di Lucilla Galanti*
* Assegnista di ricerca nell’Università di Firenze
Sommario
1. Il caso di specie
2. Alcuni principi sulla prova di condotte anticoncorrenziali
3. L’applicazione delle regole probatorie ai fatti di causa
4. (Segue): l’esistenza di un’infrazione unica e continuata
5. L’estensione della partecipazione all’accordo anticoncorrenziale
6. Una riflessione conclusiva
1. Il caso di specie
Con la sentenza in commento[1], il Tribunale dell’Unione Europea è stato chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione di una decisione della Commissione in materia di accordi e pratiche anticoncorrenziali.
Secondo la decisione impugnata[2], la società ricorrente – specializzata nel trattamento dei metalli – aveva partecipato ad un’intesa volta a coordinare i prezzi degli abrasivi nell’intero Spazio economico europeo (SEE), sulla base di due distinti profili; da un lato, le società partecipanti avrebbero introdotto un metodo di calcolo uniforme pervenendo ad una maggiorazione coordinata del prezzo degli abrasivi (chiamata, nella pronuncia, «maggiorazione dei rottami»); dall’altro, esse avrebbero convenuto di coordinare il loro comportamento rispetto ai prezzi di vendita degli abrasivi praticati a clienti individuali, impegnandosi a non farsi concorrenza tramite riduzioni di prezzo.
Tra i motivi di impugnazione proposti[3], la società ricorrente contestava anche l’insufficienza degli elementi di prova sui quali la Commissione Europea aveva fondato la partecipazione all’intesa, così conferendo al Tribunale l’occasione per ripercorrere alcuni principi in tema di onere della prova in materia[4].
[1] Sentenza del Tribunale UE, 28 marzo 2019, T-433/16, in eur-lex.europa.eu.
[2] Si tratta della decisione della Commissione C(2016) 3121 final, del 25 maggio 2016.
[3] In particolare, la ricorrente chiedeva l’annullamento della decisione, la sua riforma o la riduzione dell’ammenda. Nella prospettiva adottata, la decisione sarebbe stata viziata, in primo luogo, da una violazione del principio di imparzialità del giudizio, del principio della presunzione di innocenza e dei diritti della difesa; in secondo luogo, da una violazione dell’art. 101 TFUE e 53 dell’accordo SEE, da insufficienza e contraddittorietà della motivazione, nonché dalla violazione dei diritti della difesa e delle norme relative all’onere della prova, in quanto la Commissione avrebbe imputato alla ricorrente il coinvolgimento nell’intesa in assenza di prove; in terzo luogo, da una violazione dell’art. 101 TFUE e 53 dell’accordo SEE, poiché la Commissione aveva ritenuto che l’intesa costituisse una restrizione della concorrenza per oggetto; veniva poi contestata la durata della partecipazione all’intesa e invocata la prescrizione. Rispetto alla riduzione dell’ammenda, si deduceva invece la violazione dell’obbligo di motivazione nonché dei principi di proporzionalità e di parità di trattamento.
[4] V. punti 105 ss. della sentenza in commento. Il diritto europeo delle prove rappresenta una materia complessa; si mette infatti in rilievo come «non si presti a grandi sintesi e non possa essere oggetto di superbi affreschi», richiedendo, piuttosto, la «pazienza del miniaturista»: P. Biavati, Il diritto delle prove nel quadro normativo dell’Unione europea, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 484.
2. Alcuni principi sulla prova di condotte anticoncorrenziali
Norma cardine sul punto è l’art. 2 del Regolamento (CE) n. 1/2003[5], che pone l’onere della prova di condotte anticoncorrenziali – in particolare, in violazione degli artt. 101 e art. 102 TFUE, relativi, rispettivamente, al divieto di pratiche e accordi anticoncorrenziali, nonché di abuso di posizione dominante[6] – in capo all’autorità che asserisce l’infrazione[7]; nel caso di specie, la Commissione.
Quest’ultima, nella fase pre-processuale disciplinata dal Regolamento[8], deve raccogliere elementi di prova sufficienti a dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi dell’infrazione[9], ed è a tal fine investita di rilevanti poteri di natura inquisitoria[10]; poiché in materia vige un principio di presunzione di innocenza, inoltre, l’eventuale dubbio residuo sulla condotta anticoncorrenziale deve risolversi a vantaggio dell’impresa[11].
In concreto, tuttavia, l’onere probatorio posto in capo alla Commissione risulta alquanto agevolato: ogni elemento prodotto, come specifica il Tribunale, «non deve necessariamente essere preciso e costituire di per sé una prova autonoma dell’infrazione», risultando invece sufficiente che la prova emerga da «un complesso di indizi e di elementi» valutati congiuntamente.
