allʹarticolo 3, comma 15‐ter, del codice” in toto non prevista dagli articoli riferiti al settore culturale. E non è un caso…!
Con riferimento al settore della conservazione/tutela svolto con contratti di appalto quanto a quelli svolti con strumenti concessori, le previsioni di cui all’articolo 4, comma 2 del d.lgs 228/11 arrecano un doppio vulnus all’adempimento degli obblighi di tutela costituzionalmente sanciti, giacché richiedono documentazione non prevista da entrambe le normative dei due settori.
Tipologia interventi di conservazione | Tipologia contrattuale | Art.14 comma 1 del Regolamento (cui rinvia l’art. 4, comma 2 del D.Lgs 228/11) | Fattibilità della previsione per i fini del D.Lgs 228/11 |
conservazione/tutela | Appalti pubblici | Elementi dello studio di fattibilità | Non fattibile |
conservazione/valorizzazione | Concessioni/project finance/PPP | Elementi dello studio di fattibilità | Non fattibile |
10. PAG. 15 VADEMECUM : RIMANDI ALL’ART. 14 COMMA 2 DEL REGOLAMENTO – CONSEGUENZE DELLA PREVISIONE DEL VADEMECUM
A pag. 15 del Vademecum si indicano, a norma dell’art. 14 comma 2 del DPR 207/2010, per le opere categoria a) e c) sopra soglia OOPP2 (con e senza rientri tariffari, ovvero, per interventi, superiori ai 10 milioni di euro e di rinnovo del capitale, quali ad esempio manutenzione straordinaria, recupero e ristrutturazione e opere senza introiti tariffari), tra “i contenuti dello studio di fattibilità” anche la realizzazione di “un elaborato tecnico-economico contenente l’analisi della fattibilità finanziaria (costi e ricavi) e l’analisi della fattibilità economico e sociale, oltre che elementi essenziali dello schema di contratto”[lxvi].
Tanto è errato poiché il DPR 207/2010, all’art. 14 comma 2 non si riferisce alle opere senza regime di tariffa, ovvero ai contratti di appalto ordinari, ma ai casi in cui lo “studio di fattibilità è posto a base di gara, ai sensi degli articoli 58 e 153 del Codice”, ovvero ai casi di dialogo competitivo (il comma 15 dell’art.58 prevede per i lavori l’affidamento di una concessione di cui all’articolo 143 del Dlgs 163/16) e ai casi di project finance (finanza di progetto).
Pertanto, il comma 2 dell’art. 14 del DPR 207/2010 si rivolge solo ai casi di opere soggette a regime di tariffa e non ai casi di cui alla categoria a), lavori di manutenzione straordinaria, recupero e ristrutturazione nel settore dei beni culturali, superiori ai 10 milioni di euro, messi a gara con ordinaria gara d’appalto (ovvero senza PPP o project finance), quali sono quelle summenzionate di conservazione/tutela.
Conseguentemente, i contenuti dello studio di fattibilità indicati dal Vademecum non sono applicabili alle opere di tutela del patrimonio culturale sopra i 10 meuro non determinanti regimi tariffari. Con riferimento al settore della conservazione/tutela svolto con contratti di appalto, tali previsioni arrecano un vulnus all’adempimento degli obblighi di tutela costituzionalmente sanciti, determinando la non valutabilità e, dunque, non selezionabilità di interventi di conservazione/tutela, giacché richiedono documentazione non prevista dalla normativa relativa ai contratti di appalto.
Tipologia interventi di conservazione | Tipologia contrattuale | Art.14 comma 2 del Regolamento (cui rinvia pag. 15 del Vademecum) | Fattibilità della previsione per i fini del D.Lgs 228/11 |
conservazione/tutela | Appalti pubblici | Elementi dello studio di fattibilità | Non fattibile |
conservazione/valorizzazione | Concessioni/project finance/PPP | Elementi dello studio di fattibilità | Fattibile |
11. ART. 4 COMMA 2 DEL DLGS 228/11 E PAG.21 DEL VADEMECUM : ANALISI DEL RISCHIO – CONSEGUENZE DELLA PREVISIONE LEGISLATIVA E DEL VADEMECUM
A norma dell’art. 4 comma 2 del Dlgs 228/11 viene prevista la realizzazione di un’analisi del rischio, sopra soglia (10 meuro), tanto per la valutazione ex-ante delle opere (per come previsto a pag. 18 del Vademecum) quanto per la selezione delle opere (per come previsto a pag. 22 del Vademecum).
Inoltre, lo stesso Vademecum a pag. 21, Box 5, richiama la Decisione Eurostat del novembre 2004 e il Manual of Government Deficit and Debt 2013 (MGDD).
I livelli di rischio Eurostat riportati dal Vademecum sono “il rischio di costruzione, di disponibilità e di domanda”, ovvero proprio le fattispecie di rischio oggi alla base dei contratti di PPP di cui all’art. 180 comma 3 del Dlgs 50/16.
Non solo. Il Decreto correttivo (D.Lgs 19 aprile 2017, n. 56) dello stesso Dlgs 50/16, integra l’art. 3 comma eee) sul Partenariato Pubblico Privato con la seguente aggiunta “si applicano le decisioni Eurostat” in materia.
Pertanto, l’analisi dei rischi pertiene per legge solo ai contratti in PPP e non ai contratti di appalto.
Il punto è che l’art.4 comma 6 del d.lgs 228/11 prevede che “in assenza dell’analisi dei rischi, l’opera non può essere inserita nel Documento e le procedure di affidamento dei lavori non possono essere avviate”.
Ove applicata ai contratti di appalto superiori ai 10 meuro tale previsione risulterebbe priva di senso e contro legge. E’ evidente che non si possono applicare indicatori di livelli di rischio relativi al PPP al settore dei contratti di appalto, ove i rischi sono fermamente in capo all’Amministrazione Pubblica, condizionando addirittura la realizzazione dei lavori, nel settore del patrimonio culturale oggetto di un obbligo costituzionale, ad un’analisi dei rischi inapplicabile.
Ne discendono le seguenti due conclusioni alternative: – o la palese incostituzionalità delle previsione di cui all’art. 4 comma 6 del d.lgs 228/11, ove la succitata previsione dovesse essere relativa anche alle opere senza introiti tariffari (contratti di appalto);
– o l‘adozione di un’interpretazione che faccia decadere i sopraccitati profili di incostituzionalità ove si applicasse l’analisi dei rischi alle sole opere con introiti tariffari ovvero ai contratti di PPP o di concessione.
Con riferimento al settore della conservazione/tutela svolto con contratti di appalto, tali previsioni arrecano, pertanto, un vulnus all’adempimento degli obblighi di tutela costituzionalmente sanciti, determinando la non valutabilità e, dunque, non selezionabilità di interventi di conservazione/tutela.
Tipologia interventi di conservazione | Tipologia contrattuale | art. 4 comma 4 del Dlgs 228/11 | Fattibilità della previsione per i fini del D.Lgs 228/11 |
conservazione/tutela | Appalti pubblici | Analisi del rischio Eurostat (Vademecum pag. 21, Box 5) | Non fattibile |
conservazione/valorizzazione | Concessioni/project finance/PPP | Analisi del rischio Eurostat (Vademecum pag. 21, Box 5) | Fattibile |
12. PAGG.18/19/20 DEL VADEMECUM : INDICATORI FINANZIARI RELATIVI AL PPP ED IMPROPRI RISPETTO AI CONTRATTI DI APPALTO – CONSEGUENZE
Il Vademecum con riferimento alle attività di valutazione ex-ante delle opere di cui all’art.4 del D.Lgs 228/11 fa sempre riferimento ad alcuni indicatori, valevoli tanto nelle categorie di opere senza introiti tariffari (a, b, c di cui al punto 2.5. Allegato 1 del DPCM del 3 agosto 2012), o in quelle a regime di tariffa o che possano diventare tali a mezzo di procedure in PPP o concessione. Il complesso degli indicatori non è, però, mai relativo ad appalti pubblici finanziati a totale copertura pubblica bensì a soli investimenti in opere cofinanziati in toto o parzialmente con risorse private.
Tali sono gli indicatori delle analisi socio-economiche (TIR/E e VAN/E vedi Vademecum pag. 18), delle analisi finanziarie (TIR/F e VAN/F, vedi Vademecum pag. 19 che richiama la Del.CIPE 11/2004 relativa alla Legge Obiettivo 443/01), e gli indici di bancabilità (DSCR e LLCR vedi punto 2.12 Allegato 1 DPCM 3 agosto 2012): per inciso, gli ultimi due indicatori costituiscono parte del Piano Economico Finanziario richiesto per ogni investimento valutato a norma dell’art.4 comma 2 del D.Lgs 228/11.
Nello stesso senso, nella “selezione delle opere”, di cui a pag. 22 del Vademecum, si richiamano le prescrizioni dell’art. 128, comma 2, del Dlgs 163/06, che danno priorità “ai lavori finanziabili con capitali privati in quanto suscettibili di gestione economica”. Si da ovvero priorità ad una fattispecie quanto mai rara in Italia, quella del PPP e della finanza di progetto nel settore culturale.
La previsione, nel DPDM 3 agosto 2012 e nel Vademecum, dei sopraccitati indicatori finanziari e bancari è verosimilmente dovuta al passaggio di tutti i rischi, compresi quelli finanziari, all’Operatore Economico privato per come espressamente previsto, per i contratti in PPP, dall’art. 3 comma eee) e dall’art.180 del D.Lgs 50/16.
