Occupazione acquisitiva e usurpativa: rimedi

Il presente contributo analizza i rimedi ritenuti esperibili, dalla giurisprudenza, a fronte della verificazione dell’occupazione sine titulo del bene in proprietà del privato da parte della PA, con particolare riferimento alla rinunzia abdicativa e all’usucapione, propendendo per la non configurabilità degli stessi, a fronte sia del principio di legalità che anima il diritto di proprietà anche nel caso di rinuncia allo stesso e che presuppone vincoli di forma e manifestazioni di volontà esplicite e dirette, sia del requisito del pacifico possesso che stride con la condizione in cui il privato effettivamente viene a trovarsi a seguito dell’esercizio del potere espropriativo in modo illegittimo.

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Indice

1. Espropriazione per pubblica utilità: struttura, ratio e funzione

La proprietà, sebbene nel corso del tempo abbia da sempre rappresentato la massima espressione del potere dell’autonomia dell’individuo, sia in relazione agli altri consociati, che allo Stato stesso (la proprietà è intesa come sinonimo di potere e ricchezza), a differenza di altri ordinamenti come la CEDU che la qualificano come diritto fondamentale, ex art. 1 prot. 1 add., nel diritto interno non viene riconosciuta come tale, tanto è vero che essa, nella Costituzione è disciplinata nella parte dedicata ai rapporti economici e sociali.
Tale premessa ci è utile per apprezzare meglio il senso logico giuridico dell’istituto dell’espropriazione. Infatti, l’art. 42 della Costituzione nel vincolare i modi di acquisto, di godimento e i limiti della proprietà alla legge, in ragione della garanzia di assicurare la funzione sociale e l’accessibilità a tutti, aggancia l’istituto dell’espropriazione proprio a tali prinicipi. Il co. III della suddetta disposizione afferma che la proprietà privata, nei casi stabiliti dalla legge, può essere espropriata, previo indennizzo, per scopi di interesse generale. Ne consegue che, in nessun caso si potrà procedere ad un’espropriazione se non operino contestualmente le condizioni della previsione costituzionale: procedimento tipico disciplinato per legge, riconoscimento di un indennizzo effettivo parametrato al valore di mercato del bene e realizzazione di obiettivi di interesse generale. In altre parole, proprio l’importanza che la proprietà ricopre per il singolo individuo, si pone come valore che si inserisce nel percorso valutativo che lo Stato, nella veste di Pubblica Amministrazione, deve compiere ogni volta che ci si trovi a fronte di uno scopo di interesse generale da raggiungere, il cui mezzo è rappresentato dalla procedura espropriativa. Se ne deduce che, da una parte la legge svolge un ruolo di garanzia a che sia rispettata la legalità del procedimento espropriativo e siano definiti i limiti dello stesso, dall’altra anche se sussite un interesse generale e quantumque la procedura espropriativa costituissse il rimedio più efficiente per soddisfarlo, in assenza di una previsione di legge, per le ragioni poc’anzi esposte, non si potrà procedere in tal senso. Ne consegue che, ogni volta che si venga a realizzare l’occupazione del bene privato da parte della PA in assenza della definizione procedurale prevista per legge, si configura un illecito da parte di quest’ultima nei confronti del proprietario che si trova a non poter godere e disporre del bene.
In merito al meccanismo dell’indennizzo, che opera a titolo compensativo, si può affermare che sia espressione dell’operare del principio di legalità. In sostanza, dal momento che la procedura espropriativa è prevista dalla legge come mezzo per realizzare l’interesse generale, la concretizzazione della stessa con l’acquisizione del bene al patrimonio dello Stato costituisce un atto legittimo, dal quale non potrà scaturire alcuna obbligazione risarcitoria. Al contempo, il sacrificio dell’interesse legittimo del proprietario è compensato con un ristoro economico che deve essere pari al valore del bene espropriato, con possibilità dello stesso di provare il maggior valore. Principi cardini in materia sono non solo il principio di legalità che legittima la procedura in se, ma anche sulla scia europeista, i principi di ragionevolezza, proporzionalità e necessità. Questo vuol dire che, i presupposti costituzionali individuati poc’anzi costituiscono la condizione minima a che il procedimento espropriativo possa dirsi legittimo ma non bastevoli per il tipo di valutazione che la PA deve svolgere. In altre parole, la valutazione che viene effettuata in relazione alla scelta della P.A. di agire o meno tramite il potere ablatorio espropriativo, deve essere condotta in conformità al principio di proporzionalità dell’intervento rispetto al fine da realizzare e alla possibilità di poter raggiungere lo scopo pubblico attraverso altre modalità, non solo con riferimento alla scelta sull’an ma, anche sul modo di realizzare la procedura acquisitiva del bene. Infatti, a tal fine la PA, anche in ordine al rispetto dei principi del buon andamento e della ragionevolezza che regolano l’azione amministrativa, può procedere all’acquisizione del bene tramite contratto di vendita in coerenza con il disposto dell’art. 1 l. 241\90 sull’esercizio dell’azione amministrativa tramite strumenti di diritto privato.
Oltre ai principi generali che regolano l’azione amministrativa desunti dalla Costituzione ex art, 97 Cost. (buon andamento e imparzialità) e dalla legge sull’azione amministrativa 241\90 artt. 1 e ss, la procedura di esproprazione è analiticamente disciplinata nel testo unico sulle espropriazioni d. P.R. 327 del 2001. In particolare, l’art. 8 disciplina le fasi del procedimento espropriativo che, per aversi un provvedimento finale legittimo, devono necessariamente essere rispettate:
–      sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio;
–      dichiarazione di pubblica utilità;
–      determinazione, anche in via provvisoria, dell’indennità di esproprio.
Quanto alla prima fase occorre precisare che per poter procedere all’emanazione del vincolo espropriativo bisogna prima procedere alla redazione del Piano Urbanistico Generale e individuare in tal modo l’opera di pubblica utilità che si intende realizzare. Il vincolo di esproprio ha una durata limitata, dalla legge, a 5 anni, termine entro cui è possibile procedere alla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Ad essa segue la determinazione, anche in via provvisoria, dell’indennità di esproprio la quale è parametrata, in caso di area edificabile o di edifici, al valore venale del bene ex artt. 37 e 38 del D.P.R. 327\2001 così come modificati a seguito dell’importante pronuncia della Corte Costituzionale n. 349 del 2007, che ha fissato come generale il criterio del valore di mercato del bene espropriato, in conformità al principio dell’effettività dell’indennizzo di espropriazione, enucleato anche dalla giurisprudenza della Corte EDU.

