In data 18 ottobre 2024 il Tribunale di Roma non ha convalidato il fermo di 12 migranti detenuti nei centri in Albania, istituiti con l’accordo stipulato a Roma il 6 novembre 2023, sulla base della sentenza in data 4 ottobre 2024 con cui la Corte di giustizia europea ha ribadito il controllo della giurisdizione sulle decisioni amministrative precisando che la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro deve estendersi a tutto il suo territorio, aggiungendo, altresì, che il giudice nazionale che esamina la legittimità di una decisione amministrativa con cui si nega la concessione della protezione internazionale deve rilevare la violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di un Paese terzo come Paese di origine sicuro. Il governo, come preannunciato, è corso ai ripari e in data 23 ottobre 2024 ha emanato un decreto legge che indica gli Stati da ritenersi sicuri, provvedimento che tuttavia non sembra immune da vizi di legittimità costituzionale e di contrasto con la normativa europea anche perché contiene una nuova disciplina processuale incompatibile con i criteri di necessità e urgenza previsti per l’emanazione di un decreto legge. Per approfondire il tema dell’immigrazione consigliamo il volume: Immigrazione, asilo e cittadinanza
Indice
1. I decreti del Tribunale di Roma in data 18 ottobre 2024
Con dodici decreti in data 18 ottobre 2024 il tribunale civile di Roma ha deciso di non convalidare il trasferimento di 12 migranti detenuti nel CPR di Gjader in Albania. Infatti, secondo il giudice, i migranti trasportati dalla nave Libra della Marina militare italiana, non possono essere inviati in un Paese che non può essere considerato “sicuro” in base ai criteri stabiliti dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea; i predetti migranti sono stati già trasferiti da una nave della Guardia Costiera presso il CARA di Bari.
Il provvedimento si basa sulla sentenza n. C-406/22 del 4 ottobre 2024 della Corte di Giustizia dell’Unione europea in un caso riguardante un richiedente asilo moldavo giunto nella Repubblica ceca, che ha stabilito che la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro deve estendersi a tutto il suo territorio, aggiungendo che “Il giudice nazionale che esamina la legittimità di una decisione amministrativa con cui si nega la concessione della protezione internazionale deve rilevare la violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro“.[1]
Secondo quanto comunicato dalla Corte di Giustizia UE nel caso in esame “il diritto dell’Unione osta a che uno Stato membro designi un paese terzo come paese di origine sicuro soltanto per una parte del suo territorio. Inoltre, il giudice nazionale chiamato a verificare la legittimità di una decisione amministrativa in materia di protezione internazionale deve rilevare d’ufficio, nell’ambito dell’esame completo ad esso incombente, una violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di paesi di origine sicuri”.
Si sottolinea che, ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale, la normativa europea prevede che gli Stati membri possano stilare una lista di tali Paesi, quella che l’Italia ha aggiornato con un decreto interministeriale lo scorso 7 maggio.[2]
Al riguardo si rileva che alcuni dei Paesi che il governo italiano considera “sicuri” potrebbero escludere determinate aree o categorie di persone per le quali, secondo il ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Sociale, quei Paesi non sono da considerare del tutto sicuri.[3]
In sostanza con la citata sentenza del 4 ottobre 2024 Corte Ue chiarisce come debba essere interpretato l’articolo 37 della direttiva europea 2013/32 che regola la materia e censura di fatto la possibilità di trattenere, ai fini delle procedure accelerate, chi proviene da Paesi parzialmente sicuri.
