Fonti ed elementi dell’espropriazione illegittima
L’art. 42 della Costituzione rappresenta la norma cardine del sistema espropriativo. In particolare, il comma III della disposizione afferma che, nei casi previsti dalla legge, la proprietà privata può essere espropriata per motivi d’interesse generale e salvo indennizzo. Attualmente il quando normativo dell’espropriazione per pubblica utilità è regolato dal D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327. Si tratta di un testo unico innovativo e non meramente compilativo che è stato oggetto di numerosi interventi di riforma, anche alla stregua di alcune sentenze della Corte Costituzionale. Nel procedimento di espropriazione i soggetti attivi sono l’espropriando che s’identifica nel proprietario che subisce l’ablazione, l’autorità procedente la quale avvia il procedimento di esproprio al fine di realizzare un’opera pubblica o di pubblica utilità e il beneficiario dell’espropriazione che non necessariamente è un soggetto pubblico, poiché può anche trattarsi di un privato. L’oggetto dell’espropriazione può riguardare beni immobili o diritti relativi ad immobili.
Il privato deve avere immediata conoscenza della procedura espropriativa avviata dall’autorità procedente già da quando appone il vincolo preordinato all’esproprio che instaura il legame fra la pianificazione urbanistica e il potere ablatorio esercitabile sul bene. Invero, anche al procedimento espropriativo risulta applicabile la disciplina di cui agli art 7 e seguenti della legge 241/90 in tema di partecipazione procedimentale. Ne deriva, dunque, un obbligo di comunicazione di avvio del procedimento della dichiarazione di pubblica utilità agli interessati che potranno interloquire mediante osservazioni anche nella fase di determinazione dell’indennità.
1.1 Occupazione illegittima
Nell’ambito dell’espropriazione si è posto un problema relativamente ad una prassi in espansione da parte della pubblica amministrazione. Quest’ultima, negli ultimi anni, sprovvista dal rituale decreto di esproprio, si appropriava del suolo del privato trasformandolo irreversibilmente in un’opera pubblica. L’accessione invertita consentiva al soggetto pubblico di divenire proprietario del suolo. Invero, l’irreversibile trasformazione del terreno ad opera della P.A. conseguiva l’accessione della proprietà del suolo alla proprietà dell’opera pubblica realizzata.
La giurisprudenza coniando tale fattispecie con il nome di occupazione appropriativa ha ritenuto che l’opera realizzata fosse il frutto di un fatto illecito che determina la responsabilità extracontrattuale della p.a. ma al contempo rappresenta un titolo idoneo per l’acquisto, a titolo originario, del bene. La ratio di tale riconoscimento era quella di fornire almeno una tutela risarcitoria al privato colpito dall’illegittima occupazione amministrativa derivante dalla mancanza di un titolo sin dall’origine ovvero pur sussistendo un titolo iniziale di legittimazione, era scaduto il termine finale dell’occupazione legittima.
La giurisprudenza chiarisce che affinché la fattispecie acquisitiva possa realizzarsi in capo al soggetto pubblico occorre, in ogni caso, una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Inoltre, nel momento in cui l’acquisizione sia avvenuta in assenza del decreto espropriativo sorge l’obbligo per la p.a. di risarcire il danno nella misura integrale del valore venale del bene, soggetto al termine prescrizionale di cinque anni.
Conseguenze applicative dell’istituto
La Suprema Corte a Sezioni Unite ha specificato le caratteristiche della occupazione appropriativa. Quest’ultima, in particolare, deve essere, quindi, connotata dalla trasformazione irreversibile del fondo ad un’opera pubblica strutturalmente nuova ma illecita per l’assenza del titolo formale. Soltanto con la dichiarazione di pubblica utilità si segnerà il formale acquisto del soggetto pubblico che comporterà la perdita dell’originaria fisionomia del fondo occupato. Tale approdo però ha destato molte perplessità. Invero, il richiamo alla normativa civilistica dell’accessione invertita, regolato da disposizioni eccezionali, è utilizzato per l’acquisto della proprietà privata, estranea da interventi pubblicistici. Inoltre, l’istituto in esame, sembrerebbe registrare una violazione dell’art 42 della Costituzione che consente il fenomeno ablatorio nei soli casi previsti dalla legge.