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2. Occupazione acquisitiva e usurpativa

Ma quid in caso di occupazione dell’area cui non ha fatto seguito la procedura espropriativa?
In passato, per sopperire a tali tipologie di problematiche connesse alla violazione della procedura espropriativa disciplinata dalla legge, sopra richiamata, si era enucleato l’istituto dell’espropriazione in sanatoria. In sostanza, a fronte di occupazioni d’urgenza scadute (superamento dei limiti temporali su cui fondare la legittimazione della misura in ragione del requisito dell’urgenza) o di occupazioni abusive (occupazioni di fatto a fronte della mancata instaurazione del procedimento espropriativo), si riconosceva alla PA la possibilità di regolarizzare la procedura ex post attraverso l’emanazione di un decreto di espropriazione dotato di efficacia retroattiva sanante. Ne conseguiva che da una parte, la PA regolarizzava la procedura espropriativa legittimando la proprietà dell’area sottoposta prima ad occupazione e poi espropriata, dall’altra la precarietà della tutela del privato che, durante la fase di occupazione sine titulo restava proprietario del bene occupato e per tanto aveva diritto al solo risarcimento del danno determinato dalla perdita del godimento del bene occupato, poiché impossibilitato a riottenere il possesso del bene, in quanto era comunque soggetto alla tardiva emanazione del decreto di esproprio. In altre parole, con tale procedura, il privato non avrebbe mai potuto reimmettersi nel possesso del proprio bene ed agire quindi attraverso una tutela ripristinatoria e/o restitutoria, anche a fronte di una procedura illegale prima e poi surrettiziamente legalizzata dopo.
Normativamente, tali fenomeni possono essere spiegati attraverso gli istituti dell’occupazione acquisitiva o appropriativa e dell’occupazione usurpativa. La prima definita anche accessione invertita, si verificava nel caso in cui la PA procedeva, in forza del raggiungimento dell’utilità pubblica, a regolarizzare la procedura acquisitiva. Infatti, ciò che si verificava era un’inversione del principio civilistico “superficies solo cedit”, per cui il privato, a fronte dell’irreversibile trasformazione del bene di sua proprietà, compiuta in funzione del perseguimento di un’utilità pubblica, perdeva la proprietà del bene e, quindi, la possibilità di ottenerne la restituzione, conservando il diritto al solo risarcimento del danno parametrato al valore del bene perduto e al mancato guadagno che in itinere avrebbe potuto trarre dallo stesso se ne avesse avuto la disponibilità.
Diversa è l’ipotesi dell’occupazione usurpativa tramite la quale, a fronte dell’assenza della dichiarazione della prevalenza dell’interesse pubblico, il privato rimaneva proprietario del bene, risultando la PA solo occupante dello stesso.  In relazione all’occupazione usurpativa, in dottrina era emersa, a fronte della tipologia di tutela esercitabile dal privato, la tesi della rinunzia abdicativa della proprietà del bene, a cui faceva seguito la possibilità di ottenere il risarcimento del danno subito (per equivalente) c.d. danno da perdita del bene. Infatti, tale tipologia di tutela risarcitoria si palesava come la più efficiente per il privato stesso, in considerazione degli ingenti costi e delle difficoltà materiali legati all’opera di messa in ripristino del bene, quantumque questa fosse possibile (eccessiva onerosità ex art. 2058 co II c.c.) o del pregiudizio per l’economia nazionale in relazione alla posizione della PA (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 4 marzo 1997, n. 1907).