Lo stesso art. 180 al comma 7 prevede che la “disponibilità di un finanziamento e condizione di ammissione al contratto di partenariato pubblico privato e che il contratto e risolto di diritto ove il contratto di finanziamento non sia perfezionato entro dodici mesi dalla sottoscrizione del contratto”. Medesima previsione di cui all’art. 180 comma 7, vale nel settore delle concessioni a norma dell’art. 165 comma 3 del D.Lgs 50/16.
Il trasferimento di tali rischi in misura superiore al 50% dell’investimento è, altresì, una delle condizioni per l’appostamento delle partite contabili “off the shelf” (fuori dal bilancio pubblico) secondo Eurostat.
Nel settore dei contratti di appalto o delle altre procedure di gara diverse dal PPP e dalle concessioni, non è, invece, contemplato alcun passaggio ai privati dei rischi finanziari: gli indicatori finanziari e bancari di cui in oggetto non hanno, pertanto, alcuna ragione di essere nel settore dei contratti di appalto.
Se si considera che la, sopraccitata, Convenzione UNESCO del 20 ottobre 2005 all’art. 4 definisce “attività, beni e servizi culturali” come quei beni o servizi che “…incarnano o trasmettono delle espressioni culturali indipendentemente dal loro eventuale valore commerciale”, ne riviene la inapplicabilità degli esaminati indicatori bancari e finanziari, oltre che ope legis a motivo del “public procurement” (diritto degli appalti) europeo e nazionale, anche in forza di un Trattato internazionale
cui aderisce l’Italia. La previsione di indicatori di redditività e di tipo finanziario relativi a flussi di cassa degli investimenti, comprometterebbe l’obbligo di tutela laddove, a causa di tali indicatori, non si rinvenissero investitori in PPP, per le opere selezionate a mezzo del processo programmatorio-valutativo del detto Dlgs, a causa, ad es., di insufficienti indici di solvibilità del concessionario o di redditività dell’investimento o ad es., a causa della revoca della concessione in PPP dovuta a mancata stipula del contratto di finanziamento bancario, ex-art.180 comma 7 del D.Lgs 50/16.
Con riferimento al settore della conservazione/tutela svolto con contratti di appalto, tali previsioni arrecano, pertanto, un doppio vulnus all’adempimento degli obblighi di tutela costituzionalmente sanciti, determinando, prima, la impossibilità di realizzazione di investimenti di conservazione/tutela causa la loro non valutabilità e, dunque, non selezionabilità nonché, secondariamente, a causa dell’eventuale successivo mancato finanziamento bancario degli interventi selezionati.
Tipologia interventi di conservazione | Tipologia contrattuale | Indicatori del Vademecum | Fattibilità della previsione per i fini del D.Lgs 228/11 |
conservazione/tutela | Appalti pubblici | TIR/E e VAN/E (Vademecum pag. 18), TIR/F e VAN/F, (Vademecum pag. 19) DSCR e LLCR (Vademecum pag.19/20) | Non fattibile |
conservazione/valorizzazione | Concessioni/project finance/PPP | TIR/E e VAN/E (Vademecum pag. 18), TIR/F e VAN/F, (Vademecum pag. 19) DSCR e LLCR (Vademecum pag.19/20) | Fattibile |
13. PAGINE 5/6 E FIGURA 2 DEL VADEMECUM : PERIMETRO DI VALUTAZIONE “SOGLIE SOPRA I 10 MEURO” – CONSEGUENZE
Alle pagine 5/6 del Vademecum e nella figura 2, al capitolo “perimetro di valutazione”, si dispone che si sottopongono al processo valutativo del Dlgs 228/11 le opere Oopp2 sopra 10 meuro nella categoria a), ovvero per “interventi di rinnovo del capitale, quali ad esempio manutenzione straordinaria, recupero e ristrutturazione”, di cui al punto 2.5. del DPCM 3 agosto 2012, allegato 1. Non sono sottoposte alla valutazione del D.Lgs 228/11 gli interventi della stessa categoria a)[lxvii] sotto la soglia di 10 meuro[lxviii].
Giova rammentare che nella categoria d) punto 2.5. del DPCM 3 agosto 2012, allegato 1, sono previste “opere di qualsiasi dimensione, escluse quelle di cui alla precedente lettera a), per le quali e’ prevista una tariffazione del servizio”.
Se ne deduce che anche le opere a tariffazione del servizio (project finance, concessioni e PPP) appartenenti alla categoria a) “manutenzione straordinaria, recupero e ristrutturazione” debbano essere escluse dal perimetro della valutazione ove sotto i 10 milioni di euro.
I parametri ed indicatori, sopra visti, per le opere sopra i 10 meuro non sono, però, relativi a contratti di appalto di cui alla Parte II del Codice Contratti, ma solo, per come visto, ai contratti di concessione e PPP delle Parti III e IV del Codice, contratti basati su valutazioni economiche e finanziarie in toto non previste nei contratti di appalto né adattabili a questi.
Conseguentemente, l’asserzione che investimenti superiori a 10 meuro debbano essere giustificati dalla domanda di mercato, con gli indicatori di redditività e di tipo finanziario relativi a flussi di cassa previsti dal decreto legislativo in esame, etc., comporterebbe la denegazione istituzionale dell’obbligo di tutela laddove non si rinvenissero investitori in PPP, per le opere selezionate a mezzo del processo programmatorio-valutativo del detto Dlgs, a causa, ad es., di insufficienti indici di bancabilità. Si ricorda, in proposito, che l’Italia è uno dei paesi in Europa con il più basso utilizzo di strumenti di PPP/project finance nel settore.
E’ pertanto, manifestamente illogico e contra legem qualunque atto amministrativo di programmazione, di valutazione e di selezione che possa direttamente o indirettamente fare venire meno i detti obblighi costituzionali di tutela al superamento di una soglia di 10 milioni di euro di investimento, soglia non esistente nell’ordinamento giuridico della Repubblica.
I compiti di tutela devono essere ordinariamente svolti anche con grandi investimenti di decine di milioni di euro per il recupero, restauro di complessi monumentali o parchi archeologici.
Tali previsioni arrecano un doppio vulnus all’adempimento degli obblighi di tutela costituzionalmente sanciti, determinando da una parte un incertezza (rectius impossibilità) di finanziabilità per gli interventi di conservazione sotto i 10 milioni di euro, dall’altra un ulteriore incertezza di finanziabilità a causa dei parametri ed indicatori, per come visto, non adattabili ai contratti di appalto propri degli interventi di conservazione-tutela sopra i 10 meuro.
Tipologia interventi di conservazione | Tipologia contrattuale | Perimetro di valutazione ”del D.Lgs 228/11 (pagine 5/6 e figura 2 del Vademecum) |
conservazione/tutela | Appalti pubblici | Categoria a) > 10 meuro |
conservazione/valorizzazione | Concessioni/project finance/PPP | Categoria d) > 10 meuro |
14. MANCATO INTERVENTO DEL LEGISLATORE PER L’ARMONIZZAZIONE TRA CODICE DEI CONTRATTI E DLGS 228/11 – RIFERIMENTO (ANCORA UNA VOLTA) SOLO A CONTRATTI DI CONCESSIONI E PPP NEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI
Il Codice dei Contratti, al combinato disposto degli artt.200 e 201, relativi alle infrastrutture ed insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese, tratta del Documento Pluriennale di Pianificazione (DPP) di cui al D.Lgs 228, con riferimento a dette infrastrutture prioritarie.
Sarebbe stato lecito attendersi dopo il D.Lgs 228/11 ed il DPCM 3 agosto 2012 un ulteriore avanzamento in termini tanto di implementazione normativa in materia di ciclo della programmazione, valutazione e selezione, quanto in termini di risistemazione e riarmonizzazione del nuovo sistema di soft-law del Codice dei Contratti Pubblici, Linee Guida, Decreti, etc. (fatto in recepimento delle Direttive UE 23, 24 e 25 del 2014) con l’impianto di previsioni del D.Lgs 228/11.
Tutto ciò non è stato fatto né nel primo caso, né nel secondo.
Anzi, nel primo settore, quello della programmazione ordinaria delle infrastrutture, si ignora tout court tutto il sistema di disposizioni e sanzioni relative al ciclo di valutazione e selezione sopraccitato.
L’art. 21 del Codice relativo alla pianificazione degli acquisti di beni e servizi e sulla programmazione dei lavori pubblici, infatti, non cita né si riferisce alle previsioni del D.Lgs 228/11[lxix]. Nè lo fa lo schema di decreto cui rinvia l’art. 21 comma 8 né il Consiglio di Stato nel suo parere sul tema[lxx].
Anzi il Consiglio di Stato nel passaggio relativo ad un’“adeguata valutazione ex ante e ex post dei singoli interventi”, afferma che “essa risulta certamente condivisibile (rectius: necessaria) in via di principio ma, nell’attuale formulazione, si traduce in una semplice petizione di principio, priva di contenuto concreto”.
Il Cipe, poi, nel prendere atto delle «Linee guida per la valutazione degli investimenti in opere pubbliche» redatte dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (le uniche trasmesse ed approvate, per come era facile prevedere[lxxi]) osserva, tra le altre cose, che bisogna “analizzare ed esplicitare meglio le relazioni tra il DPP e i Programmi triennali delle opere pubbliche di cui all’art. 21, comma 8, del decreto legislativo n. 50/2016”[lxxii].
Esiste, dunque, coscienza, fino al livello del Comitato Interministeriale suddetto, della mancanza di relazioni tra Codice Contratti e D.Lgs 228/11 in ordine alla programmazione.
