Osservazioni sull’ istituto della revisione dei prezzi negli appalti pubblici

L’istituto della revisione dei prezzi è preordinato da un lato alla tutela dell’esigenza della stazione appaltante di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto e, dall’ altro lato ha lo scopo di tenere quanto più possibile indenni gli appaltatori della P.A., da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che, incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento della formulazione dell’offerta, potrebbero indurli a svolgere il servizio o ad eseguire la fornitura a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito o a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con inevitabile compromissione del buon andamento della P.A – stazione appaltante. In via mediata, pertanto, l’istituto tutela anche l’interesse dell’impresa appaltatrice a non subire la dannosa alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l’arco del rapporto. 

L’ Art. 115 del dlgs 163/2006, prevede che “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all’articolo 7, comma 4, lettera c) e comma 5”. 

L’ art 7 comma 4 del dlgs 163/2006 stabilisce che La sezione centrale dell’Osservatorio dei contratti pubblici si avvale delle sezioni regionali competenti per territorio, per l’acquisizione delle informazioni necessarie allo svolgimento di taluni specifici compiti, tra cui, alla lett.c , quello di “determinare annualmente costi standardizzati per tipo di servizio e fornitura in relazione a specifiche aree territoriali, facendone oggetto di una specifica pubblicazione, avvalendosi dei dati forniti dall’ISTAT, e tenendo conto dei parametri qualità prezzo di cui alle convenzioni stipulate dalla CONSIP, ai sensi dell’articolo 26, legge 23 dicembre 1999, n. 488”. 

Al comma 5, inoltre, il medesimo testo legislativo prevede che “Al fine della determinazione dei costi standardizzati di cui al comma 4, lettera c), l’ISTAT, avvalendosi, ove necessario, delle Camere di commercio, cura la rilevazione e la elaborazione dei prezzi di mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni aggiudicatrici, provvedendo alla comparazione, su base statistica, tra questi ultimi e i prezzi di mercato. Gli elenchi dei prezzi rilevati sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, con cadenza almeno semestrale, entro il 30 giugno e il 31 dicembre. Per i prodotti e servizi informatici, laddove la natura delle prestazioni consenta la rilevazione di prezzi di mercato, dette rilevazioni sono operate dall’ISTAT di concerto con il Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione di cui al decreto legislativo 12 febbraio 1993, n. 39”. 

Al comma 5 bis si prevede , inoltre, che “nella determinazione dei costi standardizzati, di cui al comma 4, lettere b) e c), si tiene conto del costo del lavoro determinato dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale”. 

L’istituto della revisione prezzi può, quindi andare oltre la mera esigenza dell’Amministrazione aggiudicante di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo e tutelare – quindi – anche il contrapposto interesse dell’impresa (Cons. Stato, Sez. V, 9 giugno 2008 n. 2786). Una tale situazione, conseguentemente, legittima una quantificazione del compenso revisionale mediante il ricorso a differenti parametri statistici e va comunque intesa come ricorrenza di circostanze impreviste e imprevedibili, ossia non sussistenti al momento della sottoscrizione del contratto e delle quali non era prevedibile l’avveramento (TAR Veneto, sez. I, 1° febbraio 2010 n. 236). 

L’ art 1667 del codice civile, prevede che “nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita , se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili , la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’articolo 1458. La risoluzione non può essere domandata 

se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.” 

L’ art. 1664 del codice civile, inoltre, prevede che “qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l’appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo . La revisione può essere accordata solo per quella differenza che eccede il decimo. Se nel corso dell’opera si manifestano difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti , che rendono notevolmente più onerosa la prestazione dell’appaltatore, questi ha diritto a un equo compenso”. 

A differenza della previsione dell’art. 1467 c.c., in tal caso è sufficiente che gli eventi siano solo imprevedibili, non anche straordinari. Pertanto, solo al ricorrere di entrambi i presupposti il contraente svantaggiato può valersi della disciplina più favorevole di cui alla norma da ultimo citata. 

Inoltre la variazione inferiore al decimo viene ricondotta dal legislatore alla normale alea contrattuale (1469 c.c.). Ne deriva che la parte che non intende sopportarla (e potrebbe essere una variazione gravosa se il prezzo è molto alto) deve cautelarsi con apposita clausola. 

L’ art. 115 del d.lgs 163/06, detta, invece, una disciplina speciale, circa il riconoscimento della revisione prezzi nei contratti stipulati dalla p.a. 

