Origine e caratteri del processo del lavoro

Redazione 01/05/04
di Avv. Lucia De Marco
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1) Alle origini del rito del lavoro: l’esperienza probivirale.
La storia della giustizia del lavoro in Italia inizia ufficialmente nel 1893, cioè nel periodo immediatamente a ridosso della prima rivoluzione industriale[1], con la legge sui probiviri del 15 giugno 1893, n.295 che consentiva l’istituzione dei collegi dei probiviri per l’industria[2].
Tali collegi dovevano assolvere, istituzionalmente, la funzione in precedenza svolta da collegi arbitrali episodicamente costituiti per la soluzione dei primi conflitti tra capitale e lavoro originati dalla rivoluzione industriale: i collegi dovevano mirare soprattutto alla composizione amichevole delle controversie di lavoro[3].
La composizione dei collegi era paritaria tra rappresentanti, eletti dalle rispettive categorie[4], degli industriali e degli operai, mentre il Presidente, uno effettivo ed uno supplente, era nominato con decreto reale su proposta del Ministro dell’agricoltura, industria e commercio, e scelto “fra i funzionari dell’ordine giudiziario[5] e fra coloro che possono… essere nominati conciliatori” (art.3).
L’istituzione dei probiviri non era obbligatoria per tutto il territorio nazionale e per tutte le specie d’industria ma era disposta, a seguito di un complesso procedimento, per decreto reale che doveva determinare “l’industria o le industrie per le quali si istituisce il collegio, la sua sede, la sua circoscrizione e il numero dei componenti” (art.2)[6].
Ciascun collegio si articolava in un Ufficio di conciliazione per il componimento amichevole delle controversie, ed in una Giuria[7]. La assistenza o rappresentanza di un difensore tecnico era implicitamente esclusa (art.32)[8] e la gratuità del giudizio era assicurata dalla esenzione di qualsiasi “tassa di bollo e registro” (art.44). Ove il collegio dei probiviri non fosse stato istituito, o la controversia eccedesse i suoi limiti di competenza, restava ferma la giurisdizione del giudice ordinario.
Nonostante le intenzioni del legislatore, la funzione conciliativa dei probiviri si rivelò ben presto estremamente modesta, e decisamente più importante fu la funzione di risoluzione di controversie, nell’esplicare la quale ebbero modo “di supplire, attraverso la produzione giurisdizionale, alla mancanza di una disciplina legislativa del contratto di lavoro, che il codice civile si limitava a ricordare in un paio d’articoli ed in modo assai generico, in altre parole, la classe politica del tempo, appoggiata dalla prevalente dottrina giuridica, teorizzò il non intervento del legislatore in un settore che in quel momento non si sentiva in grado di codificare e scelse di affidare ai collegi dei probiviri il compito di rendere esplicito il diritto operaio che viveva negli accordi tra industriali e gruppi di lavoratori, nelle consuetudini, negli usi locali”[9].
I motivi per i quali il legislatore sottrae alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione di queste controversie sono diversi.
Innanzi tutto “la sfiducia della classe operaia nei giudici e nei giudizi borghesi”[10]; in secondo luogo la inadeguatezza del processo ordinario disciplinato dal c.p.c. del 1865 rispetto alle esigenze di tutela della classe operaia[11]; in particolare l’istituzione della giurisdizione speciale probivirale rispondeva soprattutto alla necessità di fare risolvere le controversie di lavoro da un giudice specializzato, cioè da un giudice dotato di cognizioni tecniche che fuoriuscivano alla comune esperienza del giudice togato ma indispensabili per la ricostruzione del fatto e/o del diritto[12].
Inoltre il giudice specializzato per risolvere la controversia poteva utilizzare sia per l’accertamento del fatto che del diritto mezzi di prova d’ufficio e massime di comune esperienza attinenti al rapporto di lavoro che erano sconosciute al giudice togato[13].
La maggiore rilevanza che, nelle controversie di lavoro, acquistava il fatto da cui si doveva dedurre la regola di giudizio richiedeva un processo caratterizzato dalla attribuzione al giudice di ampi poteri d’ufficio quanto alla acquisizione dei mezzi di prova al giudizio, e modellato sulle esigenze della oralità, cioè della concentrazione ed immediatezza, essendo indispensabile che il giudice, il quale raccoglieva le prove, fosse lo stesso giudice che doveva in tempi brevi decidere la controversia[14].
Alla luce di tutto ciò si può cogliere la funzione dei rappresentanti degli industriali e degli operai nei collegi probivirali: essi assolvevano una funzione di mediazione tecnica diretta a mettere il presidente del collegio in condizioni di individuare i fatti da accertare, di ricostruirli e di dedurre regole di giudizio.
E’ impossibile fare una valutazione complessiva dell’esperienza probivirale in materia di controversie individuali: tuttavia, pur con le sue ambiguità, costituisce una tappa fondamentale della giustizia del lavoro in Italia, non solo per il suo carattere di primogenitura, ma anche perchè in essa troviamo già presenti quasi tutti gli elementi che costituiranno i “passaggi obbligati” della giustizia del lavoro fino alla legge del 1973[15].
Segue. L’avvento del fascismo.
L’esperienza probivirale era destinata ad essere troncata bruscamente con l’avvento del fascismo[16].
Preparata dal patto di palazzo Vidoni[17], con cui la Confederazione generale dell’industria riconosceva ai sindacati fascisti “la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici” e venivano abolite le commissioni interne di fabbrica, la dittatura fascista, con la L.3-4-1926, n.563 sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro, portava formalmente a compimento il suo disegno antioperaio.
La lettura di questa legge è estremamente semplice anche perchè lineare è il disegno politico che ne è alla base.
Con essa da un lato veniva vietato e penalmente punito lo sciopero e la serrata (artt.18 ss.), dall’altro veniva istituito un nuovo organo giudiziario, la Magistratura del lavoro[18] cui era attribuita la competenza a conoscere, in unico grado di merito, le controversie collettive di lavoro, sia giuridiche sia economiche. Nello stesso tempo si affermava che talune associazioni sindacali che presentassero determinate caratteristiche[19], in pratica le sole associazioni sindacali fasciste, potessero ottenere la personalità giuridica a seguito di decreto reale, “su proposta del ministro competente di concerto col ministro dell’interno”.
Premesso che non poteva essere riconosciuta legalmente, per ciascuna categoria di datori di lavoro o lavoratori, che una sola associazione[20], il riconoscimento giuridico, come contropartita dei pesanti controlli statuali sull’organizzazione sindacale, attribuiva alla associazione: la rappresentanza legale della categoria, sia iscritti che non iscritti alla associazione (art.5); la legittimazione esclusiva a stipulare contratti collettivi con efficacia vincolante erga omnes, cioè anche nei confronti dei lavoratori o datori di lavoro non iscritti (art.10); la legittimazione esclusiva, sia ad agire che a contraddire in ordine alle controversie collettive di competenza della magistratura del lavoro (art.17; l’art.68 del regol. estenderà tale legittimazione al pubblico ministero)[21].
La legge n.563 del 1926 nulla innovava “circa la competenza dei collegi dei probiviri e delle Commissioni arbitrali provinciali per l’impiego privato” (art.13, 4°comma), limitandosi solo a disporre che “l’appello contro le decisioni di tali collegi e Commissioni… è devoluto alla Corte d’Appello funzionante come Magistratura del lavoro” (art.13, 5° comma ).
Con la dichiarazione X della Carta del lavoro (approvata dal Gran Consiglio fascista il 21-4- 1927 e pubblicata sulla Gazz.Uff., del 30-4-1927) si affermava invece che la competenza per “le controversie individuali concernenti l’interpretazione e l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro” era “devoluta alla magistratura ordinaria con l’aggiunta di assessori designati dalle associazioni professionali interessate”.
Con questa dichiarazione[22] era praticamente decretata la fine della esperienza probivirale e delle giurisdizioni speciali in materia di lavoro[23].
Con il R.D. 26-2-1928, n.471 relativo alla decisione delle controversie individuali di lavoro[24] venivano soppressi i collegi dei probiviri e le commissioni per l’impiego privato, e la giurisdizione sulle relative controversie veniva devoluta ai pretori e ai Tribunali nei limiti della rispettiva competenza per valore; nello stesso tempo le leggi del 1928 e del 1934 assoggettavano queste controversie ad un tipo di procedimento[25] notevolmente diverso dal procedimento ordinario di cognizione del c.p.c. del 1865.
