Il presente contributo vuole essere un approfondimento riguardante gli obblighi di informazione precontrattuale, partendo dalle trattative per poi sfociare nella responsabilità precontrattuale.
Indice
- 1. Premessa
- 2. Le trattative negoziali: nozione
- 3. Gli articoli 1337 e 1338 c.c. e l’obbligo di buona fede
- 4. La controversa fattispecie del contratto valido, ma sconveniente
- 5. Gli obblighi informativi tra tipizzazione legislativa e tipizzazione giurisprudenziale
- 6. La tradizionale distinzione tra regole di condotta e regole di validità
- 7. Suo progressivo affievolimento nell’ambito dei contratti asimmetrici, seppur con l’impossibilità di trarne un principio di carattere generale (SS.UU. “Rordof”)
- 8. Un interrogativo ancora aperto: la natura della responsabilità precontrattuale
- Note
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1. Premessa
Gli articoli 1326-1342 del Codice civile – sotto la rubrica “Dell’Accordo della parti”, cui è intestata la relativa Sezione – si occupano delle modalità attraverso le quali il contratto possa essere concluso.
Al proposito si impone, preliminarmente, una veloce precisazione terminologica.
Benché nell’uso corrente il termine “conclusione” sia considerato pressoché coincidente al lemma “formazione”, in effetti, sotto il profilo tecnico-giuridico sussiste una differenza.
L’espressione formazione del contratto, infatti, indica il procedimento (e, dunque, un iter nel quale si concatenano una serie di atti finalizzati al raggiungimento di un obiettivo finale) attraverso il quale si giunge alla sua conclusione, da intendersi quale momento terminale del predetto procedimento.
Tracce della suddetta distinzione si rinvengono in diverse disposizioni del Codice civile.
Si pensi, ad esempio, all’art. 1326, comma 1, oppure all’art. 1327, comma 1, o ancora all’art. 1328, comma 1, che parlano specificamente di conclusione del contratto; mentre, nell’art. 1337 il legislatore fa espresso riferimento alla formazione.
Una probabile spiegazione di tale distinguo operato dal legislatore può risiedere nella circostanza che alla conclusione del contratto può giungersi: in modo istantaneo attraverso l’incontro di proposta e accettazione (secondo lo schema formativo generale del contratto o secondo schemi formativi semplificati), che rappresenta una fase necessaria – e come tale – non può mai mancare; oppure in modo progressivo, ossia mediante il ricorso a fasi eventuali [1].
Le fasi eventuali, in particolare, possono consistere nel ricorso a contratti preparatori già previsti dal legislatore – quali il contratto preliminare, il patto di prelazione, l’opzione, il contratto normativo o i patti sulla forma – oppure a schemi formativi atipici creativamente prodotti dalle parti nell’esercizio della loro autonomia negoziale procedimentale, quale è il cd. preliminare di preliminare.
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2. Le trattative negoziali: nozione
La formazione progressiva del contratto può avvenire, altresì, mediante il ricorso a semplici trattative tra le parti.
Le trattative rappresentano il momento in cui le parti esprimono le loro esigenze, esprimono le loro divergenze e cercano un assetto per comporre il conflitto dei loro interessi.
Il contratto sarà concluso solo quando sarà raggiunto l’accordo su tutti i punti di divergenza.
Le trattative, nel loro momento fisiologico non hanno alcuna rilevanza giuridica; mentre, assumono un peculiare ruolo nel caso di loro patologia determinando la responsabilità (precontrattuale) del contraente che vi abbia dato luogo.
In atri termini, il rilevo assunto dalle trattative è relativo solo all’aspetto risarcitorio, senza che dalle trattative nasca l’obbligo di contrattare o di concludere il futuro contratto.
Dunque, a condizione che siano rispettate le regole di correttezza e buona fede, dalle trattative si può anche recedere.
Dalle trattative, invece, vanno distinti quei contatti preliminari tra le parti che, per la loro natura eminentemente esplorativa, non sono idonei a determinare effetti nemmeno sul piano risarcitorio.
Il riferimento è ai cd. sondaggi, alle dichiarazioni di essere disposti a trattare o agli inviti a trattare che possono concretarsi, ad esempio, nell’invio presso l’altrui domicilio di un catalogo merci [2].
3. Gli articoli 1337 e 1338 c.c. e l’obbligo di buona fede
Il Codice civile dedica alle trattative gli artt. 1337 e 1338.
Il primo, in particolare, stabilisce che le parti devono comportarsi secondo buona fede, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto.