Con riferimento ad entrambe le tipologie di procedimenti sananti, meglio specificati sopra, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, aveva evidenziato che in linea generale, comunque la PA incorreva in condotte illecite incidenti sul diritto di proprietà e per tanto, in linea con la corposa giurisprudenza della Corte EDU in materia, tali procedure non avrebbero potuto comportare l’acquisizione del fondo da parte della medesima, pena la violazione del diritto stesso, inteso come interpretato dalla Corte EDU ex art. 1 prot. Add. n.1. Per tanto, a seguito delle suddette procedure si configurava un illecito permanente ex art. 2043 c.c. che avrebbe potuto cessare solo con la restituzione del fondo, a seguito di un accordo transattivo intervenuto con il privato o a seguito delle discutibili fattispecie della rinunzia abdicativa e dell’usucapione (Cass. Sez. IV, n. 3988 del 2015 e
n. 3346 del 2014).
A fronte di tale quadro normativo e giurisprudenziale, come già anticipato, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata più volte dichiarando l’illegittimità delle suddette procedure, in quanto in violazione del principio di legalità, il quale legittima la compromissione del diritto di proprietà a fronte della prevalenza dell’interesse pubblico creando procedure di espropriazione c.d. indirette e per tanto inammissibili (cfr. Corte EDU, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia). 
A seguito degli interventi della Corte EDU, il legislatore è intervenuto intoducendo l’art. 43 d.P.R. n. 327/2001, allo scopo di sopperire al vulnus di una base legale in materia di acquisizione del bene alla proprietà pubblica. In tutti i casi in cui si sarebbero verificate occupazioni illegittime e sine titulo, in base all’art. 43 citato sopra, doveva ritenersi legittimo procedere all’attribuzione alla PA, “che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”, del potere di disporre, “valutati gli interessi in conflitto”, l’acquisizione al suo patrimonio indisponibile.
Per tanto, l’Adunanza Plenaria, con la decisione n. 2/2005, ha definitamente espunto dall’ordinamento interno l’istituto dell’occupazione acquisitiva, affermando che l’unico titolo idoneo a trasferire la proprietà del bene illegittimamente occupato alla PA era da rinvenirsi nella disposizione dell’art. 43 d.P.R. n. 327/2001 e che tale procedimento era da ritenersi di extrema ratio a fronte della valutazione dell’importanza dell’interesse pubblico perseguito nel caso concreto, succedaneo alla procedura tipica di espropriazione e comunque avente efficacia ex nunc.
Tale disposizione però, venne dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 293/2010, per eccesso di delega ex art. 76 Cost. e con la stessa pronuncia ha inoltre ribadito l’illegittimità delle procedure di espropriazione indiretta, per palese contrasto con il principio di legalità. Al fine di colmare la lacuna aperta dalla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 D.P.R. n. 327/2001 e, nel contempo, di superare le controverse questioni di diritto sostanziale e processuale sorte in sede di applicazione dell’art. 43, il legislatore è intervenuto introducendo l’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, il cui scopo consiste nella soddisfazione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano l’acquisizione del bene utilizzato al patrimonio indisponibile della P.A. in funzione del mantenimento dell’opera pubblica realizzata. In sostanza, la norma attribuisce alla Pubblica Amministrazione il potere, valutati gli interessi in conflitto, di disporre l’acquisizione (al patrimonio indisponibile) dell’immobile appartenente al privato e utilizzato senza titolo, in presenza dei presupposti e alle condizioni da essa stabiliti, e disciplina la misura dell’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale conseguente alla perdita definitiva del bene, valutato in base al valore venale, maggiorato della componente non patrimoniale (dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato), e con salvezza della possibilità, per il proprietario, di provare ulteriori autonome voci di danno (in tal senso,  cfr. Ad. Plen., sent. n. 2/2016). 