Il procedimento era disciplinato in modo da potersi svolgere in tempi rapidi, e l’unico vero grosso ostacolo alla concentrazione e alla immediatezza lo si aveva nei giudizi innanzi al Tribunale a causa della natura collegiale di tale organo, natura collegiale che faceva sorgere la necessità di una serie di collegamenti tra il presidente innanzi al quale si svolgeva la prima udienza di comparizione o il giudice delegato per l’istruzione da un lato e il collegio presso il quale doveva svolgersi la discussione e la decisione della controversia dall’altro lato.
Le leggi del 1928 e del 1934, accogliendo taluni dei risultati teorici della scuola processualistica italiana, suscitarono un grande interesse nel mondo degli studiosi del processo civile; così che quando nella seconda metà degli anni ‘30 cominciò a porsi in termini concreti il problema della riforma del c.p.c., esse furono considerate il prototipo e modello da estendere al processo ordinario di cognizione in genere, e molte delle soluzioni tecniche adoperate dai legislatori del 1928 e 1934 furono poi di fatto trasfuse nel c.p.c. del 1942.
Tuttavia, anche se è indiscutibile che le leggi del 1928 e 1934 pur con le loro manchevolezze[26] costituirono dal punto di vista tecnico un grosso salto qualitativo nella nostra legislazione processualcivilistica, è pur vero che sul piano della tutela del lavoratore esse costituirono un notevole regresso rispetto al tipo di giustizia che la legge del 1893 aveva la potenzialità di offrire, instaurando principalmente un diaframma fra giudice e realtà di fabbrica che solo l’emanazione dell’art.28 dello statuto dei lavoratori (L.20 maggio 1970, n.300) avrebbe cominciato ad erodere.
Con l’emanazione del c.p.c. del 1942 si ha l’inserzione nell’ultimo titolo del secondo libro della disciplina delle controversie individuali di lavoro e di assistenza e previdenza obbligatorie, oltre che della disciplina delle controversie collettive di lavoro.
Il c.p.c. potè riassorbire nel suo alveo il procedimento del lavoro, in quanto eliminò anche quegli ultimi residui[27] relativi alla specialità del giudice che erano rimasti presenti nelle leggi del 1928 e 1934.
Aboliti gli esperti la differenza tra le controversie del lavoro e la cause cosiddette ordinarie si ridusse nel c.p.c. del 1942 a una mera diversità di procedimento, o di rito[28].
Mentre il sistema probivirale e quello delle leggi del 1928 e del 1934 avevano delineato un tipo di processo molto diverso da quello ordinario e decisamente più rapido, la riforma del 1942 ha legato le sorti del processo del lavoro a quelle del processo ordinario di cognizione; almeno fino al 1973[29].
2) Fonti normative.
Le fonti del processo del lavoro sono essenzialmente tre: la l.15 luglio 1966 n.604 (in G.U. 6 agosto 1966, n.195) che subordinando la validità dei licenziamenti alla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, devolveva al pretore (oggi tribunale in funzione di giudice del lavoro) la competenza a conoscere le relative controversie; la l.20 maggio 1970, n.300 (in G.U. 27 maggio 1970, n.131) contenente “norme sulla tutela e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” detto Statuto dei lavoratori[30]; la l.11 agosto 1973, n.533 (in G.U. 13 settembre 1973, n.237) sulla disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria[31].
3) Caratteri peculiari del processo del lavoro.
Il procedimento disciplinato dalla legge n.533 del 1973 è un procedimento a cognizione piena, cioè un processo caratterizzato dalla realizzazione piena del principio del contraddittorio in forma anticipata, per cui il provvedimento del giudice è emanato solo dopo che entrambe le parti sono state messe in grado di far valere tutte le loro difese[32]; e dalla realizzazione del principio del contraddittorio secondo modalità in gran parte determinate dalla legge e non rimesse mai integralmente alla discrezionalità del giudice.
E’ tuttavia speciale, in quanto differenziato rispetto al cd. rito ordinario[33]; non è caratterizzato dalla specialità del giudice ma è introdotto per plasmare la strumento del processo sulle particolarità dei rapporti litigiosi che consistono soprattutto nella esigenza di accellerazione del processo[34] .
La riduzione dei tempi del giudizio è conseguita attraverso una serie di caratteristiche che investono l’intero svolgimento del processo ma che possono tutte ricondursi ad un impiego particolarmente incisivo della tecnica delle preclusioni e delle iniziative istruttorie del giudice, nell’ambito dei classici orientamenti chiovendiani dell’Oralità, Concentrazione ed Immediatezza[35].
Dunque, il modello processuale emergente dalla l.n.533 del 1973 è un processo caratterizzato da un elevatissimo grado di concentrazione: infatti il processo potrebbe esaurirsi nella stessa udienza di discussione, l’assunzione delle prove deve essere esaurita in una sola udienza o, in caso di necessità, in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successivi; le udienze di mero rinvio sono vietate; gli unici rinvii ammessi sono quelli dettati dalla esigenza del rispetto del diritto di difesa o dalla impossibilità materiale di assumere o completare l’assunzione delle prove nella stessa udienza; la sentenza con cui si definisce il giudizio è emanata nella stessa udienza nel cui corso sono state assunte (se necessario) le prove, subito dopo la discussione orale (artt.429 1° comma e 420 5° comma).
Il rito è inoltre caratterizzato dall’immediatezza: il giudizio di primo grado è attribuito alla competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro, cioè di un giudice monocratico, e l’udienza di discussione in appello avviene alla presenza del collegio; nel giudizio di primo grado la comparizione personale delle parti da facoltativa diviene obbligatoria; il giudice, se ne ravvisa l’utilità, può disporre l’esame dei testimoni sul luogo di lavoro (in occasione dell’accesso, ecc.)[36].
Sul piano dei principi in nuovo rito speciale del lavoro pur lasciando inalterato il principio della domanda, sottrae completamente la disciplina dello strumento processo alla disponibilità delle parti.
A tal fine il nuovo rito del lavoro: 1) in primo luogo reintroduce il principio della preclusione, disciplinando accuratamente la fase preparatoria della prima udienza, imponendo alle parti, a pena di decadenza di specificare sin dagli atti introduttivi del giudizio l’oggetto della domanda e/o delle eccezioni unitamente alla specifica indicazione dei mezzi di prova di cui ci si intende avvalere; 2) in secondo luogo sottrae alle parti qualsiasi potere di determinare i ritmi e i tempi del processo (art.420, u.c., art.429, 2° comma); 3) in terzo luogo potenzia i poteri del giudice sia per quanto riguarda l’acquisizione delle prove al giudizio (art.421) sia per quanto riguarda il numero delle prove acquisibili e valutabili nel processo (art.421, 2° e 4° comma)[37].
Dunque il processo cessa di essere considerato un affare privato delle parti, le quali conservano solo il loro potere monopolistico in ordine alla sua introduzione e alla determinazione dell’oggetto del processo e dei fatti costitutivi, impeditivi ed estintivi.
Segue. Considerazioni conclusive.
Compiere una valutazione complessiva di questa legge di riforma nella prospettiva della storia della giustizia del lavoro in Italia vuol dire innanzi tutto riconoscere che la l.533/73 costituisce il primo grosso intervento con cui il legislatore ha iniziato il processo riformatore del sistema di tutela giurisdizionale civile in attuazione dei profondi mutamenti operati a livello normativo dalla Costituzione repubblicana del 1948[38].
In particolare è da mettere in evidenza che con la riforma del 1973 del processo del lavoro il legislatore non ha voluto solo disciplinare un processo rapido, ispirato ai classici principi della concentrazione, immediatezza ed oralità, ma ha mirato soprattutto ad attuare sul piano tecnico procedurale quell’aspirazione all’eguaglianza sostanziale affermata dall’art.3 cpv. della Costituzione e che può, e quindi deve, essere realizzata anche nell’ambito del processo: “la novità di questa legge è data dalla consapevolezza che le controversie del lavoro sono normalmente caratterizzate dalla diseguaglianza economica e sociale della parti, che si riflette sullo svolgimento del processo, nel senso che la parte economicamente e socialmente più debole (la quale normalmente sarà il lavoratore), in quanto dotata di minori capacità di resistenza e di attesa, subisce dalla lunghezza del processo danni gravissimi, spesso irreparabili (giacchè il diritto ad una esistenza libera e dignitosa non è bene riparabile per equivalente), e comunque maggiori della parte economicamente e socialmente più forte (la quale normalmente sarà il datore di lavoro) che, invece, è di regola avvantaggiata della durata del processo”[39].
Dunque, la riforma del 1973, di conseguenza alla percezione di come la situazione di diseguaglianza economica si riflette nel processo, introduce dei meccanismi diretti a disincentivare l’interesse delle parte economicamente e socialmente più forte alla durata del processo[40].