Alle procedure in questione che, rispetto a quelle ordinarie prevedono tempi ridotti e minori garanzie per il richiedente, potranno accedere solo uomini adulti originari dai Paesi “sicuri”. Oltre ad Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia, e Tunisia, l’attuale governo aveva inserito quest’anno anche Bangladesh, Sri Lanka, Camerun ed Egitto, da cui provengono molti migranti che attraversano il Mediterraneo, ma anche Colombia e Perù. Secondo la direttiva europea n. 32/2013, “un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
I giudici di Lussemburgo hanno quindi dichiarato che il diritto dell’Unione impedisce che uno Stato membro designi un Paese terzo come paese di origine sicuro soltanto per una parte del suo territorio. A conferma di questa interpretazione, la Corte cita il legislatore europeo che, abrogando la precedente direttiva, si è pronunciato espressamente contro designazioni parziali e proprio per evitare l’abuso dell’esame accelerato delle domande d’asilo. Secondo i giudici “Interpretare l’articolo 37 della direttiva 2013/32 nel senso che consente ai paesi terzi di essere designati come paesi di origine sicuri, ad eccezione di alcune parti del loro territorio, avrebbe l’effetto di ampliare l’ambito di applicazione di questo particolare esame. Una siffatta interpretazione, non trovando alcun sostegno nella formulazione di questo articolo 37 né, più in generale, in questa direttiva, misconoscerebbe l’interpretazione restrittiva a cui devono essere sottoposte le disposizioni aventi carattere derogatorio”. Dunque, “è necessario che le condizioni materiali di tale designazione (dei Paesi di origine sicuri, ndr) siano soddisfatte per l’intero territorio del paese terzo interessato”. Lo stesso deve dirsi per l’esclusione di categorie di persone, contemplata nel 2005 e abrogata nel 2013 dallo stesso articolo 37 che, spiega oggi la Corte, non ammette interpretazioni estensive.
Tanto premesso, i decreti del giudice di Roma sottolineano in primo luogo che sussiste la giurisdizione italiana e sono territorialmente competenti, in via esclusiva, la sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea del tribunale di Roma e l’ufficio del giudice di pace di Roma. Inoltre, poiché l’art. 4, comma 3, del Protocollo con l’Albania consente “l’ingresso e la permanenza in territorio albanese dei migranti […] al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea […]”, si rende applicabile l’art. 28-bis del D.Lgs. n. 25/2008, il quale subordina l’applicabilità della procedura accelerata, inter alia, alle condizioni di cui alle lettere b) e b-bis) del comma 2 e cioè ai seguenti casi: “b) domanda di protezione internazionale presentata da un richiedente direttamente alla frontiera o nelle zone di transito di cui al comma 4, dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli; b-bis) domanda di protezione internazionale presentata direttamente alla frontiera o nelle zone di transito di cui al comma 4 da un richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicura ai sensi dell’articolo 2-bis. Inoltre, l’applicabilità della lettera 5) presuppone che il richiedente sia “stato fermato per aver eluso o tentato di eludere i […] controlli di frontiera”.
Esaminando le schede dei Paesi da cui provengono i migranti, il giudice rileva che in quella dell’Egitto, il Paese non può considerarsi sicuro per “per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani o per coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione di cui all’articolo 8, comma 1, lettera e) del Decreto Legislativo 19 novembre 2007, n. 251″.
Per quanto concerne il Bangladesh la scheda prevede: “Comunità LGBTQI+, vittime di violenza di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili, minoranze etniche e religiose, persone accusate di crimini di natura politica. Si segnala anche il crescente fenomeno degli sfollati “climatici”, costretti ad abbandonare le proprie case a seguito di eventi climatici estremi”.
Pertanto, secondo il tribunale di Roma, alla luce del combinato disposto degli artt. 3, comma 2, della legge di ratifica, e 10, comma 2, lettera b-bis (introdotta dal Decreto legge. n. 145 dell’11/10/2024 e non dal D.Lgs. come indicato erroneamente dal giudice), a mente del quale “Nelle aree di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettera c), del Protocollo possono essere condotti esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso” e “che, rintracciati, anche a seguito di operazioni di ricerca o soccorso in mare, nel corso delle attività di sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione europea […]”, le circostanze e modalità di arrivo dei migranti presso le suddette aree, previste dal Protocollo e dalla legge di ratifica, escludono che possa anche solo ipotizzarsi l’applicazione della procedura accelerata di frontiera ai sensi dell’art. 28-bis, comma 2, del D.Lgs. n. 25/2008.