3. Conclusione

L’evoluzione normo-giurisprudenziale che ha caratterizzato il tentativo di legittimare le occupazioni dei beni in proprietà dei privati senza titolo ad opera della PA, in ragione del bilanciamento tra gli opposti interessi, pubblico e privato, ha condotto ad una certezza sul punto: non è possibile la conformazione di una c.d. occupazione sine titolo acquisitiva iure proprio. In altre parole, mentre fino all’introduzione dell’art. 42 bis del testo unico espropriazioni veniva riconosciuto alla PA il potere di acquisire la proprietà a titolo originario del bene occupato illegittimamente per le ragioni su esposte, palesando una rinuncia abdicativa alla proprietà da parte del privato senza in realtà che lo stesso poteva esprimere tale volontà direttamente, adesso non solo tale modus operandi non è più ammissibile ma, il privato, a fronte di una procedura di espropriazione illegittima ha sempre il diritto di chiedere ed ottenere la restituzione dell’area occupata attraverso l’azione di condanna ex art. 30 co II del D.Lgs. n.104\2010 e solo in un secondo momento si potrà, secondo la stessa disposizione nel caso in cui sussistessero i presupposti previsti dall’art. 2058 c.c., fare ricorso al risarcimento del danno  per equivalente. In sostanza, il privato potrà sicuramente chiedere la restituzione dell’area espropriata e in aggiunta chiedere il risarcimento del danno subito e il ripristino dello status quo ante.  In tale ultimo caso, solo in via eccezionale, valutando in concreto la configurazione dei presupposti ex artt. 2058 e 2933 c.c., il giudice può condannare la PA al risarcimento per equivalente in luogo della forma specifica. In merito alla possibilità di ritenere configurabile la rinuncia del privato alla proprietà dell’area illegittimamente occupata, si può affermare che essa è possibile ma solo tramite manifesta volontà in tal senso. Secondo tale assunto, si ritiene quindi, che dalla presentazione della sola richiesta del risarcimento del danno patito si possa desumere la rinuncia c.d. abdicativa del privato alla proprietà dell’area occupata illegittimamente. Sul punto però permangono, ad avviso di chi scrive, delle perplessità. Invero, tale conclusione stride con le carettistiche che connaturano la proprietà e che differenziano tale istituto dai diritti reali minori. Ci si riferisce ai “poteri negativi” di cui il proprietario gode e che si sostanziano nel non godere e nel non disporre della cosa e che si traduce nella non estinzione del diritto di proprietà. E’ pur vero che il proprietario può abbandonare la cosa che ha in proprietà attraverso la c.d. rinuncia abdicativa, ma quest’ultima deve essere manifestata direttamente in ogni caso (quindi anche con riferimento al bene mobile) e con il vincolo della forma scritta, cui deve seguire la trascrizione dell’atto dismissivo ex artt. 1350 n.5 e 2643 n. 5 c.c. in caso di beni immobili. Dunque, considerata la rigidità di tale procedura, in combinato ai principi che caratterizzano il diritto di proprietà, ne consegue che non si possa far discendere una forma di rinuncia alla proprietà dalla semplice proposizione della sola domanda di risarcimento del danno in sede giudiziale. Oltre tutto, la stessa giurisprudenza che può dirsi consolidata sulla rigidità dei principi del numero chiuso e di tipicità dei diritti reali, non può pervenire ad un risultato opposto sulla base dell’interesse generale e dal tipo di parte interessata nel caso specifico (PA). Tanto è dimostrato dal vincolo costituzionale da cui discende la legittimazione di principi non scritti del numero chiuso e della tipicità dei diritti reali. Ci si riferisce al già esaminato art. 42 Cost. e nello specifico, al principio di legalità in esso enucleato e che risulta essere violato seguendo la soluzione giurisprudenziale appena analizzata. Si deve considerare, infatti, che il proprietario non ha scelto liberamente di privarsi del bene in proprietà ma, si è visto espropriare di fatto tale bene a seguito di un potere esercitato illegittimamente da parte della PA.
Sullo stesso tema, è acceso il dibattito anche sulla possibilità della configurazione dell’istituto dell’usucapione. In altre parole, dal momento che il bene in proprietà al privato rimane di fatto in possesso (occupato) della PA, ci si chiede se la medesima non possa acquistare la proprietà del bene illegittimamente occupato attraverso l’esercizio del possesso prolungato nel tempo utile a far maturare l’effetto dell’usucapione. In tal senso, potrebbe rilevare la sola proposizione della domanda di risarcimento del danno. Ma, anche in questo caso, non si condivide l’orientamento che ne ammette la configurabilità. Infatti, tra i presupposti per la conformazione dell’usucapione vi è il requisito della pacificità del possesso che nel caso dell’espropriazione illegittima non può dirsi essersi configurato. Ne consegue che, a fronte della sola domanda di risarcimento del danno, la PA non possa avanzare alcun diritto di proprietà sul bene illegittimamente occupato (su questo punto la Corte Costituzionale con la richiamata sentenza n. 71/2015 ricorda di avere affermato proprio in materia espropriativa i privati interessati devono essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico» (sentenza n. 13 del 1962; sentenze n. 344 del 1990, n. 143 del 1989 e n. 151 del 1986) e che una volta provveduto allo stesso la PA debba procedere o in via negoziale o azionando l’art. 42 bis senza corrispondere ulteriori indennizzi, perchè assorbiti dal risarcimento stabilito dal giudice.