Considerata sotto questo aspetto la riforma del processo del lavoro rappresenta un grosso salto qualitativo nella storia della giustizia del lavoro in Italia; è doveroso però sottolineare che questa riforma non è un punto d’arrivo ma solo un momento di un processo “riformatore” complessivo della giustizia del lavoro[41].
Il limite maggiore che presenta la riforma del 1973 è dato dal fatto che il nuovo processo del lavoro è riuscito a fornire una tutela giurisdizionale adeguata unicamente a quella situazione di vantaggio del lavoratore a contenuto e funzione prevalentemente patrimoniale, che possono essere tutelate adeguatamente attraverso una tecnica di tutela che intervenga dopo che la violazione è stata già preparata; non si presta, invece, a fornire una tutela giurisdizionale adeguata a tutte quelle situazioni soggettive del lavoratore a contenuto e/o funzione prevalentemente o esclusivamente non patrimoniale, quali sono tutte o quasi quelle situazioni soggettive previste dai primi tre titoli della legge n.300/70, che, considerata la loro natura, necessitano di forme di tutela urgente che prevengano o intervengano nell’immediatezza della violazione impedendone immediatamente la continuazione.
Per colmare questa lacuna si è continuato ad utilizzare il procedimento ex art.28 L.300/70 e in molte ipotesi in cui questo procedimento non è applicabile, si continua a fare ricorso a quella forma atipica e insufficiente di tutela cautelare dei provvedimenti d’urgenza ex art.700[42].
Dunque, la tutela giurisdizionale dei diritti dei lavoratori risulta compressa in quanto finiscono con il poter essere adeguatamente tutelati solo i profili implicati nel rapporto di lavoro, restando esclusi tutti quei profili attinenti allo sviluppo della dignità e della personalità del lavoratore solennemente affermati negli artt.1-2 e 3, 2° comma della Costituzione ed in molte norme dei primi tre titoli dello Statuto dei diritti dei lavoratori[43].
A questo punto è opportuno svolgere considerazioni sull’esperienza applicativa della riforma del 1973.
Un complesso di fattori[44] hanno fatto sì che la riforma si sia realizzata a livello nazionale a “pelle di leopardo”[45]: mentre in alcuni uffici giudiziari, normalmente quelli di medie dimensioni e quelli del centro-nord industriale, essa ha avuto notevole e talora pieno successo, in altri, specie quelli grandi del centro-sud, con l’eccezione però di Napoli, essa stenta ad avviarsi o incontra pericolosi fenomeni di resistenza[46].
Inoltre la presenza del sindacato è stato spesso deludente: raramente il giudice ha disposto l’accesso sul posto di lavoro o la richiesta di pareri e informazioni alle organizzazione sindacale; non si condanna alle spese il lavoratore ricorrente rimasto soccombente; ed infine, le controversie previdenziali intasano gli uffici giudiziari.
Complessivamente positiva è stata, invece, la capacità degli avvocati ad abituarsi alle innovazioni del nuovo rito ed a riconvertire su di esso l’organizzazione degli studi professionali[47]; così come le sperimentazioni del giudice monocratico di primo grado ha raccolto consensi unanimi[48] nonostante la provvisoria esecutorietà ope legis della sentenza di primo grado favorevole al lavoratore.
4) Iter processuale: brevi cenni.
L’art.409 delimita l’ambito di applicazione della disciplina delle controversie individuali di lavoro introdotta con la L.533/73.
Ex art.413 è competente per materia per tutte le controversie di primo grado il tribunale in funzione di giudice del lavoro; competente in secondo grado è la Corte d’appello.
E’ competente per territorio il giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto di lavoro, ovvero si trova l’azienda o la sua dipendenza presso cui è o era addetto il lavoratore[49].
Oltre che occuparsi della composizione giudiziale delle controversie di lavoro, la L.533/73 ha predisposto vari mezzi per risolvere “stragiudizialmente” (in pratica, cioè, “bonariamente”) le controversie stesse, predisponendo all’uopo sistemi e mezzi che, finora, si sono dimostrati sufficientemente idonei. Tali mezzi, che mirano proprio ad escludere la necessità del ricorso all’autorità giudiziaria, sono: a) la conciliazione presso le Commissioni provinciali[50]; b) la conciliazione in sede sindacale[51].
L’art.5 della L.108/90 (Disciplina dei licenziamenti individuali) prevede l’obbligatorietà del previo tentativo di conciliazione anche per i processi relativi a licenziamenti illegittimi di lavoratori in forza ai datori di lavoro che occupino fino a 15 dipendenti.
Il processo si svolge oralmente. Per quanto concerne l’introduzione della causa, va rilevato che, anziché con la normale citazione ad udienza fissa richiesta per il giudizio ordinario, tutte le controversie in materia di lavoro si iniziano con ricorso, ossia con un atto che si presenta prima al giudice e poi viene notificato alla parte[52]. Il ricorso va depositato in Cancelleria; viene fissata, con decreto, la comparizione delle parti. Ricorso e decreto vanno notificati al convenuto almeno 30 giorni prima dell’udienza a pene di improcedibilità.
Il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza[53]; se avanza domanda riconvenzionale, deve chiedere la fissazione di una nuova udienza[54].
Per il sistema di preclusioni e decadenze di cui agli artt.414-416 c.p.c. non sono in genere consentite modifiche e integrazioni delle difese.
L’udienza di discussione fissata dal giudice costituisce il fulcro di tutto il procedimento; essa serve a creare il primo contatto fra le parti e a consentire al giudice l’interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione[55].
A questo scopo è espressamente stabilito l’obbligo di comparizione personale delle parti, e dalla cui mancanza il giudice può trarre valutazioni ai fini della decisione. Se, invece, le parti sono presenti nell’udienza fissata per la decisione della causa, il giudice le interroga liberamente sui fatti della causa e tenta la conciliazione della lite.
La causa può esaurirsi nell’udienza di discussione, ma può anche essere rinviata[56].
Nel rito del lavoro, il giudice, dispone di poteri istruttori d’ufficio molto più ampi di quelli normali; conseguenza questa, come abbiamo già ampiamente messo in evidenza in precedenza, dei classici orientamenti chiovendiani dell’oralità, immediatezza, concentrazione.
Anche nel processo del lavoro possono aversi tre tipi di intervento per i quali però valgono regole particolari, relativamente ai termini:
a) l’intervento volontario, ex art.419, deve avere luogo non oltre 10 giorni prima dell’udienza, depositando una memoria o un ricorso;
b) per l’intervento su istanza di parte o su ordine del giudice, ex art.420 comma 9, invece, il giudice fissa una nuova udienza e dispone che, entro 5 giorni siano notificati al terzo il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l’atto di costituzione del convenuto.
Raccolte, le prove, il Giudice invita le parti alla discussione orale, al termine della quale ciascuna precisa le proprie conclusioni.
Nella stessa udienza il Tribunale in funzione di giudice del lavoro pronuncia la sentenza, dando lettura del dispositivo[57]; questa deve essere depositata in cancelleria entro 15 giorni dalla pronuncia. Il cancelliere ne dà, quindi, immediata comunicazione alle parti.
Il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna, del datore di lavoro, al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro deve anche determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il danno che è derivato al lavoratore dalla svalutazione monetaria, condannando il datore al pagamento della relativa somma con decorrenza dalla data di maturazione del diritto.
L’art.431 c.p.c. stabilisce il principio della esecutorietà della sentenza. Le sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti derivanti da rapporti di lavoro, e, dopo la riforma attuata con la legge n.353 del 1990, anche le sentenze che pronunciano condanna a favore del datore di lavoro, sono immediatamente, le seconde “provvisoriamente”, esecutive.
All’esecuzione si può procedere con la sola copia del dispositivo, durante la pendenza del termine per il deposito della sentenza: ciò è previsto solo per le sentenze di condanna a favore del lavoratore[58].
La legge n.533/73 detta un’apposita disciplina soltanto per l’appello[59]. I caratteri di immediatezza, concentrazione ed oralità permangono in appello, dove tutte le attività processuali si devono svolgere davanti al collegio: ciò in quanto si vuole impedire che il giudizio di secondo grado porti ad un rifacimento totale del processo già celebrato.
Nel caso in cui l’esecuzione inizi prima della notificazione della sentenza, può proporsi “appello con riserva dei motivi”, che dovranno essere presentati nei termini di cui all’art.434.
Nell’udienza il giudice incaricato fa la relazione orale della causa. il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza.
In questa fase non sono ammesse nuove domande[60] ed eccezioni[61] e sono ammessi quei soli mezzi di prova nuovi[62] che siano ritenuti anche d’ufficio indispensabili ai fini della decisione, salva sempre la possibilità per le parti di deferire il giuramento decisorio e per il giudice di disporre il giuramento estimatorio.