Orbene, atteso che vi è concordia di opinioni nel ritenere che la buona fede richiamata dall’art. 1337 c.c. sia da intendersi in senso oggettivo, non è del tutto agevole fornire una sua definizione, senza cadere in definizioni retoriche e poco esplicative.
La Relazione al Codice definisce – un po’ tautologicamente – la buona fede come comportamento ispirato alla probità, da cui non debba derivare la cavillosa prospettazione e applicazione degli obblighi nascenti dal contratto.
Si tratta, in sostanza, di una nozione analoga a quella di correttezza richiamata nell’art. 1175 c.c.
Dall’art. 1337 c.c. si è soliti far discendere obblighi – connessi alla buona fede– di protezione dell’altrui sfera giuridica, al prezzo di un apprezzabile sacrificio di quella propria.
Non obblighi di prestazione, quindi, poiché il contratto vi è ancora nessun contratto, ma solo di protezione e di salvaguardia dell’altrui libertà negoziale.
Ne discende che, una volta intrapresa una trattativa, non si possa inopinatamente decidere di abbandonarla senza conseguenze, le quali si risolvono nel risarcimento del danno parametrato al cd. interesse negativo (da declinarsi nella duplice voce del danno emergente e del lucro cessante, ossia delle spese sostenute per le trattative e delle occasioni perdute).
L’art. 1338 c.c., invece, stabilisce che la parte che “conoscendo o dovendo conoscere una causa di invalidità del contratto” debba darne notizia all’altra parte – che abbia incolpevolmente confidato nella validità del contratto – pena il risarcimento del danno (anche in questo caso relativo all’interesse negativo).
Cosa debba intendersi per causa di invalidità del contratto ai sensi dell’art. 1338 c.c. è stato oggetto di dibattito.
L’opinione preferibile tende ad includervi le cause di nullità ed annullabilità, ma in un caso anche di inefficacia (si veda art. 1398 in tema di rappresentanza senza potere).
Non sembra logica, invece, la conclusione di una parte della dottrina, secondo la quale l’invalidità dell’art. 1338 non comprenderebbe le cause di nullità, atteso che non sempre queste sono conoscibili da chiunque con l’ordinaria diligenza.
Si ponga mente, ad esempio, all’ipotesi in cui il contratto di compravendita sia nullo per mancanza dell’oggetto, che solo il contraente alienante sa essere precedentemente perito.
È, tuttavia, doveroso segnalare che la fattispecie in esame ha avuto scarsa applicazione giurisprudenziale, rimanendo per lo più all’ombra della prima disposizione, che – anche in ragione della fortuna che la clausola di buona fede sta riscontrando in dottrina e giurisprudenza negli ultimi tempi – si atteggia a norma assorbente di tutte le fattispecie concrete non perfettamente inquadrabili nell’art. 1338 c.c. [3].
Ad ogni modo, dall’ipotesi tratteggiata da quest’ultima disposizione (comunemente definita come “responsabilità da contratto invalido”) – discendente dell’inosservanza dell’obbligo di comunicare la sussistenza di una causa di invalidità del negozio – affiora il peculiare legame che lega la responsabilità precontrattuale ai vizi del consenso.
In altri termini, il contraente che sia a conoscenza della volontà viziata dell’altra parte deve avvertirla, adempiendo ad uno specifico obbligo informativo nascente da tale disposizione.
In caso contrario, al rimedio della annullabilità del contratto si sommerà anche quello del risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale.
4. La controversa fattispecie del contratto valido, ma sconveniente
Tanto premesso, occorre soffermarsi sulla disamina di una terza fattispecie di responsabilità precontrattuale, nonostante sia controversa la sua stessa presenza nell’ordinamento giuridico.
Questa, infatti, non è espressamente prevista dal legislatore, ma è ricostruibile attraverso un percorso ermeneutico che prende le mosse dalle disposizioni dettate in tema di trattative (e più segnatamente dall’art. 1337 c.c.).
Si tratta della fattispecie nota come “responsabilità da contratto valido ma sconveniente”, nella quale confluirebbero ad esempio i cd. vizi incompleti del contratto e, per una certa dottrina, anche le scorrettezze contrattuali estrinsecantesi in talune pratiche commerciali sleali tra imprenditori in posizione di asimmetria, non idonee a determinare l’invalidità dello stesso.
Peraltro, prima di procedere oltre, non si può tacere che l’ipotesi di responsabilità precontrattuale in parola sia atteggerebbe in maniera particolare anche con riferimento all’ammontare del risarcimento dovuto, il quale sarebbe relativo al cd. interesse positivo differenziale, attinente allo scarto economico derivante tra quanto effettivamente previsto nel contratto stipulato e quanto sarebbe stato previsto in assenza della malafede della controparte.