Il Codice Contratti Pubblici, in effetti, fa riferimento al D.Lgs 228 ma, lo vedremo tra poco, solo nel caso delle grandi opere strategiche (oggi chiamate “prioritarie”), confermando, però, in toto quanto già sopra osservato.
Nel secondo caso, non è stata fatta alcuna armonizzazione del nuovo Codice, pur subentrato in due fasi successive nell’aprile 2016 e aprile 2017, con il D.Lgs 228/11 al fine di rendere coerenti i vari punti di criticità sopra esaminati rispetto al sistema degli appalti pubblici e delle concessioni.
Il legislatore, in altre parole, vista la reiterata renitenza dei Ministeri all’attuazione del D.Lgs ed, in prima istanza nella redazione delle Linee Guida, avrebbe potuto cogliere l’occasione al volo della redazione del nuovo Codice dei Contratti al fine di eliminare o mitigare i forti punti di contrasto tra il D.Lgs 228 e l’impianto della normativa Italiana di public procurement[lxxiii].
Salvo un piccolissimo intervento di cui alla nota 73, nulla di tutto questo è successo.
Le molteplici contraddizioni e disarmonie tra i due strumenti normativi sono rimaste intatte.
Dunque, il legislatore ha obiettivamente mostrato disinteresse rispetto al tema, perdendo tanto l’occasione di chiarire quanto di emendare i dettati normativi.
Nè ha provveduto ancora il nuovissimo Decreto Correttivo, D.Lgs 19 aprile 2017, n. 56.
Abbiamo, dunque, avuto un legislatore colpevolmente distratto o trattasi dello spirito proprio del legislatore?
Tale inazione reiterata, a partire dal 2012[lxxiv], rappresenta forse lo spirito o il senso del legislatore?
La risposta non può che essere di sì e ce lo conferma proprio il dettato legislativo.
E’ un caso che al comma 2 dell’art.200 si preveda che tali infrastrutture prioritarie, valutate a termini del D.Lgs 228/11, siano realizzate con contratti di: “a) concessione di costruzione e gestione; b) affidamento unitario a contraente generale; c) finanza di progetto; d) qualunque altra forma di affidamento prevista dal presente codice compatibile con la tipologia dell’opera da realizzare[lxxv]”?
Non lo è, attesa la stessa logica dei detti investimenti strategici.
Essi per determinare i detti processi di sviluppo del Paese devono essere, ovvero, promossi e/o partecipati e/o gestiti da privati ed in quanto tali gestiti sotto le forme contrattuali della concessione, del PPP e del project finance (o dell’affine contratto di contraente generale[lxxvi]).
Se, poi, analizziamo il punto d) sopraccitato, “qualunque altra forma di affidamento prevista dal presente codice compatibile con la tipologia dell’opera da realizzare”, i nostri dubbi trovano ulteriore conferma.
Il “legislatore della contrattualistica pubblica” parla di affidamenti “compatibili” con la tipologia delle opere prioritarie, da valutare e selezionare a termini del D.Lgs 228/11. A ns avviso è ovvio che tali “progetti compatibili” sono quelli del PPP (public private partnership) stretti cugini di quelli di cui al comma 2 dell’art.200.
Il legislatore del Codice dei Contratti è, claris verbis, ben conscio dei problemi di compatibilità tra sistemi contrattuali di public procurement e impianto normativo di valutazione e selezione progettuale.
Se ne deduce che il legislatore del D.Lgs 50/16 e dell’ultimo 56/17 sa che i contratti di appalto non sono compatibili con il sistema di valutazioni e selezioni disegnati dal D.Lgs 228/11, dal DPCM 3 agosto 2012 e dal Vademecum.
Ancora di più, anticipiamo, l’unico Ministero oggi deputato, secondo il “legislatore della contrattualistica pubblica” a potere scegliere gli unici investimenti (quelli prioritari) che potrebbero essere programmati a mezzo delle dette attività valutative è il MIT (Ministero Infrastrutture) e non il MIBACT. Ci torniamo, però, tra poco[lxxvii].
Tanto conferma la tesi di questo saggio.
Laddove si devono applicare le valutazioni economico-finanziarie di cui al D.Lgs 228 si ci deve riferire agli istituti contrattuali concessori e del PPP e mai ai contratti di appalto.
Anche lo stesso Vademecum del DIPE e del DPS[lxxviii] a pag, 19 nota 43, per come detto prima, rimanda al già citato documento “Piano economico-finanziario ex art. 4, comma 140, della legge n. 350/2003: Schema sintetico da allegare alle richieste di assegnazioni di fondi a carico delle risorse di cui all’art. 1, comma 7, lett. f. del D.Lgs. n.190/2002” (Legge Obiettivo).
Tale documento, lo ricordiamo, tratta dei già visti indicatori finanziarie e bancari, etc., ovvero di termini propri dei business plan (PEF) di opere realizzate in PPP, finanza di progetto o da società private ed, a pag. 16, sottolinea: “Lo schema in oggetto e stato predisposto avendo principalmente a riguardo (…) la realizzazione del progetto in base a un modello societario di tipo project finance oppure a una più convenzionale soluzione corporate”.
Se, da un canto la normativa del Codice Contratti è in palese contrasto con il D.Lgs 228/11 e dall’altro limita i progetti oggetto delle valutazioni di cui al D.Lgs 228/11 ai contratti di concessione, PPP, general contractor e project finance, è anche vero che lo stesso Vademecum 2014/2015 del DIPE e del DPS rimanda ad un documento relativo alla Legge Obiettivo[lxxix] che parla di progetti privati in project finance o di società private o pubblico private.
Siamo, pertanto, turned full circle again con tutti gli strumenti normativi o regolatori messi di recente in campo, che riconfermano quanto affermato sopra.
I contrasti normativi rimangono confermati e, a questo punto, avvalorati da entrambe le parti, tanto dal legislatore più recente quanto dai Dipartimenti di recente coinvolti nella redazione del detto Vademecum.
15. CHI E’ VERAMENTE COMPETENTE ALLA REDAZIONE DEL D.P.P.? PROBLEMATICHE DELL’ EVOLUZIONE NORMATIVA
Il Dlgs 228/11, all’art.1, recita che obbligati a dette attività valutative e selettive sono I Ministeri e che predette attività di valutazione sono obbligatorie per le opere finanziate a valere sulle risorse iscritte negli stati di previsione dei singoli Ministeri ovvero oggetto di trasferimento da parte degli stessi a favore di soggetti attuatori, pubblici o privati, in forza di specifica delega. Le predette attività sono altresì obbligatorie per le opere pubbliche che prevedono emissione di garanzie a carico dello Stato.
Abbiamo detto che nel settore della programmazione ordinaria delle infrastrutture, l’art.21 del Codice dei Contratti ignora il sistema di disposizioni e sanzioni relative al ciclo di valutazione e selezione sopraccitato, non facendo mai riferimento al D.Lgs 228/11.
Nè gli evidenti contrasti tra le normative sulle valutazioni sono stati sanati o mitigati dalla normativa in materia di contrattualistica pubblica succedutasi nel corso degli ultimi due anni.
Tanto ci ha fatto sospettare una colpevole inerzia/disinteresse del legislatore o un intento deliberato dello stesso. Il comma 2 dell’art.200 abbiamo detto conferma la ns interpretazione relativa ad un intento del legislatore che mira ad escludere dal sistema delle valutazioni i contratti di appalto, restringendo le stesse solo a concessioni e project finance. Ma c’è di più.
Il nuovo decreto correttivo (D.Lgs 56/16) cambiando lo stesso art.201 fa capire quale sia il reale intento del legislatore.
Il nuovo comma 3 stabilisce che “Il Documento Pluriennale di Pianificazione (DPP) di cui al decreto legislativo 29 dicembre 2011 n. 228, di competenza del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, oltre a quanto stabilito dal comma 2 dell’articolo 2 del decreto legislativo n. 228 del 2011, contiene l’elenco delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese, ivi compreso gli interventi relativi al settore dei trasporti e della logistica la cui progettazione di fattibilità è valutata meritevole di finanziamento, da realizzarsi in coerenza con il PGTL. Il DPP tiene conto dei piani operativi per ciascuna area tematica nazionale definiti dalla Cabina di regia di cui all’articolo 1, comma 703, lettera c), della legge 23 dicembre 2014, n. 190”.
Bene, il precedente D.Lgs 50/16, al comma 3 dell’art. 201 recitava che il DPP “contiene l’elenco degli interventi relativi al settore dei trasporti e della logistica la cui progettazione di fattibilità e’ valutata meritevole di finanziamento (…).
Il Decreto Correttivo alla stessa norma ora corregge scrivendo che il DPP “contiene l’elenco delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese, ivi compreso gli interventi relativi al settore dei trasporti e della logistica la cui progettazione di fattibilità è valutata meritevole di finanziamento”.
Tanto fa capire l’intento reale del legislatore.
Mentre per legge, prima, il DPP del MIT si doveva occupare solo dei trasporti e della logistica oggi si deve occupare di tutte le “ infrastrutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese”, “ivi compresi gli interventi relativi al settore dei trasporti e della logistica”.
Dunque la competenza del MIT si è allargata in sede di predisposizione del DPP di competenza a tutte le infrastrutture e insediamenti prioritari[lxxx].
Conferma sta nel successivo periodo del comma 3 dello stesso articolo 201: “Il DPP tiene conto dei piani operativi per ciascuna area tematica nazionale definiti dalla Cabina di regia di cui all’articolo 1, comma 703, lettera c), della legge 23 dicembre 2014, n. 190[lxxxi]”.