La sentenza deve essere depositata entro il termine di 15 giorni dalla pronuncia (art.438).
Per quanto riguarda gli altri mezzi di impugnazione, si applica la disciplina ordinaria, nei limiti in cui essa è compatibile con il rito speciale.
Note:
[1] Si veda per tutti Merli, Proletario di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1800-1900, Firenze, 1972, p.1ss..
[2] Anteriormente a questa legge le controversie individuali di lavoro non formavano oggetto di regole speciali né di competenza né di rito.
[3] Collura, Contributo allo studio dell’arbitrato libero in Italia, Milano, 1978, 131 ss., 152 ss..
[4] A seguito del d.l. 13 ottobre 1918, n.1672 questi membri saranno nominati dal Presidente del Tribunale scegliendoli tra quelli designati dalle associazioni industriali ed operaie.
[5] Il Presidente in effetti era l’unico esperto di diritto in quanto scelto tra “i funzionari dell’ordine giudiziario”, il resto dei componenti dell’organo erano persone “digiune di studi giuridici” che tuttavia, come rileva ampiamente Calamandrei in Il significato costituzionale della giurisdizione di equità “concorrono a quella coscienza comune che qui si utilizza direttamente come fonte di diritto”, Studi sul processo civile, Padova, vol.II, 1930-47, 38 pag..
[6] Nell’art.2 è da ravvisare una delle manchevolezze maggiori dell’istituto probivirale: Montaleone in Una magistratura del lavoro: i collegi dei probiviri nell’industria pone in rilievo come la legge si applicasse alle sole imprese manifatturiere, escludendo quelle commerciali e agricole, i trasporti e le ferrovie, gli stabilimenti, i cantieri e gli arsenali gestiti dallo Stato, Studi storici, 1978, 2, pag.108 ss..
[7] In particolare. presso l’ufficio di conciliazione (composto da un operaio, un industriale e dal presidente) doveva svolgersi il tentativo obbligatorio di conciliazione per tutte le controversie, anche se eccedenti la competenza per valore dei probiviri o comunque di competenza del giudice ordinario (art.10); il verbale di conciliazione aveva efficacia di titolo esecutivo o di scrittura privata riconosciuta in giudizio a seconda che la controversia rientrasse o no nella competenza dei probiviri (art.41); la giuria (composta da due industriali, due operai e dal presidente), invece, fallito il tentativo di conciliazione, era competente a risolvere tutte le controversie giuridiche (non economiche, non relative cioè a salari o ad ore di lavoro da pattuirsi) fra operai ed industriali (artt.8,9) il cui valore non eccedesse le duecento lire (limite questo elevato a mille lire con la legge 20 marzo 1921, n.303). Le decisioni della giuria erano sempre immediatamente esecutive (art.41) e potevano essere appellate solo per incompetenza (rectius: incompetenza per valore) o per eccesso di potere (rectius: incompetenza per materia ovvero difetto di giurisdizione) innanzi al giudice ordinario (art.11).
[8] Si veda esplicitamente in tal senso il 6° comma dell’art.13 T.U. 31 gennaio 1904, n.51 (legge sugli infortuni industriali): osserva criticamente al riguardo Chiovenda che disposizioni di tale genere sono fondate “sulla supposizione (che una esperienza di secoli dovrebbe ormai aver dimostrato essere un’illusione), che la parte possa davvero difendersi da sè, tanto più poi quando essa è incolta e inesperta”, avendo però cura di aggiungere: “e il giudice è così povero di poteri e d’iniziativa e il processo così lontano dalla vita come il nostro”, Principi di Diritto processuale civile, terza edizione, Napoli 1923, pag.1324.
[9] Così Borghesi, Contratto collettivo e processo, Bologna, 1980, 15; ma si veda già il classico saggio, del 1906, di Redenti, Sulla funzioni delle magistrature industriali, ora in Scritti e discorsi giuridici di mezzo secolo, II, Milano, 1962, 577ss., e quello, del 1920, di Calamandrei, Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità, ora in Opere giuridiche, III, Napoli, 1968, 3ss..
[10] Così espressamente Chiovenda, Le riforme processuali e le correnti del pensiero moderno (1907), Saggi di diritto processuale civile, vol.I, Roma, 1930, pag.389.
[11] Osservava Chiovenda: “La necessità di dettare norme particolari per giudizi che interessano persone umili e normalmente incolte (…) in lotta contro avversari potenti (…), per la definizione di questioni richiedenti una pronta liquidazione, doveva naturalmente essere smentita in un paese come il nostro, in cui il processo ordinario è così inadeguato a questo genere di conflitti. Le particolarità riguardano specialmente la conformazione del giudice, l’ordinamento della difesa e il procedimento”, Principi di diritto processuale civile, terza edizione, Napoli 1923, pag.1323. Ancora più lucidamente nel 1906 Redenti osservava: “in verità alle controversie in materia di contratto di lavoro, controversie di limitato valore, in cui una e una sola delle parti è normalmente ignorante e senza mezzi, è effettivamente inadeguato il processo civile ordinario, così favorevole alla parte più facoltosa, lento, fatalmente aperto alle interminabili questioni de jure apicibus, appesantito ancor più dal sistema dei gravami, incomprensibile e pertanto ripugnante, per cui soltanto tali controversie hanno, di solito, una urgente importanza. La prova dei fatti e la dimostrazione del diritto riescono in questa sede irraggiungibili per essa (che, di solito, perché oppressa, è attrice), per ciò che il contratto di lavoro è sempre sprovvisto di prove precostituite, spesso di qualsiasi prova ed è di solito rudimentale e non trova nel diritto scritto alcun regolamento speciale; mentre il giudice togato d’altra parte è di solito digiuno di ogni nozione tecnica e di ogni conoscenza dell’ambiente”, Sulla funzione delle magistrature industriali, pag.618.
[12] Per le controversie individuali di lavoro la necessità di un giudice specializzato derivava dalla circostanza che il criterio di giudizio non era cristallizzato in norme di diritto scritto ma dovevano prevalentemente dedursi da accertamenti e conoscenze di fatto rispetto ai quali la comune esperienza del giudice togato era inadeguata.
[13] Il giudice togato, invece, applicando la regola dell’onere della prova avrebbe dovuto rigettare a domanda.
[14] Come rilevava Chiovenda: “la legge ha cercato di ottenere un processo veramente orale”. Il procedimento è tutto ispirato ad esigenze di concentrazione (art.58 regolamento: “Le parti non sono ammesse a chiedere rinvii”. In casi eccezionali può ordinare un solo rinvio a breve termine utilizzando l’intervallo per esaurire le indagini che ha ritenuto necessarie) e di immediatezza (la comparizione personale delle parti è obbligatoria: artt.32,38); il giudice è dotato di ampi poteri d’ufficio non solo per quanto riguarda la direzione formale del processo, ma anche per la acquisizione di mezzi di prova al giudizio (art.38); la sentenza di primo grado è sempre immediatamente esecutiva (art:41).
[15] Con gli artt.13 e ss. del T.U. 31 gennaio 1904, n.51, la competenza delle giurie dei probiviri fu estesa alle controversie relative ad infortuni sul lavoro industriale. Sulla falsariga della legge del 1893 con D.L. 1 maggio 1916, n.420 furono istituite le Commissioni arbitrali per l’impiego privato, mentre con il D.L. 23 agosto 1917, n.1450 furono istituite le Commissioni compartimentali arbitrali per gli infortuni sul lavoro in agricoltura. Meritano di essere ricordate anche le Commissioni di conciliazione per il lavoro nelle risaie, istituite con T.U. 1 agosto 1907 n.636, e le Commissioni inter-provinciali (D.L. 19 ottobre 1923 n.2311) per la decisione delle controversie sull’equo trattamento insorgenti tra personale ed aziende esercenti pubblici servizi di trasporto in concessione.
[16] Dopo un primissimo periodo di incertezza questa politica, a seguito dell’avvento della fase apertamente dittatoriale inaugurata dal discorso del 3-1-1925 con cui si chiudeva la crisi aperta dal delitto Matteotti, si fa estremamente lineare. Suo principale artefice ne è Alfredo Rocco, giurista dotato di grandi capacità tecniche e fondamentalmente di piena consapevolezza politica.
[17] Si veda per tutti Aquaroni, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965, p.121 ss. (e in appendice a p.439 il teso del patto).