Tornando ora all’analisi della fattispecie, deve darsi atto di una tesi, ad oggi minoritaria, secondo la quale la responsabilità da contratto valido non avrebbe diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico, atteso che – dovendosi fondare sull’art. 1337 c.c. – a questo non possa essere attribuita valenza generale.
Una conferma della impossibilità di riconoscere la responsabilità da contratto valido sarebbe rappresentata dalla previsione, ad opera dell’art. 1440 c.c., del cd. dolo incidente, ossia del dolo non determinante del consenso, ma incidente soltanto sulla configurazione delle condizioni contrattuali, cha sarebbero state più vantaggiose in assenza dei raggiri perpetrati della controparte.
Ebbene, sostengono i fautori della tesi negativa, una simile ipotesi espressa non sarebbe stata necessaria in presenza di una fattispecie generale in tema di contratto sconveniente.
Ed ancora, è cosa nota che – nei rapporti contrattuali tra eguali- l’equilibrio economico del contratto sia insindacabile, tanto che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la nullità del contratto possa essere dichiarata soltanto nel caso estremo di prezzo simbolico, ossia di previsione di un corrispettivo talmente irrisorio da determinare l’opacità della causa del contratto.
In sostanza, tutto ciò che attiene all’aspetto economico del contratto è rimesso alla contrattazione tra le parti, in ossequio al principio dell’autonomia negoziale, senza che possa essere operata una sorta di perequazione attraverso lo strumento del risarcimento del danno.
L’orientamento prevalente ritiene, invece, che la sussistenza della fattispecie de qua nell’ordinamento giuridico possa ricavarsi attribuendo un ruolo ampio all’art. 1337 c.c., il quale sarebbe idoneo ad inglobare obblighi di informazione non rientranti nel perimetro dell’art. 1338 c.c.
Mentre, l’art. 1440 c.c. rappresenterebbe un’ulteriore esplicitazione della categoria del contratto valido ma pregiudizievole.
Quanto all’oggetto dei raggiri di cui all’art. 1440 c.c., non può revocarsi in dubbio che questi implichino una violazione dei doveri di buona fede posti a carico delle parti nella fase delle trattative dall’art. 1337 c.c., che si concretano in specifici obblighi (protettivi) di comportamento, tra i quali si annoverano anche obblighi di informazione che non possono essere sussunti sotto l’art. 1338 c.c.
5. Gli obblighi informativi tra tipizzazione legislativa e tipizzazione giurisprudenziale
L’informazione – definibile come un bene immateriale che attua i principi di chiarezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali – è tanto cara al diritto consumeristico e all’intero ambito del cd. contratto asimmetrico.
Infatti, nel diritto di matrice eurounitaria disciplinante i contratti con i contraenti deboli (siano essi consumatori o imprenditori) si fa un amplissimo uso di detti obblighi di informazione allo scopo di mitigare la posizione di asimmetria, dettata ora da deficit informativi (nel caso del consumatore) ora da squilibri economici veri propri (si tratta del fenomeno del cd. contratto B2b, ove un imprenditore si trova a contrattare con un altro imprenditore più forte).
Senza pretesa di esaustività, volendo fornire solo qualche indicazione a titolo esemplificativo, si riferiscono: gli artt. 48, 49, 49-bis, 50 del Codice del consumo (D.Lgs. n. 206/2005), recanti a vario titolo espressi obblighi informativi; l’art. 71 del medesimo codice in materia di multiproprietà; l’art. 21 del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), che al comma 1, lett. b) stabilisce l’obbligo per l’intermediario di “acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati”; gli artt. 120, 183, 185-187 del D.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 in materia di assicurazioni private.
Ed ancora, nell’ambito del terzo contratto, tra i diversi obblighi informativi, si deve certamente richiamare la stringente disciplina della trasparenza contrattuale predisposta con rifermento all’affiliazione commerciale (art. 6 L. 129/2004) oppure, più di recente, l’art. 3 del d.lgs. 198/2021 il quale – nel settore della cessione di prodotti agricoli e alimentari, dunque nell’ambito di rapporti asimmetrici intercorrenti tra imprenditori – impone che “i contratti di cessione devono essere informati a principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni, con riferimento ai beni forniti, cui attenersi prima, durante e dopo l’instaurazione della relazione commerciale.”
Nella disciplina del cd. contratto di diritto comune, invece, il legislatore omette di tipizzare simili obblighi informativi, cosicché vi supplisce il contributo di dottrina e giurisprudenza.