Essa prevale su quella generale di cui all’articolo 1664 c.c. (Consiglio di Stato, Sez. V, 9 giugno 2008, n. 2786; Sez. V, 14 dicembre 2006, n. 7461; Sez. V, 16 giugno 2003, n. 3373; Sez. V, 8 maggio 2002, n. 2461). 

Tale disciplina ha natura imperativa e s’impone nelle pattuizioni private modificando ed integrando la volontà delle parti contrastante con la stessa; ne consegue che le clausole difformi sono nulle nella loro globalità, anche se la nullità non investe l’intero contratto, in applicazione del principio “utile per inutile non vitiatur”, sancito dall’articolo 1419 c.c. 

Poiché però la disciplina legale dettata dall’articolo 6, commi 4 e 6 cit., non è mai stata attuata nella parte in cui prevede l’elaborazione, da parte dell’I.S.T.A.T., di particolari indici concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal complesso delle aggiudicazioni di appalti di beni e servizi, rilevate su base semestrale, la lacuna può essere colmata mediante il ricorso all’indice F.O.I. (indice di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati), mensilmente pubblicato dall’ISTAT, con la precisazione che l’utilizzo di tale parametro non esime la stazione appaltante dal dovere di istruire il procedimento tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto al fine di esprimere la propria determinazione tecnico-discrezionale, ma segna il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali che devono essere provate dall’impresa, non può spingersi nella determinazione del compenso revisionale (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 15 maggio 2009 n. 3003; Sez. V, 9 giugno 2008 n. 2786, 20 agosto 2008 n. 3994 e 9 giugno 2009 n. 3569) 

La disciplina in materia di revisione dei prezzi degli appalti pubblici ad esecuzione periodica o continuata – fissata dall’art. 115 del D.Lgs. n. 163/2006 – prevale – dunque – su quella generale di cui all’art. 1664 c.c., dal che discende la nullità delle clausole dei contratti pubblici che, pur contemplando la revisione dei prezzi prevedano, conformemente alla disciplina civilistica, anche in forma indiretta, un’alea a danno dell’appaltatore (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2786/2008) 

A tal riguardo l’ Anac, con deliberazione del 16 luglio 2009, su richiesta dell’ ASL di Sassari, ha osservato che “ La revisione del prezzo dei contratti pubblici di appalto di beni e servizi è attualmente disciplinata dall’art. 115 del D.Lgs. n. 163/2006 che prevede l’obbligo di introdurre nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa una clausola di revisione periodica del prezzo da operare sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili sulla base dei costi standardizzati per tipo di servizio e fornitura pubblicati annualmente a cura dell’Osservatorio dei contratti pubblici. 

La citata disposizione riproduce quanto già previsto dal comma 4, art. 6, della previgente legge n. 537/1993 che prevedeva il medesimo obbligo di revisione dei prezzi indicando però, quale parametro di riferimento 

per il calcolo, il miglior prezzo di mercato tra quelli rilevati ed elaborati dall’ISTAT, avvalendosi, ove necessario, delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, provvedendo alla comparazione, su base statistica, tra questi ultimi e i prezzi di mercato. Gli elenchi dei prezzi rilevati sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, per la prima volta entro il 31 marzo 1995 e successivamente, con cadenza almeno semestrale, entro il 30 giugno e il 31 dicembre di ciascun anno” . 

Nel periodo di vigenza della citata L. n. 537/1993, l’ISTAT, tuttavia, non ha provveduto alla rilevazione ed elaborazione dei prezzi di mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle pubbliche amministrazioni e la giurisprudenza, per supplire a tale carenza, nei contenziosi insorti tra stazioni appaltanti ed imprese per il mancato riconoscimento dell’importo contrattuale, ha indicato quale parametro di riferimento l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI) determinato dall’ISTAT (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 8 maggio 2002, n. 2461; Consiglio di Stato, sez. V, 16 giugno 2003, n. 3373; Consiglio di Stato, sez. V, 14 dicembre 2006, n. 7461). 

Considerato che, a causa della difficoltà dell’instaurarsi del complesso di relazioni istituzionali previsti dall’art. 7, commi 4, 5 e 6 del D.Lgs. n. 163/2006, la pubblicazione dei costi standardizzati di cui all’art. 115 non ha ancora avuto luogo, nelle more, l’Autorità, vista l’analogia tra i due disposti normativi (art.6, comma 4, L n. 573/93 e art. 155 D.Lgs. n. 163/2006), ha ritenuto che la revisione di cui all’art. 115 possa ragionevolmente continuare ad essere effettuata, previa istruttoria da parte del dirigente responsabile, sulla base dell’indice FOI pubblicato dall’ISTAT (verbale n. 17 del 7 e 8 maggio 2008, punto odg n.10). 

