Massima: La stipula di un patto di opzione, nel quale vi sono due parti che convengono che una di esse resti vincolata dalla propria dichiarazione mentre l’altra resta libera di accettarla o meno, non fa sorgere un vincolo giuridico che abiliti ciascuna delle parti ad agire per la esecuzione specifica del negozio o per il risarcimento del danno, con la conseguenza che non matura il diritto del mediatore alla provvigione. L’affare può dirsi concluso solo ove sorga tra le parti un rapporto obbligatorio. Tale effetto può nascere anche da negozi giuridici preparatori, ma alcuni di essi non sono idonei alla nascita di effetti obbligatori. Tra i negozi preparatori inidonei al sorgere di un rapporto obbligatorio vi sono la puntuazione e anche l’opzione. Dall’opzione sorge per l’opzionario un diritto potestativo e per il concedente una posizione di soggezione, non già un rapporto obbligatorio.
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Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta un argomento nel quale esiste un solo precedente di legittimità, dal quale la Corte si discosta.
Una società di intermediazione citava in giudizio un proprio cliente, ritenendo di avergli procacciato un affare e, pertanto, di avere diritto alla provvigione. Tra il cliente della società e l’altra parte era stato stipulato un documento di natura controversa.
Secondo il Tribunale di prime cure, tale documento era idoneo a costituire obbligazioni tra le parti.
Secondo la Corte d’Appello, invece, tale documento non poteva essere qualificato come contratto preliminare di vendita, nè come patto di opzione o comunque come atto idoneo ad ottenere una pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c.. La Corte riteneva che tale documento fosse una mera trasposizione dei termini dell’intesa sino a quel momento raggiunta tra le parti, di conseguenza, il diritto alla provvigione richiesto dalla società di intermediazione non era maturato in quanto l’affare non poteva ritenersi concluso.
La questione giuridica sulla quale pone la sua attenzione la Suprema Corte è se la stipula di un contratto di opzione dia diritto alla provvigione per l’intermediario.
Sul punto l’unico precedente di legittimità è costituito dalla sentenza Cass. 21 luglio 2004, n. 13590, secondo la quale “al fine di riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione, l’affare deve ritenersi concluso quando, tra le parti poste in relazione dal mediatore medesimo, si sia costituito un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire per l’esecuzione specifica del negozio o per il risarcimento del danno, con la conseguenza che anche la conclusione di un’opzione, contratto nel quale vi sono due parti che convengono che una di esse resti vincolata dalla propria dichiarazione mentre l’altra resta libera di accettarla o meno, può far sorgere tale diritto”.
Questo orientamento giurisprudenziale era incentrato sul concetto di “conclusione dell’affare”.
La giurisprudenza più risalente nel tempo ha interpretato la nozione di conclusione dell’affare in senso ampio, facendovi rientrare qualsiasi rapporto economico sociale, anche in assenza di vincoli giuridici per le parti.
Nel tempo, la giurisprudenza si è consolidata nel ritenere l’”affare” come un’operazione di natura economica che si risolve in un’utilità patrimoniale suscettibile, peraltro, di conseguenze giuridiche.
In sostanza, il diritto alla provvigione per il mediatore sorge quando l’affare è concluso, cioè si sia conclusa una “operazione di natura economica generatrice di un rapporto obbligatorio tra le parti”.
L’interesse economico cui le parti tendono può realizzarsi attraverso diversi strumenti giuridici, non limitati al solo contratto, e può realizzarsi anche quando l’attività del mediatore porti alla stipula di un atto precedente al contratto definitivo, ma che sia comunque idoneo a realizzare l’interesse economico delle parti.
Questi atti precedenti al contratto definitivo, rientrano nella categoria dei negozi preparatori, cioè di quei negozi che hanno la caratteristica di essere strumentali a un successivo negozio da cui scaturirà il definitivo assetto di interessi.
Pertanto, la loro caratteristica principale è di essere posti in essere in previsione della conclusione di un futuro contratto.
Nella categoria in oggetto, secondo dottrina e giurisprudenza, rientra certamente il contratto preliminare, in quanto questo obbliga i contraenti alla stipula del successivo definitivo, e legittima ciascuna delle parti ad agire per l’adempimento ex art. 2932 c.c. e al risarcimento dei danni.
Contrasti interpretativi sono invece sorti in relazione all’idoneità dell’opzione ad integrare la nozione di “conclusione dell’affare”, e quindi a far nascere il diritto alla provvigione ex art. 1755 c.c.
L’opzione, prevista dall’art. 1331 c.c. è un contratto, per il quale una parte si impegna a mantenere ferma una proposta per un certo tempo nell’interesse dell’altra parte. Nell’opzione il solo proponente rimane vincolato alla propria dichiarazione, mentre la controparte è libera sia di accettare puramente e semplicemente la proposta stessa, sia di formulare una controproposta.
Nell’opzione il vincolo della irrevocabilità della proposta consegue non ad un impegno assunto unilateralmente dal proponente, ma ad un accordo stipulato tra le parti. Ovviamente, tale vincolo non può durare all’infinito e, quindi, se non è stato fissato un termine di efficacia dell’opzione, questo è stabilito dal giudice.
L’opzione si distingue quindi dal contratto preliminare, perchè da quest’ultimo deriva un obbligo di stipulare il contratto definitivo, mentre nell’opzione il beneficiario è libero di avvalersene o meno, ma, se decide di esercitarla, il contratto è perfezionato e non occorre altra manifestazione di volontà.
Difatti, il nesso strumentale esistente tra contratto preliminare e contratto definitivo non ha nulla a che vedere con intercorre tra il momento iniziale (proposta) e il momento finale (accettazione) nel fenomeno della formazione progressiva del contratto, come l’opzione.
In definitiva, l’opzione determina in capo all’opzionario la nascita di un diritto potestativo che, se esercitato, conclude automaticamente il contratto di vendita, mentre la posizione del concedente si concreta in una soggezione a mantenere ferma la sua proposta contrattuale, senza ricevere alcuna tutela giuridica che assicuri la effettiva conclusione dell’affare oggetto della sua proposta.
Dopo aver delineato la struttura del contratto di opzione, la Corte di Cassazione, passa ad esaminare le conseguenze sul diritto alla provvigione della società ricorrente.
La Corte, discostandosi dal proprio precedente orientamento, afferma che dal patto di opzione non sorgono vincoli giuridici che diano diritto a ciascuna delle parti di agire per l’adempimento del patto o, in difetto, per il risarcimento del danno, requisito individualizzante per giurisprudenza costante la nozione di “conclusione dell’affare” ex art. 1755 c.c.
Secondo la Cassazione, infatti, la struttura del contratto di opzione, la cui funzione è quella di mantenere ferma l’irrevocabilità della proposta per un certo tempo, non è idonea a realizzare l’interesse economico cui tendono le parti.
La Suprema Corte giunge quindi ad affermare il principio di diritto per cui: “la stipula di un contratto di opzione, nel quale vi sono due parti che convengono che una di esse resti vincolata dalla propria dichiarazione mentre l’altra resta libera di accettarla o meno, non fa sorgere un vincolo giuridico che abiliti ciascuna delle parti ad agire per la esecuzione specifica del negozio o per il risarcimento del danno, con la conseguenza che non matura il diritto del mediatore alla provvigione”.
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