6. La tradizionale distinzione tra regole di condotta e regole di validità
Alla luce della cennata differenziazione operante con riferimento ai contratti di diritto comune e ai cd. contratti asimmetrici, merita interrogarsi se essa sia suscettibile di riflettersi nel campo dei rimedi azionabili dai contraenti lesi dalla mancata osservanza dei doveri di informazione.
A tal proposito è utile soffermarsi brevemente sulla tradizionale opinione che pone in contrapposizione regole di condotta e regole di validità.
La distinzione in parola è da ricondursi ad una autorevole dottrina, secondo la quale dalla violazione delle prime non potrebbe mai discendere la nullità del contratto.
Infatti, il comportamento scorretto di un contraente, implicante la violazione della regola di buona fede che permea l’intero dispiegarsi dell’operazione negoziale (dalla fase dei primi contatti tra le parti alla fase dell’esecuzione), non è idoneo a riflettersi sugli aspetti contenutistici o strutturali del contratto, i soli che rilevano ai fini della validità dello stesso.
Nemmeno quando le regole di condotta discendano direttamente da norme imperative, come quella di buona fede posta dall’art. 2 della Costituzione a presidio di interessi solidaristico-personalistici, può dirsi che la loro violazione comporti la nullità del contratto cui gli obblighi di comportamento afferiscono, a meno che non sia espressamente previsto dal legislatore.
Si tratterà, pertanto, di ipotesi tipiche di nullità testuale, ai sensi dell’art. 3 dell’art. 1418 c.c.
Non potrà, al contrario, venire in rilievo quell’ipotesi di nullità comunemente definita strutturale disciplinata dall’art. 1418 c.c., comma 2 (all’interno del quale la migliore dottrina è solita fare rientrare anche la nullità per illiceità del contratto, detta da disvalore).
Del pari, non potrà parlarsi di nullità virtuale, ex comma 1 dell’art. 1418 c.c. poiché, pur essendo posta a presidio di norme imperative, queste ultime devono comunque attenere ad elementi intriseci del contratto, tra i quali non è possibile (logicamente, ancor prima che giuridicamente) annoverare obblighi comportamentali delle parti relativi alla fase della formazione del contratto, essendo il contratto ancora in fieri e non ancora esistente.
La violazione delle norme di condotta, tuttavia, non è senza conseguenze, le quali pure possono incidere sulla validità o sulla conservazione del contratto, ma non determinandone mai la nullità.
A ben vedere, dall’impianto del codice civile emerge che la violazione della regola di buona fede in fase di genesi del contratto (quando incidente sulla corretta formazione del consenso del contraente che la subisce) può determinare l’annullabilità del contratto per violenza o dolo oppure – in caso di approfittamento dello stato di bisogno e lesione ultra-dimidium – la rescissione per lesione; mentre, ove la regola di buona fede sia violata nella fase esecutiva il contratto potrà essere risolto (beninteso, in presenza dei pressupposti indicati dall’art. 1455 c.c.), fermo restando il rimedio risarcitorio quale conseguenza di responsabilità precontrattuale o contrattuale.
7. Suo progressivo affievolimento nell’ambito dei contratti asimmetrici, seppur con l’impossibilità di trarne un principio di carattere generale (SS.UU. “Rordof”)
Tanto premesso, non può negarsi che nel cd. diritto contrattuale secondo il principio non interferenza tra regole di validità e regole di comportamento è andato via via perdendo forza, in quanto – come cennato – il legislatore ha previsto in diverse occasioni che dalla violazione della regola di buona fede discenda la nullità del contratto.
Una nullità, per di più, di tipo peculiare poiché volta a tutelare interessi particolari del contraente debole e peraltro connotata da un regime di legittimazione relativo, che ne esprime la valenza protettiva.
Sennonché, dall’incremento delle previsioni di fattispecie di nullità (di protezione) per la violazione degli obblighi imposti dalla buona fede taluno ha cercato di trarre un principio di generale applicazione, sostenendo che sia in atto una tendenza che consente il ricorso allo strumento rimediale della nullità (virtuale) anche nei casi di violazione di regole di condotta.
Orbene, come hanno avuto modo di affermare le Sezioni unite della Corte di Cassazione in due notissime sentenze del 2007 [4], non è possibile giungere a siffatte conclusioni.
Le ipotesi in cui la nullità discende dalla violazione di regole di condotta, infatti, sono da circoscriversi a settori speciali che non permettono di trarre conseguenze estensibili al cd. contratto di diritto comune.