Quanto all’applicabilità dell’ipotesi di cui alla lettera b-bis), ancorata alla provenienza da Paese di origine sicura, di cui al menzionato decreto interministeriale emanato ai sensi dell’art. 2-bis del D.lgs. n. 25/2008, da ultimo aggiornato il 07/05/2024, sulla cui base è stato disposto il trattenimento nei casi di specie, il Tribunale ritiene di non poter prescindere dalla citata sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea — Grande Sezione, del 4/10/2024, causa C- 406/22 — la quale ha affermato che “l‘articolo 37 della direttiva 2013/32 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un paese ferzo sia designato come paese di origine sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali per una siffatta designazione, di cui all’allegato I di tale direttiva” (par. 83). I decreti chiariscono che il principio così enunciato deve trovare applicazione anche nel caso risultino escluse determinate categorie di persone. Infatti, al punto 68, si afferma che “[…] secondo tale allegato, la designazione di un paese come paese di origine sicuro dipende, come ricordato al punto 52 della sentenza, dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme, non si ricorre mai alla persecuzione quale definita all’articolo 9 della direttiva 2011/95, tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti e che non vi sia alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno”. Inoltre, la Corte sottolinea che: “interpretare l’articolo 37 della direttiva 2013/32 nel senso che esso consente ai paesi terzi di essere designati come paesi di origine sicuri, ad eccezione di talune parti del loro territorio, avrebbe l’effetto di estendere l’ambito di applicazione di tale particolare regime di esame. Poiché una siffatta interpretazione non trova alcun sostegno nel tenore letterale del citato articolo 37 o, più in generale, in tale direttiva, il riconoscimento di una siffatta facoltà violerebbe l’interpretazione restrittiva cui devono essere subordinate le disposizioni derogatorie”.[4]
Il Tribunale di Roma rileva poi che la precedente direttiva consentiva l’esclusione di parti di territorio (e di categorie di persone), ma tale possibilità è stata abrogata dalla direttiva attualmente in vigore e l’intenzione di abrogare tale possibilità è confermata dalla spiegazione dettagliata di tale proposta elaborata dalla Commissione e fornita al Consiglio dell’Unione Europea (punti 74, 75 e 76).
E’ chiaro, pertanto, che, alla luce dell’interpretazione vincolante del diritto dell’Unione fornita dalla citata sentenza, non è possibile designare come sicuro un Paese dove si ricorre alla persecuzione quale definita dall’articolo 9 della direttiva 2011/95, tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti verso categorie di persone o vi siano minacce dovute alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno in parti del suo territorio.
Tutto ciò premesso, i Paesi di origine dei trattenuti, nelle conclusioni delle schede del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale per l’aggiornamento del sopra menzionato decreto interministeriale, basate su informazioni tratte da fonti qualificate di riferimento, sono definiti Paese di origine sicuro, ma con eccezioni per alcune categorie di persone.
Pertanto, i decreti statuiscono che, in ragione dei principî affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, i Paesi di origine dei trattenuti non possono essere riconosciuti come Paesi sicuri, tanto più che la stessa sentenza della Corte di Giustizia Europea sottolinea il dovere del giudice di rilevare, anche d’ufficio, l’eventuale violazione, nel caso sottoposto al suo giudizio, delle condizioni sostanziali della qualificazione di Paese sicuro enunciate nell’allegato della direttiva 32/2013.
Non sussiste, dunque, secondo il Tribunale di Roma, nei casi in esame il presupposto di applicazione della procedura accelerata in frontiera di cui all’art. 28-bis, comma 2, lett. b-bis), del D.Lgs. n. 25/2008.
Pertanto, l’assenza del presupposto di applicabilità della suddetta procedura impedisce un legittimo trattenimento non soltanto al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato, ma anche con riferimento a qualunque altra motivazione addotta nel provvedimento di trattenimento.
Le considerazioni di cui sopra costituiscono, per il tribunale di Roma, ragione dirimente di esclusione della possibilità di convalidare il trattenimento in esame, con assorbimento di ogni altro possibile profilo di criticità, relativo al peculiare contesto normativo del trattenimento medesimo. L’insussistenza, come esposto dal giudice, del presupposto necessario per la procedura di frontiera e per il trattenimento determina l’assenza di un titolo di permanenza del richiedente protezione nelle strutture cui all’art. 4, comma 1, del Protocollo e all’art. 3, comma 4, della Legge di ratifica. Infatti, il giudizio di convalida dei trattenimenti è uno strumento di garanzia, necessaria per principio costituzionale, dello status libertatis, che deve, quindi, essere riacquisito in caso di non convalida.