[18] Sezione speciale della Corte d’appello, composta di tre magistrati a cui erano aggregati due cittadini esperti nei problemi della produzione e del lavoro nominati di volta in volta per ciascuna singola controversia dal presidente tra gli iscritti in un apposito albo: requisiti essenziali per l’iscrizione erano oltre alla cittadinanza italiana e all’età, “una condotta morale e politica specchiatissima ed illibata” nonchè “la laurea universitaria o altro titolo di studio equipollente”: art.64 regol. 1°-VII-1926, n.1130).
[19] I cui dirigenti “diano garanzia di capacità, di moralità e di sicura fede nazionale”: art.1 n.3; che perseguissero “effettivamente scopi di assistenza, di istruzione e di educazione morale e nazionale” dei loro soci: art.1 n.2; quanto alla rappresentatività, ci si accontentava invece di molto poco ritenendosi sufficienti che “i lavoratori iscrittivi rappresentino almeno il decimo dei lavoratori della categoria per cui l’associazione è costituita”: art.1 n.1.
[20] Di fatto solo il sindacato fascista.
[21] Ove si consideri tutto questo, appare evidente come l’instaurazione della magistratura del lavoro assolvesse la funzione della classica “foglia di fico” con cui Alfredo Rocco voleva coprire a livello sistematico una legislazione violentemente antioperaia: il disegno della legge era, infatti, dare il colpo finale al movimento operaio privandolo del diritto di sciopero ed esautorando anche formalmente le associazioni sindacali non fasciste; per realizzare questo obiettivo il regime offriva in contropartita l’instaurazione di un organo imparziale, la Magistratura del lavoro, per la risoluzione delle controversie collettive. Ed infatti se si vanno ad esaminare le statistiche ci si accorge che nel decennio tra il 1926 e il 1936 si constata che si ebbero solo 41 controversie collettive deferite alla Magistratura del lavoro, di cui 16 definite con sentenza, 22 conciliate e 3 abbandonate. Le cifre sono così evidenti che non necessitano di alcun commento.
Come sottolinea giustamente Taruffo attraverso il riconoscimento giuridico dei sindacati, l’efficacia erga omnes del contratto collettivo, il divieto dell’autotutela collettiva, tale legge mirava a “fare del giudice, ossia dello Stato, l’arbitro dei conflitti di classe”, in La giustizia civile in Italia dal ‘700 a oggi, Bologna, 1980, 219ss.; ed “anche nella scelta dell’organo giudicante cui affidare la risoluzione delle controversie collettive non è difficile cogliere l’intenzione di riportare i conflitti tra capitale e lavoro nell’orbita della giurisdizione statuale”, Borghesi, Contratto collettivo e processo, Bologna, 1980, 38 ss..
[22] La dichiarazione era di valore più politico che giuridico in senso stretto. Sul valore giuridico della Carta del lavoro si veda Corrado, voce Carta del lavoro, Novissimo Digesto Italiano, vol.II, 1958, pag.967 ss., nonchè, i rilievi di Preti, La regolamentazione delle controversie “individuali” di lavoro in regime fascista, Studi storici, 1977, 2 p.150 ss..
[23] In questa operazione il regime fascista trovava spianata e agevolata la strada da parte dei processualisti. Si veda uno per tutti Piero Calamandrei che, già nel 1920, in un suo celebre saggio su “Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità”, riferendosi anche ai collegi probivirali, aveva concluso rilevando che “le giurisdizioni di equità ( e tale era a suo avviso la giurisdizione probivirale) sono il mezzo che il legislatore adopera per incanalare il diritto nuovo che preme, per utilizzarlo infiammato e plasmabile, come esso esce dalle viscere della società: venuto all’aria, il nuovo diritto prenderà senza costrizioni le sue forme, e a poco a poco tornerà a solidificarsi in legge; e le giurisdizioni di equità avranno così onorevolmente esaurito il loro ufficio, che, è quello di garantire la continuità dell’ordinamento giuiridico nei periodi in cui esso si rinnova, di permettere senza scosse le più audaci trasformazioni”, Opere giuridiche, Napoli, 1968, vol.V. p.3 ss., p.50. Il saggio, che costituisce il discorso inaugurale dell’anno accademico dell’Istituto di Scienze Sociali “Cesare Alfieri” di Firenze, letto il 21 novembre 1920, fu pubblicato originariamente in Arch. Giur., 1921, 224 ss..
[24] Successivamente fu sostituito con modifiche di lieve portata dal R.D. 21-5-1934 n.1073.
[25] Caratteristiche principali del procedimento: a) condizione di proponibilità della domanda innanzi al giudice ordinario era la preventiva denuncia dell’inadempimento all’Associazione sindacale legalmente riconosciuta della categoria cui apparteneva l’attore, allo scopo di consentire un preventivo tentativo di conciliazione; b) giudice competente a conoscere delle controversie erano il tribunale in funzione di giudice del lavoro o il Tribunale “assistiti da due cittadini esperti nei problemi del lavoro e l’altro a quella dei lavoratori, scelti fra gli iscritti ad appositi albi” (art.2 R.D. del 1928 e art:3 R.D. del 1934); gli esperti, quando erano presenti, comunque non partecipavano alla decisione della controversia, ma potevano solo esprimere, in camera di consiglio, il loro “parere” orale o scritto sulla decisione della causa;
c) era ammesso esplicitamente l’intervento delle associazioni sindacali legalmente riconosciute delle categorie alle quali appartenevano le parti, ove la controversia fosse fondata sull’inadempimento di un contratto collettivo o di norme equiparate; d) il procedimento era disciplinato da rigide preclusioni: era sottratto il dominio delle parti ed al giudice erano attribuiti ampi poteri di impulso processuale ed istruttori. Il processo iniziava con ricorso e il convenuto poteva notificare all’attore e depositare in cancelleria la sua comparsa di risposta insieme con i propri atti e documenti anteriormente alla prima udienza: in essa le parti potevano comparire personalmente e comunque da un lato il convenuto doveva prendere posizione precisa in ordine alla domanda attrice e sollevare a pena di decadenza tutte le eccezioni cosiddette di rito, dall’altro lato l’attore doveva a sua volta dichiarare se insisteva nella sua domanda o in tutto o in parte vi rinunziava e proporre a pena di decadenza sue eventuali eccezioni di rito; in tal modo si potevano determinare “i precisi termini della controversia” (art.9 R.D.del 1928, e art.12 R.D. del 1934, 4° comma), cioè il thema decidendum ed il thema probandum: questa determinazione aveva carattere preclusivo di ogni ulteriore richiesta di merito anche meramente istruttoria; e) determinati in tal modo i termini della controversia, il giudice poteva con qualche ragionevole possibilità di successo tentare di “indurre le parti ad un equo componimento” (art.10 R.D. 1928, art.13 R.D. 1934) e in caso di mancata conciliazione si procedeva diversamente a seconda che la causa necessitasse o meno ( e in questo caso due iter differenti a seconda che la causa fosse di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro o del Tribunale) di attività istruttoria ( si vedano artt. 10 2°comma, 11, 3° comma R.D. del 1928 e artt.13, 3° comma e 14, 3° comma R.D. del 1934 in caso d’immediata decisione della causa; art.11 R.D. del 1928 e art.14 R.D. del 1934 se la causa necessitava di attività istruttoria); f) i provvedimenti del giudice avevano la forma: 1) di sentenza (quando decidevano nel merito tutta o solo una parte della controversia; quando risolvendo una questione pregiudiziale di rito, definivano il giudizio nel senso che dichiaravano “di non potere decidere la controversia”; quando, risolvendo una questione pregiudiziale di merito o di rito, non ponevano termine all’intero giudizio: differente era il momento della loro appellabilità); 2) di ordinanza (quando provvedevano “interno al processo”, e in tal caso erano soltanto revocabili o modificabili da parte del giudice che le aveva emanate, mai impugnabili al giudice di grado superiore); g) mentre le decisioni dei probiviri erano sempre immediatamente esecutive ope legis, la disciplina introdotta al riguardo dai R.D. del 1928 e 1934 era molto più farraginosa e sostanzialmente meno favorevole per il lavoratore. In particolare: I) nessuna rilevanza era attribuita al fatto che il convenuto nella prima udienza non avesse contestato in tutto o in parte la domanda attrice: nelle controversie individuali di lavoro, infatti, a differenza di quanto disponevano le leggi del 1922 e del 1936 disciplinatrici del procedimento per ingiunzione, non si attribuiva alcuna idoneità ad agevolare la formazione di un titolo esecutivo giudiziale; II) la sentenza di primo grado normalmente era priva di efficacia esecutiva e solo ove ricorresse il requisito del “pericolo nel ritardo” il giudice poteva “disporre che la sentenza fosse provvisoriamente eseguita nonostante l’appello”; ove però si trattasse “di condanna al pagamento di una somma di denaro. l’esecuzione provvisoria era fatta mediante deposito vincolato presso un ufficio postale o di un istituto di credito” (art.18, 3°comma R.D. del 1934): a questo riguardo ci si rende immediatamente conto di quanto assurda e mistificante fosse questa norma; III) l’unica disposizione che offriva una certa tutela al lavoratore era quella che prevedeva la possibilità di “accordare una provvisionale” (cioè il pagamento immediato di una parte delle somme richieste dall’attore) con la sentenza definitiva o che in corso di causa dichiarasse l’esistenza del diritto; h) le sentenze di primo grado, da chiunque emanate, erano appellabili non innanzi al giudice di grado immediatamente superiore , ma sempre innanzi alla sezione della Corte d’Appello che funzionava come Magistatura del lavoro ai sensi della legge n.563 del 1926 relativamente alla risoluzione delle controversie collettive; l’appello disciplinato dalle leggi del 1928 e del 1934 era sottoposto alla disciplina generale prevista dal c.p.c., e cioè era un mezzo di impugnazione a motivi illimitati ( a carattere devolutivo diretto a provocare un novum iudicium più che una revisio prioris instantiae) e non più con motivi limitati alla giurisdizione e alla competenza.