Lo scivolamento dei piani cui si assiste nel diritto consumeristico oppure nell’ambito del terzo contratto, per cui la malafede può determinare la nullità del contratto, non sembra potersi giustificare in assenza di uno squilibrio tra le parti del contratto che possa legittimare il ricorso ad uno strumento, tanto forte quanto rigido, quale la nullità.
Nonostante la sua intensità, peraltro, non sempre la nullità può dirsi efficace.
In molte occasioni, il rimedio del risarcimento del danno appare quello maggiormente utile al fine di compensare il pregiudizio patito da un contraente a seguito di una condotta scorretta della controparte.
Alla luce dei superiori rilievi, in caso di violazione di obblighi informativi nella fase delle trattative il rimedio azionabile sarà quello risarcitorio, precisamente derivante da responsabilità precontrattuale.
8. Un interrogativo ancora aperto: la natura della responsabilità precontrattuale
A questo punto, sulla scorta della precedente affermazione, si pone la necessità di rispondere ad un interrogativo ancora aperto in dottrina e giurisprudenza, avente ad oggetto la collocazione della natura della responsabilità precontrattuale nel sistema della responsabilità di diritto privato, ovverosia se questa debba collocarsi nell’alveo della responsabilità extra-contrattuale o possa trovare posto nella species della responsabilità contrattuale [5].
La tesi tradizionale è solita ricondurre la responsabilità precontrattuale alla violazione del principio del neminem leadere in quanto tra le parti – al momento delle trattative – non intercorre ancora nessuna relazione di tipo contrattuale.
Se nessun obbligo nascente da contratto lega le parti, allora tra queste sussiste il mero obbligo di astenersi dal ledere l’altrui sfera giuridica alla stregua di quanto accade nel rapporto con un quisque de populo.
In altri termini, l’obbligazione risarcitoria nasce dal fatto illecito consistente nella violazione della regola di buona fede implicante gli obblighi informativi, con lesione dell’altrui libertà negoziale.
Ne deriva che il regime applicabile sarà quello che connota la responsabilità ex art. 2043 c.c. ossia: prescrizione quinquennale e, soprattutto, onere della prova a carico del danneggiato [6].
Tuttavia, altra opinione (condivisibilmente) rileva che tra i soggetti impegnati in una trattativa non può ravvisarsi una situazione analoga a quella dell’incontro tra due passanti.
Tra i primi intercorre già una peculiare relazione che, benché priva di obblighi di prestazione nascenti dal contratto, è idonea a creare obblighi di protezione a tutela dell’altro contraente.
Infatti, nel corso delle trattative si insatura tra le parti un contatto – socialmente qualificato – in ragione del quale non può giustificarsi la parificazione della situazione relazionale intercorrente tra queste a quella di occasionale contatto tra due soggetti perfettamente estranei fino al momento della commissione del fatto illecito.
Autorevole dottrina, peraltro, afferma che la nozione “responsabilità contrattuale” è indicativa di una più ampia categoria, inclusiva sia della responsabilità propriamente nascente dall’inadempimento contrattuale che di quella – più genericamente – non inquadrabile nell’ambito della responsabilità extra-contrattuale propriamente intesa.
Ne discende che la natura della responsabilità precontrattuale possa più correttamente assimilarsi a quella della responsabilità contrattuale [7].
Le conseguenze che ne discendono non sono di poco momento poiché il regime della responsabilità contrattuale si caratterizza per un termine di prescrizione doppio rispetto a quello della responsabilità civile e per collocare l’onere della prova in capo al contraente danneggiante/inadempiente.
Un regime, quindi, estremante più favorevole posto che le questioni relative al riparto dell’onere probatorio hanno una influenza dirimente sull’esito del giudizio.
Tanto più leggero è l’onus probandi, quanto più agevole sarà risultare vittorioso nella causa instaurata.
Note
- [1]
Cfr. DIENER M.C., Il contratto in generale, Giuffrè editore, terza edizione, 2015, p. 127.
- [2]
RAVAZZONI A., La formazione del contratto. Le fasi del procedimento, Vol. I, Giuffrè editore, 1973, p. 29 ss
- [3]
Si veda, in tal senso, MESSINEO F., Il contratto in genere, in Tratt. dir. civ. comm., in Enc. dir., a cura di CICU A.-MESSINEO F., Giuffrè editore, 1968, pp. 362-363.
- [4]
Cass. civ., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724.
- [5]
CICERO C. – TRONCI A., Responsabilità precontrattuale: una natura giuridica ancora incerta?, in Rivista del Notariato, fasc.3, 2020, pag. 528
- [6]
In tal senso, si veda Cass. civ., sez. II 3 ottobre 2019, n. 24738.
- [7]
Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188.
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