I detti Piani Operativi per ciascuna area tematica nazionale, per come definiti dalla Cabina di regia[lxxxii], sono stati approvati con Delibera Cipe 25 del 2016.
Di seguito le assegnazioni per aree tematiche ai sensi dell’articolo 1, comma 703, lettere b) e c) della legge n. 190/2014: :
La stessa Delibera Cipe 25/16 assegna 15.200,00 milioni di euro ai Piani operativi di seguito elencati:
Per come si vede i piani operativi per le aree tematiche di cui il MIT deve tenere conto per l’elaborazione del proprio D.P.P comprendono settori come l’ambiente, lo sviluppo economico e produttivo e l’agricoltura estranei alle competenze del MIT, così come tra le aree tematiche nazionali figura il turismo, cultura e valorizzazione risorse naturali, aree anch’esse estranee alle competenze del MIT.
Dunque, riassumendo, il MIT dovrebbe fare un proprio DPP per progetti prioritari per lo sviluppo del Paese da valutare e selezionare a termini del D.Lgs 228/11 in tutti i settori di cui alle aree tematiche e piani operativi della Delibera Cipe 25/16.
Se ne evince, pertanto, che il MIBACT, almeno per il “legislatore della contrattualistica pubblica”, non è deputato a redigere il DPP nel settore dei progetti prioritari (lo è solo il MIT), mentre nulla quel legislatore dice relativamente a tale obbligo da parte del MIBACT nel settore dei progetti diversi dai progetti prioritari, giacché, come visto sopra, niente viene detto all’art. 21 del Codice in merito.
Se è vero che il legislatore nulla dice in merito al DPP per progetti non prioritari, è anche vero che non sono state né risolte né mitigate le contraddizioni tra il Dlgs 228/11 e la normativa dei contratti pubblici, rendendo, dunque, inservibili le previsioni del decreto legislativo 228 sui processi valutativi e selettivi con riferimento agli affidamenti senza coinvolgimento dei privati nel rischio (ovvero nei contratti di appalto per come visto sopra).
Sembrerebbe, dunque, che nella normativa più recente (D.Lgs 56/17) come nei pareri resi dal Consiglio di Stato, sia emersa una tendenza normativa che mira a sminuire la portata delle previsioni relative agli obblighi di valutazione e selezione (“semplice petizione di principio, priva di contenuto concreto”[lxxxiii]) per ridurle ad un ambito di progetti prioritari la cui valutazione e selezione debba essere imputata al solo Ministero per le Infrastrutture, con progetti da realizzare, si ricorda, a mezzo di contratti di concessione, PPP, general contractor e project finance.
CONCLUSIONI
Riassumendo quanto già trattato ai superiori punti, esiste una rilevantissima differenza tra contratti in concessione/project finance/PPP, e contratti di appalto, nei quali ultimi, si ricorda, a norma dell’art. 3 comma ii) agli operatori economici non viene trasferito alcun rischio di costruzione, di disponibilità e di domanda e tantomeno alcun rischio finanziario, a differenza dei contratti in PPP.
Tanto sono diversi i sistemi contrattuali pubblici che sono diverse le Direttive che disciplinano i due settori: la Direttiva 23/2014 disciplina le concessioni di servizi e lavori, mentre la 24/2014 disciplina gli appalti di forniture, servizi e lavori[lxxxiv]. E, non a torto, si era congetturato, in sede di recepimento, di redigere due diversi Codici, un Codice dei Contratti di Appalto e un Codice delle Concessioni.
Per come già sopra esposto nei superiori punti, è di tutta evidenza la non applicabilità di indicatori finanziari e bancari al settore delle opere di cui alla categoria a) sopra soglia, realizzate a mezzo di contratti di appalto.
Si corre, ripetiamo, il rischio, per i motivi sopra enunciati, di non potere valutare e selezionare progetti di conservazione/tutela in ragione della loro tipologia contrattuale di appalto pubblico di lavori, forniture di beni e servizi. L’ottemperamento di tale processo valutativo e selettivo è, però, la condicio sine qua non della finanziabilità di tali interventi[lxxxv].
Tale previsione è, pertanto, foriera di problematiche in relazione al rispetto o meno degli obblighi costituzionali di tutela in sede di programmazione.
A diritto positivo vigente è evidente il contrasto tra l’impianto programmatico, valutativo e selettivo del Dlgs 228/11 (come dei connessi DPCM 3 agosto 2012 e del Vademecum) e gli obblighi di tutela e conservazione costituzionalmente e penalmente sanciti nel settore del patrimonio culturale nonché con lo stesso sistema della contrattualistica pubblica Italiana ed Europea (con le citate Direttive), in riferimento alla diversa natura dei contratti di appalto e delle concessioni/PPP.
Il Vademecum, ne ha ristretto, è vero, l’applicazione per i soli progetti sopra soglia (10 milioni di euro in su) alla categoria a) propria degli interventi di conservazione, ancorché commettendo gli errori soprammenzionati nella definizione dei contenuti degli studi di fattibilità e nel perimetro dell’imputazione degli stessi obblighi, oltre che prevedendo la detta soglia di valutabilità, foriera di possibili vulnus ad obblighi costituzionali.
Ancora di più tesa a limitare il perimetro degli obblighi del D.Lgs 228, la legislazione ultima che, si ripete, non solo non ha corretto le incompatibilità tra la normativa contrattualistica e quella del D.Lgs 228/11, ma ha ristretto gli obblighi programmatici, di tipo valutativo e selettivo, ai soli progetti prioritari in concessione e project finance, attribuendone la competenza al solo Ministero Infrastrutture ed ignorando tali obblighi per i progetti non prioritari.
Concludendo, in coerenza con i criteri valutativi del D.Lgs 228/11, bisognerebbe incentivare prioritariamente non solo a livello centrale, ma anche a livello regionale e territoriale, la promozione di interventi soggetti a regime tariffario (anche a mezzo degli strumenti finanziari dell’art. 37 e ss del Reg.UE 1303/13 e delle risorse del Regolamento 2015/1017 del 25 giugno 2015, Piano Juncker).
Stante la sopra descritta impossibilità di realizzare e concludere i processi valutativi e selettivi previsti dal D.Lgs 228/11, sarebbe, infine, opportuno formulare, finalmente, correzioni e/o emendamenti alle descritte previsioni normative, nonché del Vademecum, che tengano conto delle criticità sopra esposte, in coerenza con tutti i profili costituzionali ed ordinamentali relativi agli obblighi di conservazione/tutela in capo alla Repubblica Italiana, anche in forza degli obblighi internazionali contratti dalla stessa.
Quello che in ultimo preme registrare è il risultato finale di una legiferazione d’urgenza, fatta sullo slancio emotivo della crisi finanziaria mondiale di qualche anno fa e tradottasi in una quasi unanime disapplicazione, per i più che fondati motivi costituzionali sopra esposti, proprio da parte dei Ministeri chiamati ad adempiere.
La considerazione (amara) finale tratta dall’esame della materia qui esposta è quella di una legislazione raffazzonata giacché, talvolta, non consapevole del quadro ordinamentale, ma, piuttosto, prona alle ragioni delle urgenze e dell’economia. Salvo, poi, scontrarsi con la realtà amministrativa e con la indifferenza del più attento legislatore della contrattualistica pubblica che non tiene conto punto di tali ragioni o che, come nel caso del Consiglio di Stato[lxxxvi], le qualifica quali “semplici petizioni di principio, prive di contenuto concreto”.
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L’autore è esperto legale c/o il Nucleo di Valutazione degli Investimenti Pubblici del Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo
PIU’ INFORMAZIONI SULL’AUTORE
Salvatore Aurelio Bruno, avvocato amministrativista, specializzato nella gestione e direzione di progetti di sviluppo locale (Gal Leader, PIT, Patti Territoriali, etc.) materia per la quale è anche esperto della Commissione Europea, è stato docente in materia di diritto dei beni culturali alla LUMSA di Palermo e consulente per vari anni dell’Assessorato Regionale Beni Culturali della Regione Siciliana. Già Presidente della Cabina di Regia per i Fondi Strutturali della Regione Siciliana, è stato poi impegnato nella valutazione ex-post del POIN Attrattori Culturali 2007-2013. Dal dicembre 2016 è esperto legale del Nucleo di Valutazione degli Investimenti Pubblici del Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo. Ha al suo attivo più di una ventina di pubblicazioni giuridiche in tema di sviluppo locale, beni culturali e project finance.
[i]
Importante il collegamento, comunemente operato dalla dottrina (cfr. G. Clemente di San Luca, Libertà dell’arte e potere amministrativo, Napoli, 1993, 24 e 25, nota 13, ed ivi ampi richiami), con il principio enunciato dall’articolo 33 della Costituzione (L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento).
Il principio del primato del diritto comunitario fu affermato per la prima volta nella celebre sentenza del 15 luglio 1964, Costa c. Enel. In quell’occasione la Corte sostenne che: con l’istituzione della Comunità gli Stati membri hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi; tale limitazione di sovranità ha come corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere contro tale ordinamento un provvedimento unilaterale ulteriore. Nella sentenza 9 marzo 1978, Amministrazione delle Finanze c. Simmenthal, la Corte fu ancora più diretta affermando che “in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere “ipso jure” inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche, in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri, di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie”. Il giudice nazionale “ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. La preminenza del diritto dell’Unione è oggi sancita dall’articolo 10 della Convenzione Europea: “La Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione nell’esercizio delle competenze a questa attribuite hanno prevalenza sul diritto degli Stati membri” (Convenzione di Bruxelles, art. 10-Diritto dell’Unione Europea, comma 1)
Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni su taluni aspetti giuridici riguardanti le opere cinematografiche e le altre opere audiovisive COM (2001)534 def., del 26 dicembre 2001 in GU C 43 del 16.2.2002, pp. 6–17 .