Pertanto, l’accessione invertita, cosi intesa, contrasterebbe con il principio della legalità rappresentando, invece, un istituto meramente fattuale. Non mancherebbe, altresì, una violazione a livello sovranazionale. In particolare, l’occupazione appropriativa lederebbe quanto consacrato all’art 1 del primo Protocollo addizionale della Cedu che annovera la proprietà privata come diritto fondamentale. Anche secondo la fonte sovranazionale, l’oblazione del diritto di proprietà deve avvenire nel rispetto del principio di legalità e, pertanto, deve essere prevista e determinata da una legge chiara accessibile precisa. Ad acclarare il dato sovranazionale è stata una pronuncia della Corte di Strasburgo stabilendo che l’occupazione appropriativa resta un fatto illecito.
Rimedi per il privato illegittimamente espropriato
Una problematica connessa riguarda la tutela del proprietario illegittimamente espropriato. Se dall’illecito derivava la possibilità per il privato di ottenere il risarcimento non era chiara la quantificazione in concreto del danno. In particolare, la disciplina distingueva il quantum debeatur a titolo risarcitorio a seconda dell’edificabilità del suolo. Per i suoli edificabili occupati illecitamente prima del 1996, la valutazione del danno era parametrata all’indennizzo dovuto per le espropriazioni legali mentre per i terreni non edificabili e le occupazioni appropriative successive al 1996, il risarcimento era pari al valore venale del bene.
La disciplina in esame fu oggetto di censura sovranazionale e costituzionale. Invero, le indennità riconosciute dai giudici nazionali vennero ritenute insufficienti dalla Corte Edu per le vittime di un’espropriazione di pubblica utilità. Il successivo intervento del giudice delle leggi confermò il contrasto della disciplina con l’art 117 Cost., relativamente alla violazione dell’art 1 del Protocollo Cedu. In particolare, la Corte Costituzionale ha precisato che il danno provocato dall’occupazione appropriativa deve essere commisurato all’effettivo pregiudizio subito dal privato illegittimamente espropriato che s’identifica con un ristoro pari al valore venale del bene.
Alla luce di tali pronunce il legislatore ha riformulato l’art 55 del T.u. sull’Espropriazione, prevedendo il risarcimento del danno per il privato nella misura pari al valore venale del bene, nei casi di occupazione appropriativa di suoli edificabili alla data del 1996.
La disposizione riformulata, tuttavia, presenta non poche perplessità, con riguardo al valore venale del bene. Se infatti il parametro de quo sembra pertinente per la commisurazione dell’indennizzo da provvedimento di esproprio, nell’ipotesi di occupazione appropriativa derivante da fatto illecito non appare adeguato, atteso che al danno cagionato da condotta illecita si applica il principio del risarcimento integrale di cui all’art 1223 c.c. Infatti, il valore venale del bene copre solo la perdita della proprietà ma non anche quanto sofferto per la privazione illecita anteriore. Inoltre, preme sottolineare che il valore venale del bene non può essere uguale per tutti, posto che per alcuni soggetti il valore soggettivo del patrimonio occupato può superare quello di mercato.
Ulteriore fenomeno di occupazione illegittima
Un diverso fenomeno di occupazione amministrativa creato, altresì, in sede pretoria attiene alla fattispecie dell’occupazione usurpativa che avviene allorquando si realizza la trasformazione radicale del bene in assenza di una dichiarazione di pubblica utilità o quando quest’ultima sia attuata dopo la sua scadenza. In tale ipotesi, non si verifica automaticamente l’irreversibile trasformazione del bene ma sarà il privato usurpato a scegliere se rinunciare implicitamente al diritto dominicale o se invocare la tutela restitutoria. Soltanto dopo che il privato abbia scelto di rinunciare vi sarà l’acquisizione del bene alla mano pubblica, dalla quale però dovrà conseguire una tutela integralmente risarcitoria.
Sulla scelta del privato si sono contrapposti due orientamenti; un primo indirizzo ha ritenuto che la richiesta di risarcimento del privato implicasse l’abdicazione del diritto di proprietà ma non anche il passaggio di proprietà del bene all’amministrazione. Un secondo orientamento, specificando che l’irreversibile trasformazione del bene in un’opera pubblica assurgesse a mero fatto e non a titolo di acquisto della proprietà, ha ritenuto che la richiesta di risarcimento da parte del privato non comporta la perdita, in capo al privato, del terreno illegittimamente occupato. Pertanto, l’azione risarcitoria, secondo tale recente orientamento, non può intendersi come un negozio abdicativo della proprietà. Sicché il trasferimento della proprietà in capo al soggetto pubblico potrà avvenire solo in base ad un atto di acquisizione avente carattere contrattuale o ablatorio. Nell’occupazione usurpativa l’attività meramente materiale dell’amministrazione che lede il diritto dominicale si presenta come illecito permanente con la conseguenza che il dies a quo della prescrizione decorrerà dalla cessazione della permanenza.