[26] Il difetto più grave attiene comunque all’assenza di una disciplina specifica dell’esecuzione forzata, difetto che sarà solo molto che parzialmente superato unicamente tramite le misure coercitive tipiche previste dagli artt. 18 e 28 L. 20 maggio 1970, n.300.
[27] Cioè l’abolizione di quegli esperti che le leggi sulle controversie individuali del lavoro avevano chiamato ad affiancare i giudici togati.
[28] Caratteristiche del rito speciale del lavoro del ‘42 rispetto al rito ordinario erano: 1) il tentativo obbligatorio di conciliazione; 2) l’attribuzione al giudice di poteri istruttori d’ufficio; 3) l’ammissibilità di una rappresentanza processuale speciale da parte delle associazioni sindacali legalmente riconosciute; 4) il potere d’intervento delle associazioni sindacali legalmente riconosciute per la tutela degli interessi di categoria; 5) la competenza di secondo grado attribuita alla sezione della corte d’appello che funzionava come Magistratura del lavoro; 6) l’intervento obbligatorio del P.m. in appello.
[29] Crollato il regime fascista ed emanata la Costituzione repubblicana si è riproposta l’esigenza di una riforma della giustizia del lavoro; negli anni ‘50 e ‘60 il dibattito è stato condizionato da due elementi: 1) il divieto di istituzione di giudici speciali (art.102 Cost.); 2) la sfiducia che il movimento sindacale ha nutrito verso la giustizia statale .
[30] Le leggi 604/66 e 300/70 oltre a essere fonti del processo del lavoro hanno messo in evidenza problemi ed esigenza a cui la l.533/73 ha cercato di rispondere: la l.15 luglio 1966, n.604 devolvendo al tribunale in funzione di giudice del lavoro la competenza a conoscere le controversie relative all’illegittimità dei licenziamenti costringeva i giudici ordinari a calarsi nelle contraddizioni della realtà per accertare la sussistenza o meno in concreto della giusta causa o del giustificato motivo; inoltre con ciò si portavano innanzi al magistrato ordinario controversie individuali aventi una notevole rilevanza collettiva o superindividuale e delle quali pertanto i sindacati non potevano disinteressarsi; la legge 300/70, invece, dimostrò quanta importanza per la stessa lotta sindacale potesse avere una legislazione di sostegno diretta a garantire ai lavoratori ed alle organizzazioni sindacali uno spazio di libertà in fabbrica: in particolare l’art.28 dello statuto determinò un ripensamento dei sindacati circa le possibilità di utilizzare delle vie giudiziarie: questo articolo disciplinava uno speciale procedimento sommario, promuovibile su istanza degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, in ipotesi di comportamenti del datore di lavoro “diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonchè del diritto di sciopero”; ciò significava da un lato fare uscire dalla clandestinità giudiziale i cd. sindacati di fatto (cui esplicitamente si riconosceva la legitimatio ad causam), dall’altro attribuiva al giudice ordinario la competenza a conoscere tipiche controversie collettive senza con questo comprimere l’autotutela, il diritto di sciopero. Allo stesso tempo il carattere rapidissimo della fase sommaria di questo procedimento contribuì a debellare il convincimento che “per la natura delle cose” il processo dovesse aver tempi lunghissimi.
Dunque le due leggi sono ad un tempo fonti e in sintesi motivi della riforma del processo del lavoro (l.533/73 a sua volta fonte).
[31] Il coordinamento tra queste leggi non è sempre agevole: se tra le leggi 604/66 e 300/70 è assicurato dall’art.18 dello Statuto, per quello tra l.300/70 e l.533/73 si è resa necessaria l’emanazione di una legge ad hoc: la l.8 novembre 1977, n.847 contenente le “Norma di coordinamento tra l.11 agosto 1973, n.533, e la procedura di cui all’art.28 della l.20 maggio 1970 n.300”. Successivamente è intervenuta la L.9 dicembre 1977 n.903 che vietando ogni discriminazione fondata sul sesso per l’accesso al lavoro, prevede uno speciale procedimento per la repressione dei comportamenti diretti a violare tale divieto, che è strutturato sullo schema dell’art,28 St. coordinato con l.533/73.
[32] “Poiché il provvedimento de quo(quando fosse per essere emanato) o, meglio, i suoi effetti inciderebbero nel patrimonio di taluni soggetti e poichè è ovvia l’esigenza che costoro, in quanto siano per divenire destinatari dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale, partecipano all’iter di formazione del medesimo; per queste ragioni -cioè in quanto siano, in ipotesi, legittimati passivi rispetto al provvedimento richiesto- tali soggetti sono “contraddittori”, legittimati a “dire e contraddire” nel corso del procedimento: “legittimati al processo”, insomma. Proprio in virtù di tale partecipazione il procedimento è “processo”. Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, VIII ediz., Padova, 1996, 306 ss..
[33] Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, VIII ediz., Padova, 1996, 165 ss..A conferma di tutto ciò si consideri che il nuovo rito è stato disciplinato attraverso la tecnica c.d. “novellazione”, (Andrioli, Osservazioni introduttive, in AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, II ediz., Bologna-Roma, 1987, col.75; nello stesso senso Montesano-Vaccarella, Diritto processuale del lavoro, III ediz., Napoli, 1996, pag.7; Mandrioli, pag.433…); dunque è inserito nel sistema del processo civile ordinario di cognizione, e costituisce il processo ordinario in materia di lavoro, “speciale” rispetto a quello disciplinato dagli artt. 163 ss. c.p.c. soltanto per la doverosità delle forme, e non per la sommarietà della cognizione; quindi il rito del lavoro è soggetto non soltanto alle disposizioni generali di cui al libro I del cod., ma anche alla “integrazione” delle norme tacitamente richiamate che non sono in contrasto con il regime speciale del processo del lavoro: questa applicazione analogica, infatti, non sarà possibile ove disposizioni contenute negli artt. 163 ss. sono in contrasto con un processo che il legislatore ha voluto effettivamente ispirato alla concentrazione ed immediatezza, o che presuppongono l’assenza di preclusioni o la mancanza di poteri direttivi del giudice o sono riferite ad un processo il cui atto introduttivo abbia la forma dell’atto di citazione e non del ricorso: Solo ove questo tentativo si riveli infecondo si farà ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico. Si veda anche ampiamente, Proto Pisani, Problemi di coordinamento posti dal rito speciale del lavoro, in Riv. Giur. Lav, 1974, I, 385 ss..
[34] Secondo Ghezzi i postulati del nuovo processo del lavoro sono cinque: 1) immediata conoscenza da parte del giudice di tutti i termini della controversia; 2) concentrazione della trattazione; 3) oralità della trattazione; 4) immediatezza della decisione; 5) contenimento dei tempi del giudizio. si veda sul punto Ghezzi, Riflessioni sul processo del lavoro, Riv.Giur.Lav., 1986, I, p.241-242.