Una simile posizione è giustificata dalla necessità di ancorare la revisione a criteri oggettivi, tali da conservare l’equilibrio del sinallagma contrattuale, facendo quindi riferimento ad un “prezzo”, o indice di prezzo determinato dall’ISTAT, e non ad un “costo” per l’impresa che potrebbe invece essere espressione di eventuali inefficienze della funzione produttiva del singolo operatore economico che verrebbero in tal modo poste a carico della stazione appaltante. 

E’ tuttavia innegabile che, specie nei contratti di appalto di servizi, il costo del lavoro rappresenti una componente che incide in modo consistente sull’offerta. 

Nel caso di specie, la stazione appaltante ha effettuato la rivalutazione tenendo conto, oltre che del FOI, anche dell’aumento del costo del lavoro, così come desumibile dalle tabelle del Ministero del Lavoro, dopo avere quantificato esattamente l’incidenza del costo del lavoro sull’offerta dell’impresa ed il costo orario applicato. 

Da quanto emerge dalla nota, pare infatti che, il dirigente responsabile, abbia effettuato un’istruttoria accurata che ha consentito di individuare la quota del prezzo determinata dal costo del fattore produttivo lavoro, cui è stata applicata la revisione in ragione dell’aumento del costo del lavoro e quella, residuale, riferita ai costi generali di contratto, rivalutata in ragione dell’indice FOI. 

In tal modo si è evitato di rivalutare due volte, secondo indici diversi, le diverse componenti del prezzo e, al contempo, si è cercato di mantenere l’equilibrio del sinallagna contrattuale. 

A tal proposito, si evidenzia che la giurisprudenza ha ritenuto che gli incrementi relativi al costo del personale possano utilmente sostituire quelli indicati dal legislatore ma non ancora disponibili (TAR Puglia Lecce, sez. II, 23 maggio 2006, n. 2958). 

La stessa Anac, con Parere di Precontenzioso n. 82 del 30/05/2012, ha evidenziato che è legittima, in riferimento all’art. 115 del D. Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 , la previsione del capitolato secondo cui “a fronte dell’eventuale mancata pubblicazione da parte dell’ISTAT dei dati relativi all’andamento dei prezzi dei principali beni e servizi acquistati dalle Amministrazioni pubbliche, la revisione del canone d’appalto è operata applicando il 90% dell’indice di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e di impiegati (indice FOI) pubblicato dall’ISTAT. L’indice FOI utilizzato è quello medio annuo riferito all’anno precedente a quello in cui viene determinata la revisione del canone. La revisione del canone scatterà solo su richiesta avanzata dalla parte che vi avrà interesse”. 

il Consiglio di Stato è fermo nel ribadire che le ragioni per derogare all’indice Foi devono essere eccezionali. Pertanto, l’impresa deve dimostrare, durante l’istruttoria, l’esistenza di tali circostanze eccezionali che giustifichino la deroga all’indice FOI e che la quantificazione del compenso revisionale per queste ragioni dovrà effettuarsi con il ricorso a differenti parametri statistici. 

La natura imperativa dell’ art. 115 d.lgs 163/’06 e la sua capacità d’imporsi ai patti contrari non può comportare l’assoluta irrilevanza degli eventuali successivi accordi delle parti che, rinegoziando volontariamente e nuovamente l’originario assetto del rapporto contrattuale, rinnovino le condizioni del contratto originario (TAR Campania – Salerno n. 2956/07; TAR Sardegna n. 45/07). 

Diversamente opinando verrebbe vanificata la ratio della norma volta a coniugare l’esigenza di contenere la spesa pubblica con quella di garantire che le prestazioni di beni o servizi da parte degli appaltatori non subiscano con il tempo una diminuzione qualitativa a causa degli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione. Tali presupposti vengono meno allorquando il rapporto è consensualmente rinegoziato tra le parti. 

il settore delle costruzioni, è l’unico a non godere di un vero e proprio meccanismo di revisione prezzi, nonostante sia particolarmente esposto a forti e repentini aumenti, nonostante possa essere soggetto a improvvise crisi economiche nel settore delle materie prime, le quali possono comportare un imprevedibile ed esorbitante aumento dei prezzi. Ciò, può produrre pesanti ripercussioni sui costi di realizzazione delle opere, riportando di attualità il problema della mancanza di un idoneo strumento di adeguamento delle condizioni contrattuali in grado di riequilibrare sul piano economico il rapporto tra impresa ed ente appaltante, sostitutivo del “prezzo chiuso”. 