Il fenomeno dell’acquisto del bene in capo alla p.a. venne poi regolato dall’art 43 del T.U sull’espropriazione che prevedeva l’utilizzazione sine titulo la quale comprendeva le due occupazione descritte. In particolare, la disposizione prevedeva che, in sede di giudizio promosso dal privato, qualora il giudice amministrativo avesse disposto il risarcimento del danno ad avesse escluso la restituzione dell’immobile in capo al privato, la p.a. avrebbe potuto emanare l’atto di acquisizione, dando atto dell’avvenuto risarcimento determinato dal valore venale del bene e dagli interessi moratori decorrenti dal giorno di occupazione senza titolo e trascrivendo il decreto nei pubblici registri. L’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento per fronteggiare la realizzazione di un’opera pubblica derivante dall’illegittimità della procedura espropriativa era, dunque, l’emanazione di un provvedimento legittimo di acquisizione, ai sensi dell’art 43 del T.U., rigorosamente motivato circa la valutazione della pubblica utilità dell’opere e del carattere eccezionale del potere acquisitivo.
La disposizione richiamata venne dichiarata illegittima per eccesso di delega. Invero, la nuova fattispecie di acquisizione sanante parificava le due occupazione elaborate in sede pretoria ed estendeva l’applicazione anche alle servitù che invece erano state escluse dalla giurisprudenza.
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La nuova disciplina: utilizzazione sine titulo
A colmare tale lacuna fu l’inserimento dell’art 42 bis che accomuna nel suo ambito di applicazione tutte le ipotesi di occupazione illegittima. Invero, la norma si applica sia quando manchi del tutto l’atto espropriativo sia in quelle ipotesi in cui vi è stato l’annullamento dell’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, nonché del provvedimento della dichiarazione di pubblica utilità ovvero del decreto di esproprio. Rispetto al precedente articolo, la nuova disposizione prevede la necessaria adozione di un provvedimento di acquisizione, a prescindere dalla pendenza di giudizio, che disciplina un procedimento analitico attraverso il quale occorre fornire il carattere eccezionale ed attuale dell’interesse pubblico, che conduce all’acquisto del bene, previa valutazione comparativa del contrapposto interesse privatistico.
Il passaggio della proprietà si verifica quando l’amministrazione provvede al pagamento delle somme dovute a titolo indennitario. In particolare, la nuova fattispecie, prevede l’obbligo in capo al soggetto pubblico di corrispondere una doppia indennità comprensiva del pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito dal privato illegittimamente espropriato pari al valore venale del bene e al dieci per cento della somma e dal risarcimento del pregiudizio patito nel periodo d occupazione illecita che s’identifica, salvo diversa prova, nella misura del 5% annuo del valore venale del bene.
Tuttavia, la nuova norma sembrerebbe proporre un meccanismo di espropriazione indiretta che consentirebbe l’acquisizione della proprietà da parte della p.a. all’esito di un comportamento illecito, violando cosi i principi costituzionali e sovranazionali. In tale prospettiva la Suprema Corte ha sollevato questione di costituzionalità ritenendo che l’istituto de quo non può rappresentare uno strumento che abilita un acquisto coatto illegittimo.
Tuttavia, la Corte Costituzionale ha ritenuto l’art 42 bis pienamente legittimo in virtù del procedimento analitico che disciplina e del provvedimento d’acquisizione connotato da una rigorosa motivazione nonché dal pieno ristoro che avviene in favore del privato. Ad acclarare la legittimità della norma sarebbe anche la previsione relativa alla comunicazione alla Corte dei Conti che deve avvenire entro 30 giorni dal provvedimento di acquisto in cui la Corte verifica eventuali responsabilità. Il giudice delle leggi chiarisce che, adottando l’atto di acquisizione, l’amministrazione ritorna a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa.
Tuttavia, il procedimento esaminato dalla norma seppur definito pienamente legittimo deve essere considerato come estrema ratio al fine di risolvere la vicenda ablatoria illegittima, in presenza di parametri comunque predeterminati dalla stessa disposizione legislativa.
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