Quindi, le prescrizioni del Protocollo con l’Albania, tra le quali l’art. 4, comma 3, e l’art. 6, comma 5, secondo le quali, rispettivamente, “Nel caso in cui venga meno, per qualsiasi causa, il titolo della permanenza nelle strutture, la Parte italiana trasferisce immediatamente i migranti fuori dal territorio albanese” e “Le competenti autorità italiane adottano le misure necessarie al fine di assicurare la permanenza dei migranti all’interno delle Aree, impedendo la loro uscita non autorizzata nel territorio della Repubblica d’Albania, sia durante il perfezionamento delle procedure amministrative che al termine delle stesse, indipendentemente dall’esito finale”, comportano che, in caso di non convalida del trattenimento e di mancanza del titolo di permanenza nelle strutture albanesi, lo status libertatis può essere riacquisito soltanto per il tramite delle Autorità italiane e fuori del territorio dello Stato albanese, delineandosi di conseguenza, in assenza di alternative giuridicamente ammissibili, il diritto del richiedente protezione a riacquisire lo stato di libertà personale mediante conduzione in Italia.
Avverso la decisione del Tribunale di Roma il Ministero dell’interno ha dato mandato all’Avvocatura Generale dello Stato per proporre ricorso in Cassazione in quanto “l’ordinanza (rectius decreto) sarebbe errata e ingiusta e dovrebbe essere cassata non solo per essersi fondata su una ricostruzione normativa errata, ma anche per aver omesso completamente di indicare le ragioni in fatto che hanno condotto il tribunale ad affermare, sulla base di detta ricostruzione, (che) il Paese di origine dell’odierno intimato non fosse sicuro per quest’ultimo in relazione ai motivi riportati nella scheda Paese allegata al decreto MAECI del 7 maggio 2024 e non potesse quindi trovare applicazione la disciplina della procedura accelerata alla frontiera e nelle zone di transito”.
Si osserva, infine, che il Movimento 5stelle e il partito Italia viva hanno presentato un esposto alla Procura Regionale della Corte dei Conti contro l’esecutivo in quanto il viaggio a vuoto per il trasporto dei 16 migranti avrebbe potuto causare un danno all’erario. Si ritiene, tuttavia, che avendo il governo agito in base ad una legge approvata dal Parlamento ben difficilmente si potrebbe configurare l’ipotesi del dolo e della colpa grave prevista dalla vigente normativa. A tal proposito, si evidenzia che con il decreto-legge n. 76/2020 convertito con legge 11 settembre 2020, n. 120 si interviene su una delle componenti strutturali dell’illecito amministrativo-contabile, ossia l’elemento psicologico, andando a circoscriverne la punibilità, con il fine di rendere maggiormente efficiente la P.A., a partire dal presupposto che il perseguimento di questo obiettivo venga ostacolato dal timore dei funzionari pubblici di incorrere in responsabilità erariale anche per errori non connotati dall’intento di arrecare un danno alla Amministrazione di appartenenza. Nello specifico viene integrato il disposto dell’art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994 che contiene la disciplina sostanziale della responsabilità del pubblico dipendente che cagioni un danno all’Erario; ciò posto, se già per effetto della riforma del 1996 (legge n. 639), la responsabilità amministrativa citata era stata limitata ai soli comportamenti posti in essere con “dolo o colpa grave” – in deroga al principio generale della responsabilità per “dolo o colpa”, ancorché lieve – , attualmente con il nuovo Decreto Semplificazioni all’articolato in questione è stato aggiunto un periodo ulteriore, in forza del quale viene prescritto che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”. Per approfondire il tema dell’immigrazione consigliamo il volume: Immigrazione, asilo e cittadinanza
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Obiettivo degli autori è quello di cogliere l’articolato e spesso contraddittorio tessuto normativo del diritto dell’immigrazione.Il volume, nel commento della disciplina, dà conto degli orientamenti giurisprudenziali e delle prassi amministrative, segnalando altresì la dottrina “utile”, perché propositiva di soluzioni interpretative utilizzabili dall’operatore (giudici, avvocati, amministratori, operatori nei diversi servizi).Il quadro normativo di riferimento di questa nuova edizione è aggiornato da ultimo alla Legge n. 176/2023, di conversione del decreto immigrazione (D.L. n. 133/2023) e al D.lgs n. 152/2023, che attua la Direttiva UE/2021/1883, gli ultimi atti legislativi (ad ora) di una stagione breve ma normativamente convulsa del diritto dell’immigrazione.Paolo Morozzo della RoccaDirettore del Dipartimento di Scienze umane e sociali internazionali presso l’Università per stranieri di Perugia.