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Risulta ormai acclarata, in ogni ambito giuridico, l’utilità del ricorso a trattazioni in forma di dizionario, in particolare per coloro che si accostano, come interpreti o come operatori, all’espropriazione per pubblica utilità. Lo confermano la prassi amministrativa e la giurisprudenza, civile e amministrativa, che giorno dopo giorno rendono sempre più impellente la necessità di una iniziale alfabetizzazione sulla quale fondare lo sforzo diretto a ordinare e comporre quel vasto universo racchiuso nell’istituto ultracentenario di cui si tratta e che si è arricchito con quello che, ancora a ragione, viene definito come “nuovo” Testo Unico dell’Espropriazione, operativo dal 30 giugno 2003. In questo spirito, si è provveduto ad una raccolta aggiornata delle principali voci riferite alle singole fasi in cui è articolata la procedura espropriativa (ma oggi sarebbe forse più corretto parlare di procedure espropriative, come vogliono la CEDU e la Corte Costituzionale). Tali voci si completano, ove occorra, con i rimandi alle altre voci, in modo da stabilire i collegamenti idonei a fornire l’avvio a soluzione delle specifiche problematiche con le quali si è chiamati a confrontarsi nell’esperienza pratica. Antonino Cimellaro Avvocato cassazionista e consulente in materia di opere pubbliche, con particolare riferimento alla espropriazione per pubblica utilità e alle procedure autorizzatorie. In tali ambiti è docente in corsi di formazione nonché autore di pubblicazioni. Collabora con riviste specializzate di settore.

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Francesca Fuscaldo

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