Allo stesso tempo, si ammette un ampio uso di prove presuntive: in ragione della segretezza che normalmente circonda gli accordi anticoncorrenziali, e della conseguente scarsa documentazione degli stessi, gli indizi rappresentano infatti un mezzo di prova privilegiato[12]. D’altra parte si sottolinea come, quand’anche fossero presenti documenti idonei ad attestare in termini espliciti un contatto tra le società coinvolte nell’infrazione[13], si tratterebbe comunque di elementi frammentari e sporadici, da integrare tramite una ricostruzione per deduzioni[14].
Rispetto al valore da attribuire al catalogo degli elementi probatori, poi, emerge una discrezionalità ampia; nel diritto dell’Unione Europea in materia, infatti, non diversamente dall’ordinamento interno, il criterio di valutazione della prova si fonda sul principio del libero apprezzamento, con la conseguenza che, quando un elemento di prova sia stato ottenuto regolarmente, la sua ricevibilità non può essere contestata dinanzi al Tribunale[15].
[5] Regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002.
[6] L’art. 101 TFUE (ex articolo 81 del TCE), par. 1, vieta gli accordi tra imprese, le decisioni di associazioni di imprese e le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno; divieto che, però, ai sensi del par. 3, incontra alcune ipotesi di esenzione. L’art. 102 (ex articolo 82 del TCE), invece, vieta, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo.
[7] Ai sensi dell’art. 2, infatti, in tutti i procedimenti nazionali o comunitari relativi all’applicazione degli artt. 101 e art. 102 TFUE, l’onere della prova dell’infrazione incombe alla parte o all’autorità che asserisce tale infrazione. Incombe invece all’impresa o associazione di imprese che invoca l’applicazione di una delle cause di inapplicabilità dell’art. 101, par. 3, l’onere di provare che le condizioni in esso enunciate sono soddisfatte.
[8] Si mette in rilievo che il Regolamento «disciplina direttamente soltanto la fase precontenziosa davanti alla Commissione e alle autorità garanti nazionali, ma non prevede alcuna disposizione di carattere processuale in senso stretto. In altre partole, si tratta di regole destinate all’applicazione in un procedimento di natura non giurisdizionale»: R. Bonatti, La libera circolazione della prova nel nuovo regolamento europeo sulla concorrenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 193.
[9] V. punto 107 della sentenza. Si v. anche la sentenza del 12 aprile 2013, CISAC/Commissione, T-442/08. Sul tema della prova dell’infrazione, v. F. Ghezzi – M. Maggiolino, Le pratiche concordate nel diritto antitrust europeo, ossia: quando giochi a carte, tienile coperte, in Riv. soc., 2013, 1259.
[10] I singoli poteri di cui è investita la Commissione trovano specificazione agli artt. 17 ss. del Regolamento, ove si prevede un potere di indagine, di richiedere informazioni, di raccogliere dichiarazioni, oltre a un generale potere di accertamento. Si ritiene però che la Commissione sia gravata altresì di un onere di prova contrario; essa, cioè, è tenuta a esaminare non solo gli elementi di fatto che possono provare l’esistenza di un piano di insieme, ma anche quelli che possono metterlo in dubbio: v. punto 247 della sentenza.
[11] V. punto 108.
[12] Come sottolinea il Tribunale, «l’esistenza di una pratica o di un accordo anticoncorrenziale, nella maggior parte dei casi, deve essere dedotta da un certo numero di coincidenze e di indizi, i quali, considerati nel loro insieme, possono costituire, in mancanza di un’altra spiegazione coerente, la prova di una violazione delle regole di concorrenza»: v. punto 112. Inoltre, la Commissione può tenere conto anche di elementi accertati al di fuori del periodo di infrazione, avvalendosi di circostanze fattuali precedenti o successive al comportamento anticoncorrenziale per confermare il contenuto di un elemento oggettivo di prova: punto 113. Si v. le sentenze del 17 settembre 2015, Total Marketing Services/Commissione, C-634/13 P; del 26 gennaio 2017, Commissione/Keramag Keramische Werke e a., C-613/13 P; del 16 giugno 2015, FSL e a./Commissione, T 655/11.
[13] Come potrebbero essere i resoconti di una riunione intercorsa tra le imprese.