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2. Il decreto legge in data 23 ottobre 2024: la nuova lista dei Paesi sicuri
Preliminarmente si rileva che la Commissione dell’UE ha dichiarato che non esiste ancora una lista europea di Paesi considerati sicuri. Infatti, l’adozione della prima nel suo genere, elaborata dall’agenzia UE per l’asilo (Euaa) è prevista dal patto per l’immigrazione stipulato in data 4 ottobre 2023, ratificato dal Parlamento europeo il 10 aprile 2024, tra i 27 Paesi europei sul testo chiave del regolamento della crisi dei migranti.
Pertanto, oggi esistono solo elenchi nazionali stilati da alcuni Paesi e ispirati alla definizione comune contenuta nella menzionata direttiva del 2013. La futura lista degli Stati da considerare non a rischio potrà oltretutto designare dei Paesi come sicuri anche limitatamente ad alcune porzioni del territorio o categorie di persone, superando quindi i paletti stabiliti dalla citata sentenza della Corte di Giustizia Europea a norma della legislazione vigente.
Avere, quindi, un elenco UE viene visto come un modo per superare “alcune divergenze delle liste nazionali”. Questo perché probabilmente anche in futuro ai singoli Stati si darà comunque la possibilità di definire i propri elenchi nazionali ed ampliare la selezione UE aggiungendo ulteriori Paesi, fermo restando che la valutazione delle domande di asilo dovrà effettuarsi caso per caso.[5]
Anticipando i provvedimenti dell’Unione Europea, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge n.158 del 23 ottobre 2024 che introduce disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale e contiene una lista dei paesi di origine cosiddetti “sicuri” per le persone migranti, in modo che le richieste di asilo avanzate dai loro cittadini vengono analizzate attraverso una procedura accelerata, mentre il richiedente asilo si trova in uno stato di detenzione.[6]
Il testo, analogamente a quanto previsto da altri Paesi europei, aggiorna con atto avente forza di legge l’elenco dei Paesi di origine sicuri. Tenuto conto dei criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea e dei riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti, sono considerati come Paesi di origine sicuri i seguenti: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. Con il citato decreto diventa quindi “fonte primaria l’indicazione dell’elenco di 19 Paesi sicuri sugli originari 22”.[7]
Inoltre, “l’elenco dei Paesi di origine sicuri è aggiornato periodicamente con atto avente forza di legge ed è notificato alla Commissione europea. Ai fini dell’aggiornamento dell’elenco di cui al comma 1, il Consiglio dei Ministri delibera, entro il 15 gennaio di ciascun anno, una relazione, nella quale, compatibilmente con le preminenti esigenze di sicurezza e di continuità delle relazioni internazionali e tenuto conto delle informazioni di cui al comma 4, riferisce sulla situazione dei Paesi inclusi nell’elenco vigente e di quelli dei quali intende promuovere l’inclusione. Il Governo trasmette la relazione alle competenti commissioni parlamentari” (art. 1, lett.d).
Con tale decreto il governo ha voluto dare una maggiore legittimità politica e istituzionale alla lista dei “paesi di origine sicuri” che in precedenza, come detto, sono stati approvati con un decreto interministeriale. Il fatto che la lista sia contenuta in un decreto legge dovrebbe in teoria darle maggiore valore in un eventuale contenzioso, ma in sostanza il governo sta suggerendo ai giudici di dare maggiore rilevanza al provvedimento d’urgenza appena approvato, invece di adeguarsi alla sentenza della Corte di Giustizia.