Si veda sul tema: “Beni culturali e diritto dell’Unione Europea” di M. Frigo CESEN “Diritto della Unione Europea e status delle confessioni religiose” (Roma, Istituto L. Sturzo, 8-9 ottobre 2010) e ancora A.L.De Cesaris e S. Nespor, “Codice dei beni culturali e del paesaggio – Normativa nazionale, internazionale ed europea”, 2004 e S.Italia “I beni culturali in Italia e in Europa”, Del Bianco, 1999.
Università Cà Foscari Venezia Tesi di Laurea “La politica culturale dell’Unione europea”, Laureanda T.Štifanić Anno Accademico 2011 / 2012
L’articolo 2 della Convenzione stabilisce per questo che “(…) la convenzione si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e peri-urbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati”
Il recente G7 Cultura svoltosi il 30 marzo 2017, a esordio dell’agenda G7 dell’Italia, si è concluso con la firma della dichiarazione di Firenze da parte dei Ministri e degli altri rappresentati della Cultura dei sette Paesi. La dichiarazione dei ministri della cultura del G7 ha a titolo “La cultura come strumento di dialogo tra i popoli” ed è incentrata su specifici impegni dei firmatari per la tutela, conservazione e relativo monitoraggio del patrimonio culturale mondiale ed, in particolare, nelle aree teatro di eventi bellici.
Sono state avanzate critiche sulla definizione congiunta di tutela e valorizzazione fatta nel detto articolato considerato che l’art.117 Costituzione, da poco riformato, aveva sancito la separazione anche istituzionale tra le due funzioni “in una prospettiva che vede negativamente la distinzione tra tutela e valorizzazione fonte di una pericolosa frammentazione del sistema delle responsabilità, delle azioni e dei controlli”, si veda pag. 44 di A.Ferretti “Manuale di diritto dei beni culturali e del paesaggio”, Sole 24 Ore, 2016
Sono beni culturali quei beni di acclarata rilevanza per l’archeologia, la letteratura, l’arte, la scienza, la demologia, l’etnologia o l’antropologia che costituiscono prodotto della cultura umana. In tal senso, si contrappongono ai beni già presenti in natura (c.d. “beni naturali”). I beni culturali si possono suddividere in beni materiali (fisicamente tangibili, es. un quadro) e in beni immateriali (es.una lingua). Secondo l’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42) sono sempre beni culturali: “le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico“. (si veda http://www.brocardi.it/costituzione/parte-ii/titolo-v)
Si impone una riflessione sul valore specifico ed intrinseco di tale “memoria della comunità nazionale”: ovvero, tale memoria non potrebbe essere meglio conservata e fruita con supporti digitali di realtà aumentata ed immersiva in grado di rendere ad es., la vita in una domus romana rivivendo la stessa in ogni dettaglio sensoriale, piuttosto che a mezzo del teatro della finzione e della ricostruzione, spesso arbitraria, di monumenti spesso restituiti, non alla fruizione, ma ad un ulteriore degrado a causa ad es. della insostenibile massa antropica di turisti? E’, in altre parole, in tempi di spending review e di crisi finanziaria, ancora sostenibile parlare di acquisizione, restauro e gestione di un immenso “feticcio patrimoniale” di ruderi e monumenti non restituiti al loro pristino utilizzo religioso, pubblico o domestico? Se tanto fosse condiviso, occorrerebbe mettere mano ad una profonda riforma della Costituzione, dell’impianto ordinamentale dei rapporti istituzionali e dello stesso Codice dei Beni Culturali. Altre “provocazioni” si vedano in “Privatizzazione e Patrimonio Culturale” Forum Internazionale Catania 2007, Proceedings, ICCROM 2007 ed in particolare nell’intervento di S.Bianca. Altra riflessione degna di nota è quella R.Varoli Piazza in “Sharing Conservation Decisions”, pag.139 e ss in “Del patrimonio culturale”, a cura di F.A.La Rocca, Bonanno, 2009
La parte sugli enti ecclesiastici è stata inserita dal D.Lgs 62/08.
A.Ferretti Manuale di diritto dei beni culturali e del paesaggio”, 2016 pag.46
G.Sciullo indica le precedenti definizioni della tutela come caratterizzate da una forte genericità. Con il Codice si passa ad un sistema ove il legislatore individua i contenuti della tutela con i suoi interventi all’interno del Codice dei beni culturali o al di fuori di esso. Si veda G. Sciullo in “I servizi culturali dello Stato”, in Giornale Diritto Amministrativo, 2004
A.Ferretti “Manuale di diritto dei beni culturali e del paesaggio”, 2016 pag.52, osserva che l’art.4 sembra contraddire il principio di sussidiarietà secondo il quale le funzioni amministrative devono essere conferite alla istituzione più prossima ai cittadini, e il principio di adeguatezza e differenziazione, laddove riproduce la distribuzione delle funzioni legislative in quelle amministrative, ignorando, dunque, la sussidiarietà.
Vedi nota 13
A.Accadia, L.Alfidi, G.Panassidi I beni culturali e paesaggistici 2006 Sole 24 Ore, pag. 43 e P. Carpentieri in “Fruizione, valorizzazione, gestione dei beni culturali Relazione tenuta al convegno “Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio. Prospettive applicative” su AvvocatiAmministrativisti.it.
Il termine “valorizzazione”, predicato dei beni culturali, compare per la prima volta in un testo normativo nel 1964, con la legge 26 aprile 1964 n. 310 istitutiva di una commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio (cd. Commissione Franceschini, dal nome del suo presidente). L’enunciato “valorizzazione dei beni culturali” è quindi adoperato dal decreto legge 14 dicembre 1974 n. 657, di istituzione del Ministero per i beni culturali e l’ambiente (poi divenuto, nella legge di conversione 29 gennaio 1975 n. 5, Ministero per i beni culturali e ambientali). Ricorre altresì nel d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616, al capo VII (“beni culturali”) del titolo III (“servizi sociali”), che rinviava a una successiva legge “sulla tutela dei beni culturali” l’individuazione delle funzioni amministrative delle regioni e degli enti locali “in ordine alla tutela e valorizzazione del patrimonio storico, librario, artistico, archeologico, monumentale, paleo-etnologico ed etno-antropologico”.
A.Ferretti Manuale di diritto dei beni culturali e del paesaggio”, 2016, pag. 54
Per un’analisi delle più recenti esperienze applicative vedasi S. Gardini, La valorizzazione integrata dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2016, 2, pag. 403 ss.
- Severini, I principi del codice dei beni culturali e del paesaggio, in Giornale di diritto amministrativo, n. 5/2004, 472
Fruizione, valorizzazione, gestione dei beni culturali Relazione tenuta al convegno “Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio. Prospettive applicative” di P. Carpentieri su AvvocatiAmministrativisti.it. Parimenti N. Aicardi, L’ordinamento amministrativo dei beni culturali, Torino, 2002; C. Barbati, Le forme di gestione, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli e G. Sciullo, Bologna, 2002; L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, pagg. 698 e ss.
L’art. 30 del Codice dei Beni Culturali prevede che lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali nonche’ ogni altro ente ed istituto pubblico hanno l’obbligo di garantire la sicurezza e la conservazione dei beni culturali di loro appartenenza.
Si veda A.Accadia, L.Alfidi, G.Panassidi I beni culturali e paesaggistici 2006 Sole 24 Ore, pag. 43 e Fruizione, valorizzazione, gestione dei beni culturali Relazione tenuta al convegno “Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio. Prospettive applicative” di P. Carpentieri su AvvocatiAmministrativisti.it. In senso diverso, Sciullo osserva in proposito della analogia tra tutela e conservazione che essa “è un quid diverso rispetto alla tutela stessa, pur essendone prevista come una finalità di cui all’art.3 comma 1. L’apparente contraddizione si risolve considerando che la conservazione non è stata normativizzata come tutela, risultandone estranea alla disciplina e all’esercizio della funzione (citato a pag. 48 di A.Ferretti Manuale di diritto dei beni culturali e del paesaggio”, 2016)
Anche la sponsorizzazione dei beni culturali appartiene alla valorizzazione e non alla tutela. Dal punto di vista sistemico essa è infatti collocata al Capo II Principi della valorizzazione dei beni culturali del Codice dei Beni Culturali all’art. 120.
Si veda in A.Ferretti “Manuale di diritto dei beni culturali e del paesaggio”, 2016, pag. 50, “La distinzione operata è apparsa quasi subito artificiosa, confusa nella sua individuazione e di difficile applicazione”
- Aicardi, op. cit., 230 e nota 36
Secondo alcuni giuristi i concetti tutela/valorizzazione costituiscono un’inscindibile entità, che esprime un unico concetto (G. Severivi, op. cit., 472; P. Carpentieri, Tutela e valorizzazione dei beni culturali, nota di commento a Corte costituzionale 28 marzo 2003, n. 94, in Urbanistica e Appalti, n. 9/2003, 1017 ss.). Si vedano le sentenze della Corte Costituzionale : cfr. sentenze 9 e 24 del 2004.