Il problema inizialmente riguardava soprattutto il ferro e l’acciaio, per poi estendersi anche a laterizi, calcestruzzo, energia, trasporti e noli. 

A seguito della crisi sui prezzi delle materie prime avvenuta nel 2004, il legislatore fu indotto al varo di un provvedimento contenente misure destinate a far fronte, a regime, a tale genere di situazioni. 

Infatti, con la Legge Finanziaria 2005 modificò la L.109/94 (c.d. legge Merloni) introducendo alcuni nuovi commi all’art.26, che prevedevano un meccanismo di compensazione del corrispettivo d’appalto al verificarsi di determinate condizioni. 

Il provvedimento, i cui contenuti li ritroviamo ora nell’art.133 del Testo unico degli appalti del 2006, stabiliva che le variazioni di prezzo superiori al 10% e dovute ad eventi eccezionali, rilevate annualmente con decreto del Ministero delle Infrastrutture, fossero compensate attraverso il recupero e l’utilizzo delle economie degli enti appaltanti. 

Un’altra norma estremamente importante è quella, contenuta negli stessi articoli summenzionati, che ha previsto l’obbligo per gli enti appaltanti, di aggiornare annualmente i propri prezzari. 

Peraltro, tale disposizione porta ad escludere, per ciascun materiale, un prezzo unico per tutto il territorio nazionale ma, al contrario, a ritenere che sia stato valutato preferibile un sistema di quotazioni 

suddiviso per regioni, o territori ancora più circoscritti. 

A tale quadro normativo e giurisprudenziale, vi è da aggiungere che l’ art.511 della legge di stabilità 2016, ha recentemente , introdotto un’ ulteriore importante novità legislativa. 

Si dispone infatti che, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, anche con riferimento ai contratti in corso a tale data, nei contratti pubblici relativi a servizi e forniture ad esecuzione continuata o periodica stipulati da un soggetto aggregatore di cui all’articolo 9 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, per l’adesione dei singoli soggetti contraenti, in cui la clausola di revisione e adeguamento dei prezzi sia collegata o indicizzata al valore di beni indifferenziati, qualora si sia verificata una variazione nel valore dei predetti beni, che abbia determinato un aumento o una diminuzione del prezzo complessivo in misura non inferiore al 10 per cento e tale da alterare significativamente l’originario equilibrio contrattuale, come accertato dall’autorità 

indipendente preposta alla regolazione del settore relativo allo specifico contratto ovvero, in mancanza, dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, l’appaltatore o il soggetto aggregatore hanno facoltà di richiedere, con decorrenza dalla data dell’istanza presentata ai sensi del presente comma, una riconduzione ad equità o una revisione del prezzo medesimo. In caso di raggiungimento dell’accordo, i soggetti contraenti possono, nei trenta giorni successivi a tale accordo, esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’articolo 1373 del codice civile. Nel caso di mancato raggiungimento dell’accordo le parti possono consensualmente risolvere il contratto senza che sia dovuto alcun indennizzo come conseguenza della risoluzione del contratto, fermo restando quanto previsto dall’articolo 1467 del codice civile. Le parti possono chiedere all’autorità che provvede all’accertamento di cui al presente comma di fornire, entro trenta giorni dalla richiesta, le indicazioni utili per il ripristino dell’equilibrio contrattuale ovvero, in caso di mancato accordo, per la definizione di modalità attuative della risoluzione contrattuale finalizzate a evitare disservizi. 

Tale revisione contrattuale, quindi: 

– deve essere operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi; 

– deve essere basata sui c.d. costi standard. 

A tutt’oggi i costi standard non sono ancora stati determinati. 

Nelle more di tale determinazione, il comma 7 dell’articolo 9 del d.l. 66/2014 ha incaricato l’ANAC di fornire, a partire dal 1° ottobre 2014, attraverso la banca dati nazionale dei contratti pubblici, un’elaborazione dei prezzi di riferimento alle condizioni di maggiore efficienza di beni e servizi, tra quelli di maggiore impatto in termini di costo a carico della pubblica amministrazione, nonché di pubblicare sul proprio sito web i prezzi unitari corrisposti dalle pubbliche amministrazioni per gli acquisti di tali beni e servizi. Viene inoltre stabilito che la citata condizione sia accertata dall’ Anac. 