[35] Gli strumenti tecnici tipicamente più idonei a realizzare gli orientamenti dei principi chiovendiani sono: 1) l’abbandono, per l’introduzione del giudizio, del sistema della citazione a udienza fissa per il sistema del ricorso e successivo decreto di fissazione dell’udienza; 2) un sistema di preclusioni, analogo a quello del codice del 1940, con riguardo all’offerta dei mezzi di prova ed alla proponibilità delle eccezioni (artt.414, 416, 420, 437) ora in parte inserito anche nel processo ordinario; 3) l’attribuzione di più ampi poteri al giudice sia per la sanatoria di eventuali irregolarità e sia per iniziative istruttorie anche d’ufficio (art.421); 4) l’obbligatorietà (ora introdotta anche nel processo ordinario) dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione delle parti, le quali hanno l’onere di comparire all’udienza personalmente o a mezzo di procuratore adeguatamente informato sui fatti della causa (art.420), ciò che, tra l’altro, consente, anche in correlazione con la maggior concentrazione del processo, un più largo margine per trarre argomenti di prova dal comportamento delle parti (art.116, 2° comma c.p.c.); 5) l’assunzione delle prove nella stessa prima (e tendenzialmente unica) udienza o in un’udienza immediatamente successiva (art.420); 6) il potere (ora previsto anche nel giudizio ordinario) del giudice, in ogni stato del giudizio, di pronunciare (con ordinanza) la condanna al pagamento immediato delle somme non contestate o di cui il giudice ritenga acquisito l’accertamento (art.423); 7) la pronuncia della sentenza, definitiva della sentenza, definitiva o non definitiva, subito dopo la fine dell’udienza con immediata lettura del dispositivo, salvo differimento non superiore a 10 giorni (art.429), 8) l’esecutorietà (ora generalizzata) della sentenza di primo grado in quanto pronunci condanna a favore del lavoratore; 9) il ripristino del divieto di nuove eccezioni e di nuove prove in appello (art.437, 2° comma).
[36] La concentrazione e l’immediatezza costituiscono gli elementi semplici delle espressione riassuntiva: oralità. Il processo orale è caratterizzato dalla preminenza qualitativa della parola sullo scritto; la forma scritta non è essenziale per la validità delle dichiarazioni delle parti ma è solo facoltativa (rimane comunque necessaria per la domanda giudiziaria e per la risposta del convenuto). “Mentre il processo scritto si può tranquillamente svolgere a distanza dal giudice che dovrà pronunciare la sentenza, senza nemmeno incontrarlo, (…), nel processo orale questo distacco è per definizione inconcepibile (…); un processo si dirà dominato dal principio di oralità quando tutto ciò in cui esso consiste o che lo compone venga offerto e s’evolva al cospetto e con la partecipazione dell’organo stesso ordinato a rendere la decisione”. Vocino, voce oralità (Dir.Proc.Civ., Enc.del Dir., XXX, Milano, 1980, p.595.
[37] Una riforma processuale che voglia effettivamente realizzare un processo “rapido” deve, infatti, imporre alle parti l’obbligo di contribuire alla esatta determinazione del thema decidendum e del thema probandum entro un termine di tempo ben preciso e ragionevolmente predeterminato allo scopo di garantire la rapidità del procedimento. La legge di riforma del processo del lavoro per realizzare ciò ha reintrodotto termini di preclusione oltre i quali non è più possibile alle parti modificare la domanda o le eccezioni, sollevare nuove eccezioni, indicare nuovi mezzi di prova: svolgere cioè tutte quelle attività il cui esercizio tempestivo serve per la determinazione del thema decidendum e del thema probandum. Sul piano tecnico l’introduzione di un sistema di preclusione deve però essere tale da non impedire o rendere eccessivamente difficoltoso il diritto di difesa delle parti (sia del convenuto che dell’attore). A tale scopo occorre una disciplina particolarmente accurata: 1) della fase preparatoria della prima udienza, 2) della prima udienza a termine della quale, per il tramite della collaborazione del giudice con le parti, il thema decidendum ed il thema probandum dovrebbero essere definiti (e dovrebbe poter restare da determinare, entro un termine brevissimo, solo la articolazione della prova contraria in relazione ai mezzi di prova, nuovi, cioè diversi rispetto a quelli contenuti nelle scritture preparatorie, disposti nel corso dell’udienza d’ufficio o su istanza di parti).
Il rito speciale del lavoro disciplina questi due momenti portanti del processo da un lato negli artt.414-415-416, dall’altro nell’art.420, 1°, 2°, 5°, 6°, 7° comma e 421, 2°comma.
[38] Il legislatore che vuole attuare la tutela giurisdizionale delle situazioni sostanziali implicate nel rapporto di lavoro non può non considerare che: a) “essendo compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”, è necessario predisporre un procedimento caratterizzato dalla rapidità e dalla utilizzazione di strumenti tecnici adeguati e scoraggiare l’interesse dilatorio della controparte del lavoratore; b) il particolare rango e la particolare disciplina dettata dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie per le situazioni sostanziali implicate nel rapporto di lavoro, impongono l’uso di tecniche procedimentali che tengano conto di tali particolarità.
[39] Proto Pisani, AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, Bologna -Roma, II ediz., 1987, pag.56 ss.. Nello stesso senso Dell’Olio-Ferrari-Piccinini, La tutela dei diritti nel processo del lavoro, Torino, 1994, pag.10.
[40] Il legislatore del 1973 ha avvertito che la disciplina di un processo genericamente rapido non basta, poichè il datore di lavoro riuscirà sempre a trovare norme da utilizzare a scopo dilatorio o defatigatorio della controparte; e di conseguenza ha cercato di colpire il problema alla “radice”, introducendo strumenti idonei a rimuovere l’interesse del datore di lavoro alla durata del processo e quindi ad eliminare gli effetti dannosi che derivano dagli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Questi meccanismi di disincentivazione (è nota anche la loro funzione preventiva ed intimidatrice) sono, fondamentalmente, tre: 1) l’automatica rivalutazione del credito di lavoro, indipendentemente dalle prove di danni ulteriori, attraverso la tecnica della sua indicizzazione e per tempo da quando il credito stesso si è maturato (art.429, 3° comma c.p.c.): id est, l’integrale ripristino della situazione attiva del lavoratore proprio quale sarebbe stata se l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento non ci fosse stato; 2) la possibilità per il giudice di disporre con ordinanza il pagamento delle somme non contestate (art.423, 1°comma c.p.c.), che vanifica per il datore di lavoro la possibilità di utilizzare il processo allo scopo di fiaccare le capacità di resistenza del lavoratore onde indurlo ad accettare transazioni inique; 3) la provvisoria esecutività ope legis della sentenza di primo grado favorevole al lavoratore, che privi il datore di lavoro della possibilità di utilizzare il grado d’appello a scopo defatigatorio.
[41] Il primo passo è da ravvisare nella previsione del procedimento di repressione della condotta antisindacale disciplinato dall’art.28 L.20 maggio 1970, n.300, ed i cui “necessari passi successivi dovranno essere oltre alla riconduzione del P.I. nell’alveo di una giurisdizione effettiva sul rapporto, soprattutto la predisposizione di procedimenti sommari tipici (e non subordinati ad alcuna valutazione di periculum) a tutela di situazioni di vantaggio del lavoratore (quali il diritto alla conservazione del posto di lavoro contro i licenziamenti o trasferimenti illegittimi, il diritto alla salute, in genere tutte le situazioni soggettive a contenuto non patrimoniale, ecc.) che, in quanto necessitano di forme urgenti di tutela che prevengano (o quanto meno impediscano immediatamente la continuazione del) la violazione, non possono essere tutelate adeguatamente attraverso il ricorso al solo procedimento ordinario di cognizione (anche se disciplinato nella forma più snella introdotta dalla L.533/73)”. Proto Pisani, in AA.VV., Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, II ediz., 1987, pag.63 ss..
[42] Si veda Proto Pisani, I provvedimenti d’urgenza ex art.700 c.p.c., Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, cap.VII.
[43] Proto Pisani ritiene che questo limite della riforma sia particolarmente grave “perchè mantenere il contenzioso del lavoro in un ambito prevalentemente patrimoniale, rappresenta una perdita, sul piano della tutela giurisdizionale, di tutte quelle prospettive che mirano a superare l’aspetto meramente economicistico del rapporto di lavoro: il lavoratore, sul piano della tutela giurisdizionale, continua ad essere considerato prevalentemente, anche se non unicamente, come una merce oggetto di rapporti di scambio, mentre la tutela della sua dignità e della sua personalità continua in gran parte ad essere rimessa al campo della autotutela, dello sconto diretto di classe, Principi di diritto processuale civile, III° ediz., Napoli, 1923, p.64.
[44] Si veda la Relazione al Parlamento sullo stato della Giustizia presentata nel 1980 dal C.S.M., Roma, 1980, pagg.133-171; l’indagine svolta dal Censis per conto del Ministro di Grazia e Giustizia, Verifiche sul funzionamento del nuovo processo del lavoro, Roma, 1978; Picardi, Primi risultati di una ricerca sui tempi del processo del lavoro, Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1979, 279 e ss..