“esigenza di trovare un equilibrio interistituzionale e politico tra le istanze centraliste e quelle regionaliste e/o federaliste”, suggerisce P. Carpentieri in “Fruizione, valorizzazione, gestione dei beni culturali Relazione tenuta al convegno “Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio. Prospettive applicative” su AvvocatiAmministrativisti.it.
partenariati istituzionali previsti dall’art. 5 par.3 del Reg.Ue 1303/13 e dal Reg.Del.(UE) n.240/2014 relativo al Codice europeo di condotta sul partenariato nell’ambito dei fondi strutturali e d’investimento europei
A norma dell’art. 120 della Costituzione, il principio di collaborazione fa sì che il potere centrale sia esercitato tenendo in considerazione gli enti territoriali coinvolti e ponendoli tutti sul medesimo livello, senza distinzioni gerarchiche.
- Abbamonte, Attualità e prospettive di riforma del processo amministrativo, Dir. Proc. Amm., n. 2/2004, 380
Più che di collaborazione istituzionale si può parlare oggi di conflitto istituzionale. Di recente si è registrato uno scontro istituzionale senza precedenti nella storia delle politiche culturali in Italia, scontro consumatosi tra il Sindaco della Capitale ed il Ministero per i Beni Culturali. La Giunta Capitolina ha infatti impugnato al TAR atti del Ministero relativi alla riorganizzazione della Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’Area archeologica centrale di Roma. Essi sono il Decreto del Mibact del 12 gennaio 2017, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il successivo 10 marzo 2017 relativo all’adeguamento delle soprintendenze speciali agli standard internazionali in materia di musei e luoghi della cultura ed il decreto n. 149 del 27 febbraio 2017, con cui è stata indetta la selezione pubblica internazionale per il conferimento dell’incarico di direttore del Parco. Contro tali decreti il Comune di Roma ha presentato ricorso al TAR. Il Parco Archeologico del Colosseo (6,4 mln di visitatori l’anno per 60 mln di euro di incassi l’anno) gestisce la porzione del Foro Romano di competenza del Mibact, il Palatino e la Domus Aurea. Va notato con riferimento a detta cooperazione istituzionale che il citato contenzioso davanti al TAR nasce all’indomani del fallimento dell’accordo di valorizzazione comune dell’area monumentale siglato il 21 aprile 2015.
- Calamandrei, Immobili per destinazione, in Foro It., 1933, 1722, M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963; id., I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 20 e ss. Si veda ancora A.Ferretti Manuale di diritto dei beni culturali e del paesaggio”, 2016 pagg-48-54.
parere reso il 18 dicembre 2003 sullo schema di codice
Corte Costituzionale 20 gennaio 2004, n. 26. si veda anche A.Accadia, L.Alfidi, G.Panassidi I beni culturali e paesaggistici 2006 Sole 24 Ore, pag. 46
G.Piperata “La valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata” (art.113) in Aedon, n. 1, 2004
- Carpentieri in “Fruizione, valorizzazione, gestione dei beni culturali Relazione tenuta al convegno “Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio. Prospettive applicative” su AvvocatiAmministrativisti.it. Si veda anche R.Bifulco “Il concetto di tutela nel codice dei beni culturali: commento agli art.2-5”, Diritto &Diritti, portale giuridico.
C.Barbati, M. Cammelli e G. Sciullo (a cura di) “Il diritto dei beni culturali”, Il Mulino, Bologna, 2003
cfr., Cass. Pen., Sez. III, 24 Ottobre 2008 n. 42893, in ‘Cass. Pen.’, 2009, 7-8, 3057
cfr., Cass. Pen., Sez. III, 12 Maggio 1993, Cinelli, in ‘Giustizia Penale’, 1994, II, 310
cfr., Cass. Pen., Sez. III, 12 Maggio 1993, Cinelli, op. cit.; in tal senso, per quanto riguarda la giurisprudenza di merito, Pretura Firenze, 5 Giugno 1990, in ‘Giurisprudenza di merito’, 1992, 1336
“La protezione penale del patrimonio culturale nell’ordinamento giuridico Italiano”, a cura di G.Gambogi, pag. 9, intervento al V Seminario International de Arte y Derecho – Barcellona 17 maggio 2013
cfr., Cass. Pen., Sez. III, 15 Ottobre 1980; Cass. Pen., Sez. III, 7 Novembre 1974, Andracchio, in ‘Cass. Pen.’, 1976, 355
Ai soggetti giuridici possono partecipare privati proprietari di beni culturali suscettibili di essere oggetto di valorizzazione, nonché persone giuridiche private senza fine di lucro, anche quando non dispongano di beni culturali che siano oggetto della valorizzazione, a condizione che l’intervento in tale settore di attività sia per esse previsto dalla legge o dallo statuto. Anche indipendentemente dagli accordi per piani strategici summenzionati, possono essere stipulati accordi tra lo Stato, per il tramite del Ministero e delle altre amministrazioni statali eventualmente competenti, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali e i privati interessati, per regolare servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali. Con gli accordi medesimi possono essere anche istituite forme consortili non imprenditoriali per la gestione di uffici comuni.
Relativamente ad investimenti di project finance nel settore dei beni culturali sia consento rimandare a A.Angelini e A.Bruno “Place-Based – sviluppo locale e programmazione 2014-2020”, F.Angeli, 2016, pag. 176 e ss.
In ordine alla tematica generale della normativa in materia di project finance e concessioni, ci permettiamo di rinviare al testo di A.Bruno “Project Financing e project bonds – testo aggiornato al Decreto legge “Sblocca Italia e alla Direttiva 2014/23 sulle concessioni”, ISBN 9781291995992 – 2015
I dubbi in ordine alla compatibilità del project financing con l’esercizio della funzione di tutela e valorizzazione dei beni culturali sono stati superati dalla giurisprudenza nel caso relativo al progetto di restauro del complesso monumentale noto come “Ospedale Vecchio” sulla quale si è espresso (per ben due volte) in primo grado il TAR Emilia Romagna, Parma, con le sentenze 4 dicembre 2007, n. 618 e 3 giugno 2008, n. 304 e poi il CDS che smentiva la posizione assunta dai TAR. “Al contrario, proprio la previsione del project financing dimostra che la fruizione pubblica può essere compatibile con la gestione privata di una parte (minoritaria) del bene culturale” (così Consiglio di Stato, sez. VI, 23 luglio 2009, n. 4639 riprendendo le parole di Consiglio di Stato, sez. VI, 11 luglio 2008, n. 3507). Tra le pochissime applicazioni dell’istituto si annoverano: l’ex Albergo Impiegati di Monfalcone (Go); Villa Tolomei a Firenze; l’ex Dogana vecchia Molfetta (BA), il Museo Ex Depò a Ostia (Roma); Villa Porro Lambertenghi a Casina Rizzardi di Como; centro storico di Burgio (Ag). Si veda “Strumenti giuridici della valorizzazione economica del patrimonio monumentale” di M.Cammelli in “La valorisation économique des biens culturels locaux en France et en Italie”, Toulouse, 21 novembre 2014 Pubblicato da Aedon www.aedon.mulino.it
Lo stesso art. 180 al comma 7 prevede che la “disponibilità di un finanziamento è condizione di ammissione al contratto di partenariato pubblico privato e che il contratto e risolto di diritto ove il contratto di finanziamento non sia perfezionato entro dodici mesi dalla sottoscrizione del contratto”. Medesima previsione di cui all’art. 180 comma 7, vale nel settore delle concessioni a norma dell’art. 165 comma 3 del D.Lgs 50/16.
Altrettanto vale anche per gli interventi di sponsorizzazione finanziati dal privato al pubblico per opere realizzate dal pubblico a mezzo contratti di appalto (art. 19 comma 1 del D.Lgs 50/16). Nei casi di interventi finanziati e realizzati dai privati si veda l’art.19 comma 2 del D.Lgs 50/16. Con riferimento ai beni culturali si vedano gli articoli 151 del D.Lgs 50/16 e art.120 del D.Lgs 42/04.
A norma dell’art. 9 del regolamento FEIS “La garanzia dell’Unione e concessa per le operazioni di finanziamento e di investimento della BEI approvate dal comitato per gli investimenti o per il finanziamento del FEI o la concessione al medesimo di una garanzia ai fini dell’esecuzione di operazioni di finanziamento o di investimento della BEI…” . Tra i settori previsti dallo stesso articolo sono enunciati al punto g) …”capitale umano, cultura e salute, in particolare mediante: ii) industrie culturali e creative; vi) turismo”. Nel considerando 20 si legge: Il FEIS dovrebbe sostenere progetti nei settori del capitale umano, della cultura e della salute, compresi progetti nei settori dell’istruzione, della formazione, dello sviluppo di competenze nel campo delle TIC e dell’istruzione digitale, nonche progetti nel settore culturale e creativo, del turismo e in ambito sociale. Gli investimenti in tali settori dovrebbero adottare un approccio globale che, in ciascun caso, rispetti adeguatamente il valore intrinseco dell’istruzione e della cultura. A norma del Regolamento “Il sostegno e fornito dal FEIS ad operazioni che fanno fronte ai fallimenti del mercato o a situazioni di investimento sub-ottimali e che la BEI, il FEI o gli strumenti finanziari esistenti dell’Unione non avrebbero potuto effettuare, o non avrebbero potuto effettuare in egual misura, nel periodo durante il quale e possibile utilizzare la garanzia dell’Unione, senza il sostegno del FEIS”. Dunque il Regolamento FEIS non consente, a rigor di interpretazione letterale, il finanziamento delle opere pubbliche di valorizzazione del patrimonio culturale, bensì solo quello delle industrie culturali, creative e del turismo. A conferma di ciò la verifica del sito internet istituzionale della BEI rivela la mancanza di un qualsivoglia progetto di investimento pubblico di opere finanziato dal FEIS nel settore culturale. Il Ministro Franceschini ha comunque chiesto nel novembre 2016 una riforma del Reg.1017 al fine di inserire il finanziamento anche di beni (assets) culturali e non solo delle industrie creative.