Ma il decreto introduce anche una norma di diritto processuale, modificando il D.Lgs. n.25/2008 all’art 35-bis. Infatti, “4. Nei casi previsti dal comma 3 l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato può essere sospesa, su istanza di parte, con decreto motivato, quando ricorrono gravi e circostanziate ragioni. L’istanza di sospensione deve essere proposta, a pena di inammissibilità, con il ricorso introduttivo. Il ricorso è notificato, a cura della cancelleria e con le modalità di cui al comma 6. Il Ministero dell’interno può depositare note difensive entro tre giorni dalla notifica. Se il Ministero deposita note difensive la parte ricorrente può depositare note di replica entro i successivi tre giorni. Il giudice decide sull’istanza di sospensione entro i successivi cinque giorni. Se il Ministero dell’interno non si avvale della facoltà prevista dal quarto periodo il termine per la decisione decorre dalla scadenza del temine per il deposito delle note difensive. Nei casi previsti dalle lettere b), c) e d), del comma 3 quando l’istanza di sospensione è accolta, al ricorrente è rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta asilo” (art.2, comma 1). Si tratta di termini molto ristretti che metteranno in difficoltà le Corti di Appello, salvo a ritenerli di carattere ordinatorio, e nulla si dispone ove tali termini non saranno rispettati.
Inoltre, dopo il comma 4 dello stesso art.35-bis del citato D.Lgs. n. 25/2008 viene inserito il comma 4-bis secondo cui “Avverso il decreto di cui al comma 4 è ammesso reclamo alla corte d’appello nel termine di cinque giorni, decorrente dalla comunicazione del decreto a cura della cancelleria, da effettuarsi anche nei confronti della parte non costituita. Si applicano gli articoli 737 e 738 del codice di procedura civile. Il reclamo è comunicato, a cura della cancelleria, alla controparte. La proposizione del reclamo non sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento reclamato. La corte d’appello, sentite le parti, decide con decreto immediatamente esecutivo, entro dieci giorni dalla presentazione del reclamo. Il decreto è comunicato alle parti a cura della cancelleria. La sospensione dei termini processuali nel periodo feriale non opera nei procedimenti di cui al presente comma”. Anche tali termini appaiono di difficile attuazione.
Infine, il decreto precisa che le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai ricorsi presentati decorsi trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge, cercando di dare una parvenza di legalità a una disposizione processuale introdotta con un provvedimento d’urgenza.
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3. Conclusioni
In primo luogo si osserva che, nonostante le manifestazioni di interesse della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per il trattato dell’Italia con l’Albania, la portavoce dell’esecutivo UE in materia di migrazioni e affari interni ha ricordato in data 21 ottobre 2024 che le misure del governo italiano devono sì “rispondere al diritto nazionale”, ma “devono essere conformi al diritto dell’Unione Europea e non devono indebolirlo”, in particolare quanto agli standard legati alla protezione internazionale.
Inoltre, i timori rappresentati da più parti sulla legittimità dell’approvazione del disegno di legge di ratifica del protocollo con l’Albania hanno trovato un primo riscontro dapprima nella citata decisione della Corte di Giustizia Europea e poi nei decreti del Tribunale di Roma.
Infatti, tali disposizioni, non eliminano in taluni casi, anche i dubbi di legittimità costituzionale italiana e di contrasto alla normativa europea, come accertato anche dalle ordinanze del Tribunale di Catania e di altri giudici italiani sotto la vigenza del decreto legge n.133/2023 convertito in legge 1° dicembre 2023, n. 17.
E tali rilievi non sembrano essere superati con l’emanazione del decreto legge adottato in data 23 ottobre in quanto potrebbero essere presenti profili di illegittimità costituzionale. Infatti, nonostante nella premessa si afferma “la straordinaria necessità ed urgenza di designare i Paesi di origine “sicuri” […]”, in realtà tale straordinaria necessità o urgenza non sussiste. Infatti, l’indicazione degli Stati da ritenere “sicuri” e soprattutto la nuova disciplina processuale non assumono una rilevanza tale da consentire l’adozione di un decreto legge, e quindi il provvedimento si pone in contrasto con l’art. 77, II comma, della Costituzione.
Il decreto-legge, infatti, è un atto normativo di carattere provvisorio avente forza di legge, adottato in casi straordinari di necessità e urgenza dal Governo ai sensi dell’art.77 della Carta costituzionale, e regolato ai sensi dell’art. 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400.