[14] V. punto 111. Le prove documentali conservano, com’è ovvio, un valore probatorio “rinforzato” rispetto alle mere presunzioni; per contestarne l’efficacia, infatti, non è sufficiente presentare un’alternativa ricostruttiva a quella che su di esse si è fondata, ma occorre contestarne esplicitamente l’insufficienza dimostrativa. Una particolare rilevanza è attribuita anche «ai documenti redatti in immediata concomitanza con i fatti o da un testimone diretto», nonché alle eventuali dichiarazioni rese dalle altre imprese coinvolte nell’infrazione; le quali, però, se contestate, devono essere suffragate da ulteriori elementi (punti 114 e 117-119 della sentenza in commento). Su tali aspetti, si v. la sentenza del 7 gennaio 2004, Aalborg Portland e a./Commissione, sulle cause riunite C-204/00 P, C-205/00 P, C-211/00 P, C-213/00 P, C-217/00 P e C-219/00 P; dell’8 luglio 2004, JFE Engineering e a./Commissione, T-67/00, T-68/00, T-71/00 e T-78/00; del 20 maggio 2015, Timab Industries e CFPR/Commissione, T-456/10.
[15] V. punto 115. Su tali basi, si afferma pure che «l’unico criterio pertinente ai fini della valutazione del valore probatorio delle prove regolarmente prodotte consiste nella loro attendibilità». In ogni caso, il Tribunale precisa che il valore probatorio del documento, e così pure la sua attendibilità, dipendono dalla sua fonte, dalle circostanze in cui è stato redatto, dal suo destinatario e dalla sensatezza e attendibilità del suo contenuto (punto 116).
3. L’applicazione delle regole probatorie ai fatti di causa
Nel caso di specie, la società ricorrente adduceva la violazione delle regole sull’onere probatorio esistente in capo alla Commissione con riferimento ad entrambi i profili rilevanti dell’intesa – ossia, l’adozione del metodo di calcolo «maggiorazione rottami» e il coordinamento della clientela -, oltre che rispetto alla partecipazione a un’infrazione unica e continuata. I motivi di contestazione, tuttavia, sono stati respinti dal Tribunale.
Quanto all’adozione del metodo di calcolo di maggiorazione, il Tribunale ha escluso che, a fronte degli elementi forniti, la Commissione non abbia sufficientemente dimostrato la responsabilità della ricorrente. Da un lato, infatti, si ritiene che l’applicazione della maggiorazione dei rottami sia rivestito di un carattere di automaticità; dall’altro, sarebbero stati comunque valorizzati contatti «limitati ma significativi» intercorsi tra la ricorrente e gli altri partecipanti all’intesa[16].
Anche in relazione al secondo profilo dell’intesa, ossia il coordinamento delle condizioni commerciali applicate dalle società partecipanti rispetto a determinati clienti individuali – con riferimento al quale la Commissione aveva concesso alla ricorrente una riduzione dell’importo dell’ammenda, in ragione del carattere più limitato della sua partecipazione – il Tribunale ha ritenuto soddisfatto l’onere della prova[17]. In proposito, viene in rilievo la distinzione tra responsabilità dell’impresa ad un’infrazione unica e continuata, possibile anche laddove la partecipazione abbia riguardato solo in parte i comportamenti collusivi, e responsabilità individuale per l’infrazione, fondata invece sul comportamento tenuto dalla singola impresa; comportamento che, in ragione del principio di individualizzazione della sanzione, rileva ai fini del calcolo dell’ammenda. L’onere della prova incombente sulla Commissione, infatti, non riguarda la partecipazione a tutti gli atti in cui si è concretizzata l’intesa o ad ogni singolo elemento costitutivo della medesima; al contrario, laddove l’impresa abbia deliberatamente deciso di partecipare ad un’infrazione unica e continuata, può essere ritenuta responsabile per l’infrazione nel suo complesso, per tutta la durata della sua partecipazione[18].
Su tali basi, dunque, non si esclude che la prova possa riguardare una ridotta partecipazione alle riunioni e ai contatti tramite i quali si è concretizzata l’intesa; al contrario, il Tribunale ritiene sufficiente l’esistenza di prove documentali «serie, circostanziate, precise e concordanti» rispetto al coordinamento relativo a determinati clienti individuali anche in un numero ridotto di Stati SEE[19].
[16] V. punti 147 ss.
[17] Punti 175-176.
[18] Punti 178 ss.
[19] Si trattava, in particolare, di cinque Stati rispetto ai ventuno in cui la ricorrente vendeva abrasivi.
4. (Segue): l’esistenza di un’infrazione unica e continuata
La ricorrente afferma altresì che la mera esistenza di contatti con le altre società coinvolte nell’intesa non consentirebbe di ritenere provata la conoscenza o conoscibilità, da parte sua, di un’infrazione unica e continuata, profili rispetto ai quali la Commissione non avrebbe assolto l’onere della prova[20].