Si ripete, anche qui, è in astratto possibile che il rischio finanziario possa essere assunto dal pubblico a mezzo di prestiti bancari che vedano quale beneficiario l’ente pubblico. Attesa la disastrata situazione dei conti pubblici e gli equilibri di bilancio tale possibilità di approvvigionamento finanziario è, comunque, oggi preclusa al Sistema Italia in generale.
F.Barca, Sintesi, versione italiana del Rapporto, pp. 7-8 citato in A.Angelini e A.Bruno Place-Based – sviluppo locale e programmazione 2014-2020, F.Angeli, 2016. In esso si legge, tra l’altro: “Una politica place-based è una strategia a lungo termine finalizzata ad affrontare la persistente sottoutilizzazione di risorse e a ridurre la persistente esclusione sociale in specifici luoghi attraverso interventi esterni e una governance multilivello. Questa politica promuove la fornitura di beni e servizi pubblici integrati adattati ai contesti e mira a innescare cambiamenti istituzionali. Nell’ambito di una politica place-based gli interventi pubblici si basano sulla conoscenza dei luoghi, sono verificabili e sottoposti a sorveglianza; anche i collegamenti fra i luoghi sono tenuti in considerazione. Esistono forti motivi perché l’Unione destini una larga parte del bilancio comunitario a una strategia place-based che sia di complemento al completamento del mercato unico. Solo una strategia place-based può permettere all’Unione di rispondere all’aspettativa dei propri cittadini di beneficiare dei vantaggi economici dell’unificazione, indipendentemente da dove essi vivono, di avere pari accesso alle opportunità e di far fronte ai rischi. Questo risultato può essere raggiunto ricorrendo a una governance moderna nella quale gli Stati membri e le Regioni, secondo gli ordinamenti nazionali, conservano la responsabilità di adattare gli interventi ai propri contesti. In particolare, esistono ottimi motivi per costruire all’interno della politica di coesione un’agenda sociale territorializzata mirata a garantire standard socialmente condivisi di benessere per gli aspetti della vita ai quali individui e gruppi attribuiscono priorità elevata. Questo rappresenterebbe un tipo di contratto sociale tra l’Unione e i suoi cittadini e un modo, nel più lungo termine, per incoraggiare la mobilità fra Stati membri riducendo le paure che essa suscita. Nel realizzare una tale politica l’Unione ha un vantaggio rispetto ai singoli Stati membri, poiché essa è in grado di tenere conto delle interdipendenze fra luoghi a cavallo dei confini nazionali, che rivestono un’importanza sempre maggiore per la crescita dell’Unione. Inoltre l’Unione è meno soggetta alla pressione di gruppi d’interesse locali che possono alterare o ostacolare i percorsi di sviluppo”
Sul tema degli indicatori economici vedi: Journal of Socio-Economics 31 (2002) 529–558 “Cultural heritage as multi-dimensional, multi-value and multi-attribute economic good: toward a new framework for economic analysis and valuation” di M. Mazzanti
Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 3.8.2012, Attuazione dell’articolo 8, comma 3, del decreto legislativo 29 dicembre 2011, n. 228 in materia di linee guida per la valutazione degli investimenti relativi ad opere pubbliche e del Documento pluriennale di pianificazione degli investimenti in opere pubbliche, in GU n. 273 del 22.11.2012.
Le valutazioni di sostenibilità economico-finanziaria delle opere pubbliche nella normativa italiana: finzioni, www.notavbrennero.info, 14.2.2015, pag. 15
Sulle esperienze di programmazione nel settore dei beni culturali in Sicilia sia consentito citare: A.Bruno, Beni Culturali e Paesaggistici: dalla Programmazione 2000- 2006 a quella 2007-2013, 2008
“(..)In Sicilia dove la spesa regionale sostituisce e non si aggiunge a quella statale, le sole risorse del bilancio regionale attribuite ai beni culturali hanno raggiunto lo 0,8% del PIL (…) (“ in L’isola del tesoro, le potenzialità del turismo culturale in Sicilia di P. Bisetta e R.Ruozi, pag. 57 Liguori).
a norma dell’art. 5 comma 2 punto b, del D.Lgs 228/11 occorre inserire nella Seconda Sezione del Documento Pluriennale di Pianificazione, una sintesi dei singoli studi di fattibilità elaborati.
Le valutazioni di sostenibilità economico-finanziaria delle opere pubbliche nella normativa italiana: finzioni,
www.notavbrennero.info, 14.2.2015, pag. 25
Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 3.8.2012 sulla GU n. 273 del 22-11-2012
il documento “Vademecum per l’applicazione del Modello di Linee Guida ai fini della predisposizione del Documento Pluriennale di Pianificazione ai sensi del D.Lgs. n. 228/2011”, redatto dal Dipartimento per la Programmazione e il Coordinamento della Politica Economica della Presidenza del Consiglio dei Ministri (DIPE) e dal Dipartimento dello Sviluppo e della Coesione Economica (DPS) integrato a mezzo di un Addendum nel marzo 2015
Sulla precedente disciplina del Codice dei Contratti con riferimento al settore culturale si veda: P. Carpentieri, P. Ungari, I contratti relativi ai beni culturali, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M.A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli, IV, Milano, 2008, pag. 2969 ss.; sull’integrazione della disciplina codicistica per effetto del regolamento di esecuzione vedasi inoltre P. Carpentieri e G. Damiano, I lavori riguardanti i beni del patrimonio culturale, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M.A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli, Milano, VIII, 2011, pag. 4833 ss.
Cfr. Consiglio di Stato Adunanza della Commissione speciale del 9 gennaio 2017 02263/2016: Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Ufficio legislativo. Regolamento concernente gli appalti pubblici di lavori riguardanti i beni culturali
L’art. 15 comma 2 del regolamento concernente gli appalti pubblici di lavori riguardanti i beni culturali tutelati, concertato tra MIBACT e MIT, e redatto con riferimento all’articolo 23, comma 3 del DLGS n. 50 del 2016, recita “Sono documenti del progetto di fattibilità: a) la relazione generale; b) la relazione tecnica; c) le indagini e ricerche preliminari; d) la planimetria generale ed elaborati grafici; e) le prime indicazioni e disposizioni per la stesura dei piani della sicurezza; f) la scheda tecnica di cui all’art. 16; g) il calcolo sommario della spesa; h) il quadro economico di progetto; i) il crono programma dell’intervento; l) il documento di fattibilità delle alternative progettuali, a esclusione dei casi di lavori che non comportano nuove costruzioni; m) lo studio preliminare ambientale, a esclusione dei casi di lavori che non comportano nuove costruzioni o installazioni o impiantistica”.
Sul tema del diritto dei contratti pubblici nel settore dei beni culturali si veda “Il punto su contratti pubblici e beni culturali La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali tra esigenze di semplificazione e profili di specialità” di A. Sau in Aedon 1, 2017
Il punto 2.5 dell’Allegato 1 del DPCM 3 agosto 2012, specifica quanto segue: “a) gli interventi di rinnovo del capitale, quali ad esempio manutenzione straordinaria, recupero e ristrutturazione. A fini valutativi lo studio di fattibilita’ deve essere incentrato principalmente o esclusivamente sull’analisi delle alternative progettuali e su una approfondita analisi dei costi, individuando dove possibile standard, costi parametrici e costi sostenuti per interventi analoghi. b) nuove opere puntuali di piccola dimensione, inferiori ai 10 milioni di euro, privi di introiti tariffari. In questi casi si puo’ procedere a predisporre studi di fattibilita’ semplificati, che attraverso un’attenta analisi della domanda, dei costi e dei principali benefici permettano di dimostrare sinteticamente l’utilita’, l’efficienza e l’efficacia degli interventi; c) opere, senza introiti tariffari, superiori ai 10 milioni di euro. Per questi interventi si richiede: 1) lo studio di fattibilita’; 2) l’analisi costi-benefici; 3) l’analisi dei rischi. d) opere di qualsiasi dimensione, escluse quelle di cui alla precedente lettera a), per le quali e’ prevista una tariffazione del servizio. In questi casi, occorre una redazione esaustiva degli studi di fattibilita’ in vista di un ampio utilizzo sia dell’analisi economica con il confronto di costi e benefici – gia’ prevista per altre fattispecie – sia dell’analisi finanziaria con specifico riferimento ai piani finanziari (flussi di cassa)”
Tanto comporta che la grande parte degli interventi di cui alla programmazione ordinaria del MIBACT, in gran parte mera manutenzione ordinaria e straordinaria, risulta esente dal rispetto degli obblighi di cui alla norma in esame, tanto a livello disaggregato quanto a livello di una possibile futura aggregazione. Le opere di cui alla categoria “b) nuove opere puntuali di piccola dimensione, inferiori ai 10 milioni di euro, prive di introiti tariffari”, dunque, anche nuove opere nel settore dei beni culturali (quali ad esempio, nuovi edifici per uffici, magazzini, auditorium, musei, etc.) inferiori a 10 milioni di euro, sono, invece, sottoposte alle attività di cui al Dlgs 228/11.