[45] Proto Pisani, voce Lavoro (controversie individuali in materia di), in Novissimo Dig.it., App., 1983, p. 625.
[46] Si vedano le tabelle riportate da Picardi, Primi risultati di una ricerca sui tempi del processo del lavoro, Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1979, p. 279ss., e la testimonianza di Guglielmucci, Il giudice del lavoro negli anni ottanta: il problema della ristrutturazione degli uffici giudiziari e quelli del “nuovo sapere”, Riv. Giur. Lav., 1981, I, p. 647ss..
[47] Se Proto Pisani ritiene che gli avvocati si sono abituati alle innovazioni abbastanza rapidamente, non così per Dell’Olio, Dell’Olio-Ferrari-Piccinini, La tutela dei diritti nel processo del lavoro, Torino, 1994, pag.13: “non sempre, e comunque non subito, gli avvocati hanno preso coscienza che esiste un divieto delle udienze di mero rinvio; che il processo si celebra in tempi brevi, che gli atti introduttivi devono essere redatti secondo il disposto della legge, che le parti devono comparire personalmente stante la centralità assunta dal loro interrogatorio e del tentativo di conciliazione”. In questo senso anche Guglielmucci, Dieci anni di giustizia del lavoro: evoluzioni culturali e di prassi, in AA.VV., Il processo del lavoro, p.60. Così anche per Greco: infatti, ” sebbene il rito imponga un avvocato del lavoro “diverso” dagli altri, “non sempre gli avvocati hanno “riconvertito” la propria organizzazione professionale adattandola al nuovo rito”. E’ soprattutto nelle piccole sedi che la prassi difensiva in un processo del lavoro presenta poche differenze rispetto a quella di un ordinario processo civile.
[48] Si veda per tutti la Relazione al Parlamento del 1980 del C.S.M., Impegno di riforma per il superamento della crisi, Roma, 1980, p.164 ss., e l’introduzione della Relazione illustrativa del D.L. n.1463, presentato dal guardasigilli Sarti al Parlamento il 25 maggio 1981, di delega per la riforma del Codice di Procedura Civile, Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1981, p. 645ss., Giust. Civ., 1981, II, p. 315ss., ed in Riv. Dir. Civ., 1982, II, p. 34ss., nonostante la riserva di collegialità ivi prevista, “in considerazione della delicatezza, complessità ed importanza della materia”, per taluna controversie da determinare.
[49] L’ultimo comma dell’art.413 c.p.c. dichiara nulle le clausole derogatorie della competenza per territorio. Tale competenza, in materia di lavoro, tuttavia, non è inderogabile; ai sensi dell’art.428, infatti, “l’incompetenza può essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria difensiva di cui all’art.416 ovvero rilevata d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza di cui all’art.420”.
[50] L’art.410 c.p.c. al fine di prevenire il ricorso al giudice, ha introdotto un sistema facoltativo di conciliazione davanti ad un’apposita commissione. In base a tale norma, chi intende instaurare un giudizio per uno dei rapporti previsti dall’art.409, può promuovere, anche tramite un’associazione sindacale, il tentativo di conciliazione davanti all’apposita commissione di conciliazione, composta dal direttore dell’ufficio provinciale del lavoro, che la presiede, da quattro rappresentanti dei lavoratori designati dalle organizzazioni sindacali nazionali maggiormente rappresentative, e da quattro rappresentanti dei datori di lavoro. Ricevuta l’istanza, la commissione convoca le parti per una riunione da tenersi entro 10 gg., dal ricevimento della richiesta e tenta la conciliazione. Se la conciliazione riesce, si redige processo verbale, che deve essere, poi, depositato presso la cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo in cui è stato formato e questi, con decreto, lo dichiara esecutivo. Se la conciliazione non riesce, invece, si redige ugualmente processo verbale, in cui le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, nella quale concordano, precisando, quando possibile, l’ammontare del accredito che spetta al lavoratore; in quest’ultimo caso, il verbale è depositato presso la cancelleria e reso esecutivo dal tribunale in funzione di giudice del lavoro e costituisce titolo esecutivo per il credito accertato.
[51] Oltre che davanti all’apposita commissione, il tentativo di conciliazione è possibile, in via alternativa e con carattere facoltativo (Cass.3349/81), anche in sede sindacale. Si osservano le norme di cui all’art.410 c.p.c., con l’unica differenza che il verbale di conciliazione và depositato presso l’ufficio provinciale del lavoro ed è il direttore, o un suo delegato, di questo ufficio che, accertata l’autenticità delle firme, provvede al deposito di esso presso la cancelleria della pretura. In questo caso, come anche nell’ipotesi prevista dall’art.410 c.p.c. ss., il verbale di conciliazione ancorchè non depositato, è inoppugnabile ai sensi dell’art.2113 (in tal senso Cass. 26-7-84 n.4413; per l’ipotesi prevista dall’art.410 c.p.c. ss. si veda Cass.5735/80; Cass.5274/87; Cass.3425/88; Cass.1804/88; per l’inoppugnabilità del verbale non ancora depositato si veda Cass.4416/84; Cass.1804/88; Cass.5832/87).
[52] Il ricorso deve contenere ex art.414 c.p.c.: a) l’indicazione del giudice e delle parti; b) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto; c) la determinazione dell’oggetto; d) l’indicazione dei mezzi di prova e i documenti.
[53] Per approfondimenti sulla costituzione delle parti si veda Cap. Secondo.
[54] L’udienza non può essere fissata oltre il cinquantesimo giorno dalla presentazione della comparsa contenente la riconvenzionale. Il nuovo decreto contenente la fissazione dell’udienza va notificato, insieme alla comparsa di risposta, all’attore a cura dell’ufficio entro 10 giorni dalla pronuncia del decreto di fissazione della nuova udienza e, comunque, almeno 25 giorni prima di tale udienza (art.418).
[55] “Nel nuovo processo del lavoro il ruolo del giudice è attivo, deve essere attivo. La struttura formale (…) spinge alla preventiva conoscenza della causa e non può reggere senza questa preventiva conoscenza. A questa struttura è essenziale la monocraticità del giudice, la nota nuova forse più qualificante e più efficace. Essa esprime e permette l’immediatezza e la concentrazione; esprime e permette anche l’oralità”; Mannacio, L’esperienza del processo del lavoro prima e dopo la riforma, Annuario INPDAI, Milano, 1985, p.20.
[56] Al riguardo possono verificarsi le seguenti ipotesi: 1) la conciliazione riesce e dunque viene redatto processo verbale dell’avvenuta conciliazione, che chiude la controversia; 2) se la conciliazione non riesce, occorre distinguere: a) se il giudice ritiene che la causa sia matura per la decisione senza necessità di istruzione o se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, il giudice invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva, dando lettura del dispositivo; b) se, invece, ritiene che sia necessaria una fase istruttoria, il giudice può: ammettere ed assumere le prove nella stessa udienza e quindi decidere; ovvero può fissare un’altra udienza per l’assunzione delle prove e la conseguente discussione.
[57] Se il giudice lo ritiene necessario e le parti ne fanno richiesta, può concedere un termine non superiore a 10 gg. per il deposito di note difensive, rinviando la causa all’udienza immediatamente successiva alla scadenza di detto termine per la discussione e la decisione.
[58] L’esecuzione può essere sospesa con ordinanza del giudice di appello, qualora da essa possa derivare un gravissimo danno (“quando ricorrano gravi motivi” per le sentenze di condanna a favore del datore di lavoro).
[59] L’appello contro le sentenze pronunciate in materia di lavoro deve essere proposto entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza con ricorso davanti alla Corte d’Appello territorialmente competente, cioè quella nella cui circoscrizione ha sede il Tribunale in funzione di giudice del lavoro che ha pronunciato la sentenza.
[60] Nuove domande si hanno quando muta il petitum ed i soggetti, non quando c’è una diversa qualificazione giuridica degli stessi fatti (si veda, ad es., Cass. 9-7-83 n.4665).
[61] Non sono proponibili quelle eccezioni che il giudice non può esaminare se non ad istanza di parte (es. eccezioni di prescrizione e/o di compensazione) e non quelle rilevabili d’ufficio (es. eccezione di pagamento, si veda in tal senso Cass. 6-2-85 n.866; Cass. 4-7-83 n.4478; Cass.25-10-84 n.5423).
[62] Il divieto circa l’ammissione di nuovi mezzi di prova è ritenuto operante quando la nuova prova lede il carattere unitario dell’istruzione probatoria di primo grado (si veda Cass. 6-2-85 n.866; Cass.22-2-85 n.1582).

Redazione

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