E’ pur vero che il sindacato sulla necessità e l’urgenza[8] dell’atto è di natura prettamente politica; tuttavia è consolidata[9] la tradizione di una ricaduta giurisdizionale (con conseguente valutazione dell’atto, anche solo sotto il profilo formale)[10], per cui è accaduto che la Corte costituzionale[11] abbia dichiarato incostituzionale un comma di un decreto in materia di enti locali per mancanza dei requisiti di necessità e urgenza[12].
Inoltre, una declaratoria d’illegittimità costituzionale da parte della Consulta potrebbe produrre effetti anche sulla legge di conversione eventualmente approvata dal Parlamento o pubblicata in Gazzetta Ufficiale prima della pronuncia, rendendola nulla, mettendo a rischio in tal modo gli eventuali trasferimenti dei migranti in Albania.[13]
Pertanto, sarebbe stato opportuno adottare il provvedimento con legge ordinaria, altrimenti si corre il rischio che la Corte Costituzionale possa dichiararla illegittima.
Inoltre, come già detto, la stessa sentenza della Corte di Giustizia Europea sottolinea il dovere del giudice di rilevare, anche d’ufficio, l’eventuale violazione, nel caso sottoposto al suo giudizio, delle condizioni sostanziali della qualificazione di Paese sicuro enunciate nell’allegato della direttiva 2013/32; motivo per cui nonostante la normativa primaria adottata dal governo italiano il Tribunale di Roma potrebbe disapplicarla per alcune fattispecie.
Inoltre, di grande rilevanza sarà la decisione della Corte di Cassazione interessata dal Tribunale di Roma che sarà adottata il prossimo 4 dicembre in merito al quesito concernente la possibilità per ogni magistrato di valutare caso per caso se un Paese può essere considerato “sicuro”, questione sollevata quando la lista era contenuta solo nel citato decreto interministeriale del 7 maggio 2024.
In conclusione si ritiene che il provvedimento del governo, con riferimento all’indicazione degli Stati “sicuri”, al di là dei profili di legittimità costituzionale, sia inutiliter datum per le ragioni suesposte e quindi il braccio di ferro tra potere esecutivo e potere giudiziario, nonostante le raccomandazioni del Capo dello Stato, potrebbe a durare a lungo se non addirittura acuirsi ulteriormente.
[1] F. Vassallo Paleologo, La Corte di giustizia dell’Unione Europea delimita la categoria dei “paesi di origine sicuri”, in “pressenza” del 4 ottobre 2024.
[2] P. Gentilucci, Sentenza della Corte di Giustizia UE. A rischio l’accordo con l’Albania ?, in Diritto.it del 15 ottobre 2024.
[3] F. Baraggino, Migranti in Albania, la Corte europea censura i piani dell’Italia. Cosa dice la sentenza Ue e perché è un problema per il governo, in Il fatto quotidiano del 5 ottobre 2024.
[4] Cfr. in tal senso sentenze del 5 marzo 2015, Commissione/Lussemburgo, C- 502/13, EU:C:2015:143, punto 61 e dell’8 febbraio 2024, Bundesrepublik Deutschland (Ricevibilità di un ricorso reiterato),C-216/22, EU:C:2024:122, punto 35 e giurisprudenza ivi citata.
[5] Redazione, Bruxelles: «Rispettare le regole Ue». Asse Ppe-destra per il sì alla linea italiana, in il Messaggero del 22 ottobre 2024.
[6] Redazione, Il governo ha inserito la lista di “paesi sicuri” in un decreto-legge, in Il Post del 321 ottobre 2024.
[7] Comunicato stampa del Governo n. 101 del 21 ottobre 2024.
[8] C. Tintori, L’urgenza legislativa e la prassi dei decreti-legge. Aggiornamenti Sociali 48, no. 3, marzo 1997, pp. 223-231.
[9] G. Sabini, La funzione legislativa e i decreti-legge. in Maglione & Strini, 1923.
[10] Consulta OnLine – Sentenza Corte cost. n. 171/2007, su giurcost.org.
[11] Sentenza n. 171 del 2007.
[12] R. Romboli, Una sentenza «storica»: la dichiarazione di incostituzionalità di un decreto legge per evidente mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza, in Foro It., 2007, pp.1986 ss.
[13] R. Bin, L’abuso del decreto-legge e del voto di fiducia sul maxi-emendamento, in lacostituzione.info, del 16 gennaio 2019.
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