Le Linee Guida per la Valutazione Degli Investimenti in Opere Pubbliche nei settori di competenza del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sono state redatte “in coerenza” a detto Vademecum, per come ricordato a pag. 18 delle dette Linee Guida del MIT. Prova ne sia il fatto che il settore delle politiche Abitative sottosettore CUP 10, missione di bilancio 19 – Casa e assetto urbanistico, programma di spesa 19.2 Politiche abitative, urbane e territoriali è stato escluso dall’applicazione delle dette Linee Guida del MIT per l’applicazione del DLGS 228/11, verosimilmente poiché relativo a opere pubbliche e/o di pubblica utilità singole che concorrono ad un “insieme di piccole opere” per importi inferiori a 10 milioni di euro, prevalentemente nella stessa categoria a) ovvero “interventi di rinnovo del capitale, quali ad esempio manutenzione straordinaria, recupero e ristrutturazione”.
Quanto sopra riportato, e tratto dal detto Vademecum, è a ns avviso, logico e coerente con lo spirito del legislatore, lo specifico dettato normativo e con l’Allegato 1 del DPCM 3 agosto 2012. Non si vede, infatti, come seriamente applicare indicatori finanziari e di redditività misurabili e verificabili, ivi riportati, ad un settore di investimenti la cui cogenza ed indispensabilità discende non da domande di mercato ma da precisi obblighi costituzionali e del diritto penale.
L’Art. 21 (Programma delle acquisizioni delle stazioni appaltanti) comma 8 rimanda ad un decreto da emanarsi di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze previo parere del CIPE, sentita la Conferenza Unificata. Alla data in cui stiamo scrivendo il testo è stato predisposto dal MIT con parere favorevole CIPE in data 01/12/2016. Lo schema di regolamento è stato trasmesso al CdS per il parere di competenza con nota del 7/12/16. In data 29/12/16 e 3/1/17 sono stati inviati documenti integrativi al CdS.
Neanche il parere del Consiglio di Stato del 9/1/17 n.a. 02271/2016 relativo al detto schema di decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze sull’ art. 21, comma 8 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, dice nulla del sistema valutativo e selettivo del D,Lgs 228/11, mai citato. Sembra di assistere allo scontro di due mondi non comunicanti, quello dei giuristi amministrativisti e quello degli economisti. L’uno ignora l’esistenza stessa dell’altro.
Con la Delibera CIPE 1 dicembre 2016, n. 68 il Cipe approva le «Linee guida per la valutazione degli investimenti in opere pubbliche» redatte dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.
Delibera CIPE n. 68 del 1° dicembre 2016 .
con l’art. 217 “abrogazioni” del D.Lgs 50/16 è stato abrogato il 7° comma dell’art. 2, guarda caso proprio nel settore delle infrastrutture e gli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese di cui ai agli artt. 200, 201 e 202 del Codice Contratti.
Il vecchio comma 7 così disponeva: “Per le opere relative alla realizzazione delle infrastrutture strategiche e degli
insediamenti produttivi di cui alla Parte II, Titolo III, Capo IV del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni, il Documento e’ costituito dal programma di cui all’articolo 1, comma 1, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, e all’articolo 161, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, integrato ai sensi degli articoli 3, 4, 5, 6 e 7 del presente decreto. Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti predispone altresi’ un ulteriore Documento relativamente a tutti gli altri piani e programmi di propria competenza, secondo le procedure previste dal presente decreto”. Altro comma dell’art.2 abrogato è stato il n.8. Tale comma è stato abrogato dal Dl 179/12 ed era relativo alla programmazione e all’attuazione degli interventi speciali per la rimozione di squilibri economici e sociali, di cui al D.Lgs 88/11.
“Le linee guida per la valutazione ex-ante degli investimenti pubblici nel d.lgs 228/2011 e nel nuovo codice Stato dell’arte, l’esperienza dei Grandi progetti comunitari, alcune evidenze” di S.Maiolo Relazione per il convegno della S.I.PO.TRA. A norma dell’articolo 7 del D.Lgs 228/11, il DIPE e l’ex-UVAL (oggi NUVAP, ai sensi del DPCM del 19 novembre 2014) della Presidenza del Consiglio dei Ministri hanno avviato da fine 2013 un calendario di incontri presso varie AA.CC.. Ne è emerso un quadro di grandi ritardi nell’ottemperamento degli obblighi di legge primo tra tutti quello della redazione delle Linee Guida. Il Maiolo fa, in proposito, quest’analisi: “il personale preposto non sembra disporre delle competenze specialistiche necessarie per redigere né le Linee Guida, né tantomeno il DPP; queste difficoltà sono acuite dall’assenza (in quasi tutte le amministrazioni contattate) di un Nucleo di valutazione, lacuna che di fatto impedisce alle Amministrazione di operare in modo autonomo”. “Il codice dei contratti pubblici: Commento al decreto legislativo 18 aprile 2016, 50” di F.Garella e M.Mariani, Giappichelli 2016, parla del Dlgs 228/11, come di un testo di legge “praticamente mai applicato”.
Art.200 del D.Lgs 50/16 e smi, “1. Le infrastrutture e gli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese, sono valutati e conseguentemente inseriti negli appositi strumenti di pianificazione e programmazione di cui agli articoli successivi, dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. 2. La realizzazione delle opere e delle infrastrutture di cui al presente articolo è oggetto di: a) concessione di costruzione e gestione; b) affidamento unitario a contraente generale; c) finanza di progetto; d) qualunque altra forma di affidamento prevista dal presente codice compatibile con la tipologia dell’opera da realizzare”. Art. 201 del D.Lgs 50/16 e smi, “1. Al fine della individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese, si utilizzano i seguenti strumenti di pianificazione e programmazione generale: (…) b) documenti pluriennali di pianificazione, di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2011, n. 228”.
Art. 194 del D.Lgs 50/16 e smi, 1. Con il contratto di affidamento unitario a contraente generale, il soggetto aggiudicatore affida ad un soggetto dotato di adeguata capacità organizzativa, tecnico-realizzativa e finanziaria la realizzazione con qualsiasi mezzo dell’opera, nel rispetto delle esigenze specificate nel progetto definitivo redatto dal soggetto aggiudicatore e posto a base di gara, ai sensi dell’articolo 195, comma 2, a fronte di un corrispettivo pagato in tutto o in parte dopo l’ultimazione dei lavori.
Il 3 comma dell’art. 201 del D.Lgs 50/16 e smi “Il Documento Pluriennale di Pianificazione (DPP) di cui al decreto legislativo 29 dicembre 2011 n. 228, di competenza del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, oltre a quanto stabilito dal comma 2 dell’articolo 2 del decreto legislativo n. 228 del 2011, contiene l’elenco delle infrastrutture e degli insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese, ivi compreso gli interventi relativi al settore dei trasporti e della logistica la cui progettazione di fattibilità è valutata meritevole di finanziamento, da realizzarsi in coerenza con il PGTL. Il DPP tiene conto dei piani operativi per ciascuna area tematica nazionale definiti dalla Cabina di regia di cui all’articolo 1, comma 703, lettera c), della legge 23 dicembre 2014, n. 190”.
il documento “Vademecum per l’applicazione del Modello di Linee Guida ai fini della predisposizione del Documento Pluriennale di Pianificazione ai sensi del D.Lgs. n. 228/2011”, redatto dal Dipartimento per la Programmazione e il Coordinamento della Politica Economica della Presidenza del Consiglio dei Ministri (DIPE) e dal Dipartimento dello Sviluppo e della Coesione Economica (DPS) integrato a mezzo di un Addendum nel marzo 2015
La legge Obiettivo era la vecchia classificazione normativa per le infrastrutture ed insediamenti prioritari di cui al D.Lgs. n.190/2002.
Che tra i “progetti prioritari” possano annoverarsi anche grandi progetti nel settore dei beni culturali è nelle cose, come la recente esperienza del Grande Progetto Pompei dimostra. Anzi proprio l’Italia è uno dei paesi con maggiori possibilità di fare progetti prioritari nel settore del patrimonio culturale; in tal senso la Commissione Europea ha attribuito al Grande Progetto Pompei valore di esperienza pilota e best practice. Un progetto prioritario o, rectius, una serie di progetti prioritari potrebbero essere, a nostro avviso, grandi bandi internazionali di project finance per la realizzazione di opere e l’erogazione di servizi al pubblico (art. 115 e 117 del D.Lgs 42/04) per gli istituti e luoghi della cultura (art.101) aggregati su base regionale o multiregionale. Attesa la presenza di concessioni in essere in prima fase si potrebbero limitare (fase di sperimentazione) i bandi ai siti non concessi in gestione indiretta, chiusi o, comunque, sottoutilizzati.
La citata lettera c) del comma 703 della L.190/14, prevede che per ciascuna area tematica nazionale siano progressivamente definiti, da parte della Cabina di regia piani operativi da sottoporre al CIPE per la relativa approvazione, articolati in azioni ed interventi che rechino l’indicazione dei risultati attesi e dei soggetti attuatori, in sinergia con la Strategia di specializzazione intelligente nazionale e con dotazione complessiva da impiegarsi per un importo non inferiore all’80 per cento per interventi da realizzare nei territori delle regioni del Mezzogiorno.
Altra cosa la Cabina di Regia di cui all’art.212 del Codice dei Contratti Pubblici cui si rinvia.
Si veda il già citato parere del Consiglio di Stato del 9/1/17 n.a. 02271/2016
Si veda sul punto il Documento 15/16/CR5bis/C4 della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome Istituto Per L’innovazione e Trasparenza degli Appalti e la Compatibilita’ Ambientale ITACA “Documento di analisi della Direttiva 2014/24/Ue in materia di Appalti Pubblici”
Cfr., art. 5 comma 3 del D.Lgs 228/11
Vedi nota 82
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