Al verificarsi delle condizioni previste, l’appaltatore o il soggetto aggregatore hanno facoltà di richiedere, con decorrenza dalla data dell’istanza, una riconduzione ad equità o una revisione del prezzo medesimo. 

Ulteriore innovazione legislativa, connessa a quanto sopra illustrato, è intervenuta attraverso l’art. 106 lettera a) del nuovo codice degli appalti ( D.Lgs. 50/2016). 

Difatti, si prevede che “i contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi”. 

L’apposizione della clausola, da parte dell’amministrazione, è diventata, pertanto, facoltativa. 

Il Consiglio di Stato con la recente sentenza n. 621/2016, ha chiarito i limiti della giurisdizione amministrativa in materia di revisione dei prezzi nei contratti d’appalto. 

Al riguardo, già le Sezioni Unite della Cassazione, avevano precisato che il fondamento dell’azione, per la rideterminazione del canone di un appalto prevista da clausole negoziali tra le parti, ha natura di diritto soggettivo, conoscibile dal giudice ordinario (sentenza 19 marzo 2009, n. 6595; ordinanza 13 luglio 2015, n. 14559). 

Il Collegio amministrativo ha precisato che solo per meccanismi di adeguamento del canone d’appalto aventi fonte di rango normativo sono configurabili poteri dell’amministrazione appaltante di apprezzamento discrezionale di carattere autoritativo, i quali costituiscono il necessario fondamento costituzionale della giurisdizione amministrativa (cfr. Corte Cost., 6 luglio 2004, n. 204), all’opposta conclusione deve invece pervenirsi laddove la clausola revisionale sia stata autonomamente pattuita dalle parti. 

Inoltre, in materia di revisione dei prezzi, la fase anteriore al riconoscimento della spettanza del diritto, è caratterizzata dalla discrezionalità dell’Amministrazione nel riconoscere la spettanza del trattamento ed il ricorrere dei suoi presupposti. 

Pertanto, la decisione negativa adottata dall’Amministrazione in proposito va impugnata nel termine di decadenza previsto in via generale per i provvedimenti non aventi contenuto paritetico. 

Quindi in caso di risposta negativa dalla parte della P.A. alla richiesta dell’ impresa, il provvedimento va impugnato tempestivamente. 

Tale sentenza si collega a delle precedenti sentenze dello stesso consiglio in cui è stato affermato che il diritto alla revisione dei prezzi soggiace alla prescrizione quinquennale, alla stregua del diritto al pagamento dei singoli ratei, atteso che non è altro che il diritto ad un diverso e più vantaggioso calcolo del corrispettivo spettante al prestatore del servizio (Consiglio di Stato 255/2016; 5128/2013). 

La funzione stessa dell’istituto dell’art. 115 del Codice, comporta che la revisione dei prezzi può essere giustificata solo in relazione allo squilibrio effettivamente determinatosi dei costi che si sono concretamente sostenuti e che incidono sull’utile di impresa. 

In altri termini, va svolta una valutazione concreta ed effettiva, e non astratta e ipotetica, sulla base della mera previsione della lex specialis (Tar Lecce sez. I 11 dicembre 2013 n. 2423; Cons. Stato sez. III 9 maggio 2012 n. 2648). 

Con riferimento alle modalità della richiesta di revisione dei prezzi, deve rilevarsi che l’art 115 codice appalti prevede che: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all’articolo 7, comma 4, lettera c) e comma 5”. 

Da tale disposizione si evincono due principi fondamentali in materia di revisione: che ogni contratto ad esecuzione periodica o continuativa deve obbligatoriamente contenere una clausola di revisione periodica del prezzo e che l’istruttoria per determinare l’ammontare della revisione spetta all’amministrazione. Sicchè, l’ente pubblico, non potrà demandare all’impresa appaltatrice eccessivi oneri probatori circa la dimostrazione della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della revisione, spettando ad esso il compito di compiere gli accertamenti a tal fine necessari, compresa l’acquisizione dei relativi documenti, pena la nullità per contrarietà con l’art. 115 codice appalti di tutte quelle clausole contrattuali che impongano oneri di produzione documentale in capo all’impresa per dimostrare il suo diritto alla revisione, non richiesti dalla legge.

Morano Giuseppe

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