Tuttavia, anche questa censura è stata superata dal Tribunale; infatti, qualora diverse azioni si collochino all’interno di un unico «piano d’insieme», identificato in ragione di uno stesso oggetto di distorsione della concorrenza all’interno del mercato comune, la Commissione può imputare la responsabilità della partecipazione per l’infrazione unitariamente considerata[21].
A tal fine, peraltro, può venire in rilievo una prova “doppiamente” presuntiva.
Innanzitutto, rispetto alle condotte in cui si è estrinsecata l’infrazione: non è infatti necessaria la prova della partecipazione diretta a ciascuna delle attività esecutive dell’intesa, ma anche solo la loro conoscenza o conoscibilità[22].
In secondo luogo, anche l’unicità dell’infrazione può essere desunta da elementi indiretti. Infatti, la dimostrazione che gli accordi o le pratiche concordate si inseriscono in un piano globale in esecuzione di un’unica intesa[23], consapevolmente posta in essere dalle imprese partecipanti allo scopo di realizzare uno stesso obiettivo anticoncorrenziale, può emergere da un elemento oggettivo ed uno soggettivo.
Quanto al primo, per dimostrare l’esistenza di un piano di insieme la Commissione può avvalersi di un «indizio obiettivo» qual è il rapporto di complementarità tra accordi o pratiche concordate, che si verifica laddove diverse condotte contribuiscano, interagendo reciprocamente, alla realizzazione di un obiettivo anticoncorrenziale unico[24]. Per quanto riguarda invece l’elemento intenzionale, è necessaria la prova di una comune volontà delle imprese coinvolte[25]. Per imputare la partecipazione ad un’infrazione unica e continuata nel suo complesso ad un’impresa che abbia posto in essere solo talune attività collusive, infatti, la Commissione deve dimostrare che tale impresa conosceva, o poteva ragionevolmente prevedere, l’insieme delle operazioni anticoncorrenziali attuate dalle altre partecipanti all’intesa[26].
Nel caso di specie, il Tribunale ha considerato raggiunta una prova siffatta; si ritiene, infatti, dimostrato che la ricorrente abbia contribuito «in modo intenzionale alla realizzazione del piano globale» diretto a restringere la concorrenza sui prezzi[27]. Ciò in quanto, da un lato, la società era stata «all’origine» dell’accordo relativo al calcolo della maggiorazione dei rottami, ideato sulla base di un sistema che ne consentiva l’applicazione automatica all’interno del SEE, contribuendo poi alla relativa attuazione; dall’altro, essa era coinvolta nei contatti anticoncorrenziali intesi a realizzare il coordinamento relativo ad alcuni clienti individuali. Tali profili dell’intesa «perseguivano esattamente lo stesso obiettivo di restringere la concorrenza sui prezzi», vertendo su prodotti identici e trovando attuazione ad opera e su iniziativa delle stesse imprese[28].
Di conseguenza, la partecipazione – benchè «relativamente esigua» – della ricorrente alle riunioni multilaterali e agli altri contatti con le imprese coinvolte, non poteva considerarsi di per sé idonea a escludere la conoscenza o la prevedibilità dell’intesa nel suo insieme, né l’adesione alla stessa.
Su tali basi, il Tribunale ha condiviso la conclusione della Commissione, ritenendo che la ricorrente conoscesse, o potesse ragionevolmente conoscere, i comportamenti illeciti degli altri partecipanti all’intesa, accettandone il rischio[29].
[20] Punti 236 ss.
[21] Punto 243. V. anche la sentenza del 6 dicembre 2012, Commissione/Verhuizingen Coppens, C-441/11 P.
[22] Qualora infatti un’impresa abbia partecipato direttamente solo ad alcuni dei comportamenti anticoncorrenziali che compongono l’infrazione unica e continuata, quest’ultima può comunque esserle imputata nel suo insieme laddove conoscesse, o potesse ragionevolmente prevedere accettandone di conseguenza il rischio, anche gli altri comportamenti illeciti previsti o posti in essere dagli altri partecipanti all’intesa: punto 244.
[23] Sulla distinzione tra nozione di pratica concordata e accordo, anche a fini probatori, v. M. Filippelli, Il problema dell’oligopolio nel diritto antitrust europeo: evoluzione, prospettive e implicazioni sistematiche, in Riv. soc., 2018, 173 ss. Sulla prova dell’accordo anticoncorrenziale e della pratica concordata, v. F. Ghezzi – M. Maggiolino, Le pratiche concordate nel diritto antitrust europeo, ossia: quando giochi a carte, tienile coperte, cit., 1249 e 1250. Su tali aspetti, v. M. Libertini, Diritto della Concorrenza nell’Unione Europea, Milano, 2014, 118 ss.
[24] Allo stesso modo l’esistenza di un piano di insieme può essere desunta da elementi presuntivi quali il periodo di applicazione, il contenuto, i metodi utilizzati, l’obiettivo dei diversi comportamenti in questione. V. punti 245-247.
[25] A venire in rilievo al fine di inferire l’esistenza di una volontà comune sono «indizi endogeni», che, mostrando una contrarietà alla razionalità economica che contraddistingua l’operato delle imprese, fanno emergere la ragionevole impossibilità di spiegare in altro modo i comportamenti delle imprese sul mercato: F. Ghezzi – M. Maggiolino, Le pratiche concordate nel diritto antitrust europeo, ossia: quando giochi a carte, tienile coperte, cit., 1257.
[26] V. punti 248 ss. Sul tema, v. sentenza del 10 ottobre 2014, Soliver/Commissione, T-68/09.
[27] Punto 253.
[28] Punti 254-256.
[29] Punto 257.
5. L’estensione della partecipazione all’accordo anticoncorrenziale
Infine, dalla ricorrente veniva censurata anche la mancanza di prova dell’estensione territoriale della propria partecipazione all’intesa anticoncorrenziale. La società, in particolare, non contestava l’estensione a livello del SEE dell’intesa nel suo complesso, né la prova della medesima, ma soltanto quella della propria partecipazione.
Neppure tale censura, però, è stata accolta. Per il Tribunale, infatti, una volta accertata la partecipazione ad un’infrazione unica e continuata estesa a livello del SEE, non rileva che il concreto apporto della ricorrente si sia limitato ad esplicarsi in uno spazio più limitato; ciò laddove, anche in tal caso, fosse informata della sua portata geografica, o potesse ragionevolmente prevederlo accettandone il rischio, come il Tribunale ha ritenuto dimostrato[30].
[30] Punti 258 ss.
6. Una riflessione conclusiva
L’accertamento dei fatti in materia di infrazioni alle norme sulla concorrenza, condotto dalla Commissione e dalle autorità nazionali[31], merita, nell’eventuale fase di impugnazione della decisione, una verifica giudiziale stringente, al fine di garantire alle parti coinvolte un effettivo controllo sul rispetto dei diritti difensivi. Gli ampi poteri istruttori di cui la Commissione è investita nella fase pre-processuale dovrebbero trovare bilanciamento nel successivo esame giudiziale, anche rispetto al corretto assolvimento dell’onere della prova e della sua valutazione. Il caso di specie mostra, tuttavia, la difficoltà di una ponderazione rigorosa nei casi in cui è fisiologica una preponderanza di elementi presuntivi, il cui valore probatorio riposa su una discrezionalità (forse, inevitabilmente) ampia[32].
[31] Sul controverso accertamento dei fatti da parte di organi non giurisdizionali in materia antritrust, e, in primis, sul ruolo svolto dalla Commissione, v. P. Biavati, Il diritto processuale e la tutela dei diritti in materia di concorrenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 106 ss. e 117, ove si rileva come il quadro normativo non garantisca pienamente l’accertamento giudiziale delle violazioni. D’altra parte, a fronte della «marcata attitudine inquisitoria del procedimento […] a sopportare il peso probatorio maggiore rischia di essere l’impresa denunciata, nonostante la formulazione apparentemente neutra dell’art. 2»; ciò dipende anche dalla «esatta determinazione del quantum di prova richiesto alla Commissione», poichè, se per dimostrare l’illiceità del comportamento sono ritenuti sufficienti «soltanto pochi elementi, in ipotesi anche indiretti o indiziari», l’onere della prova finisce per essere, di fatto, «quasi completamente posto sull’impresa, che dovrebbe dimostrare il contrario»: R. Bonatti, La libera circolazione della prova nel nuovo regolamento europeo sulla concorrenza, cit., 201.
[32] D’altra parte, «se è vero che i poteri di indagine degli organi preposti alla tutela del diritto antitrust non sono certo illimitati e che il loro esercizio è soggetto a precise verifiche di legittimità», tuttavia, «la loro dimensione è strutturalmente non tipizzata», risultando difficile pervenire ad una «precisa delimitazione dei modi per raggiungere la prova»: P. Biavati, Il diritto delle prove nel quadro normativo dell’Unione europea, cit., 500.
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