Pari opportunità: un’inammissibilità infelice o una questione di legittimità da riproporre in modo diverso?

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Indice:

  1. Premessa: il giudizio principale e il decisum della Consulta.
  2. La discrezionalità del legislatore ostativa al pronunciamento nel merito da parte della Corte.
  3. La salvaguardia dell’esigenza tutelata dall’ordinamento e l’effetto della pronuncia richiesta alla Corte: l’esame della questione come perimetro dell’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale.

1. Premessa: il giudizio principale e il decisum della Consulta

Con la prima sentenza dell’anno 2022, la Consulta si pronuncia in modo inatteso su una questione che poteva sembrare de plano scontata, ossia l’incostituzionalità dell’art. 4-ter, comma 3, del decreto-legge 3 luglio 2001, n. 255 convertito, con modificazioni, nella L. 20 agosto 2001, n. 333 (recante: “Disposizioni urgenti per assicurare l’ordinato avvio dell’anno scolastico 2001-2002”) in riferimento all’art. 3 e 51 della Costituzione.

Nello caso di specie, il giudice del lavoro si era trovato a dover applicare detta disposizione in un contenzioso originato dalla richiesta di una educatrice che, pur prima nella graduatoria di riferimento, risultava di fatto esclusa dai due posti disponibili, semplicemente perché era di sesso femminile, in quanto l’ente aveva riservato il posto ad “aspiranti di sesso maschile”.

L’educatrice nel giudizio principale aveva chiesto di accertarsi la natura discriminatoria del decreto emesso dall’ufficio scolastico competente e la rimozione dei relativi effetti.

In tale ottica, il giudice a quo[1] argomentava in tema di rilevanza, facendo presente che il carattere discriminatorio del provvedimento derivava direttamente dalla predetta disposizione che opera la “distinzione tra alunni convittori e alunne convittrici opera ai soli fini dell’individuazione dei posti di organico per le esigenze delle attività convittuali da affidare a personale educativo rispettivamente maschile e femminile”.

Pertanto, il remittente riteneva la disposizione stessa lesiva dell’art. 51 Cost. che, in linea con il principio di uguaglianza derivante dal primo comma dell’art. 3[2], dispone che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici alle cariche elettive in condizioni eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge[3] .

In particolare, il Tribunale ha ritenuto risultasse “ridimensionata l’esigenza” (valorizzata da altra interpretazione giurisprudenziale[4]) “di evitare traumi nel periodo di formazione della personalità del minore e ingerenze invasive da parte di un adulto di sesso opposto” e ciò stante la forte impronta educativa globale e unisex, che caratterizza la formazione dei giovani nella società contemporanea.

La Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 4 gennaio 2022, tuttavia, ha dichiarato inammissibile la questione appellandosi alla discrezionalità del legislatore, a cui “solo compete di rimodulare il sistema normativo in esame, apprezzando, «quale interprete della volontà della collettività» (sentenza n. 84 del 2016[5]), la persistente opportunità del filtro selettivo prescritto dalla disposizione in scrutinio attraverso una rivalutazione delle ragioni che sorreggono la distinta configurazione delle istituzioni convittuali per allieve e per allievi”.

2. La discrezionalità del legislatore ostativa al pronunciamento nel merito da parte della Corte

A leggere le ragioni per cui la Corte ha optato per l’inammissibilità della questione parrebbe quasi di essere ritornati all’interpretazione per cui i cd. “requisiti stabiliti dalla legge” in relazione all’accesso agli uffici pubblici di cui parla l’art. 51, siano indice di un’ampia discrezionalità del legislatore, legittimato ad apportare deroghe (sia pur puntuali e circoscritte) al principio della parità[6].

La Corte sembra dare rilievo alla distinzione operata dal legislatore in base al sesso degli educatori, focalizzando l’attenzione sul substrato normativo formatosi negli anni[7], per arrivare alla conclusione che “il legislatore ha inteso evidentemente configurare un sistema educativo attuato con l’istituzione di strutture convittuali, nel quale la distinzione tra educatori ed educatrici è speculare e funzionale alla separazione tra gli allievi convittori e le allieve convittrici”, tanto più che tale classificazione è stata recepita dal anche in seno all’art. 20, comma 1, del DPR 20 marzo 2009 n. 81 (Norme per la riorganizzazione della rete scolastica e il razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola)[8].

La Corte arretra rispetto alle valutazioni operate dal legislatore e appare non voler addentrarsi in merito alla distinzione operata dal medesimo nei limiti della sua discrezionalità[9].

La decisione in commento, sulla base della motivazione principale, non convince e per certi versi riecheggia la criticata sentenza 56 del 1958 della medesima Corte[10], in cui il giudice costituzionale ha ritenuto sussistere in capo al legislatore una qualche sfera di apprezzamento nel dettare le modalità di applicazione del principio di parità di genere, tenendo conto delle “attitudini” delle persone[11].

Ma può ritenersi costituzionalmente legittima una distinzione di genere idonea a riflettersi in una forma di selezione del personale, oltretutto basata su ragioni di mera opportunità, ad instaurare un rapporto educativo “più confidenziale[12] tra educatori ed educandi?

Una tale conclusione cozza apertamente anche con la normativa di settore, posto che l’art. 28 del Codice delle Pari Opportunità (idoneo a fungere da tertium comparationis) prevede che “nei concorsi pubblici e nelle altre forme di selezione attuate… la prestazione richiesta deve essere accompagnata dalle parole ‘dell’uno o dell’altro sesso’, fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale[13] per la natura del lavoro o della produzione”.

Se anche la distinzione tra ragioni di opportunità e requisiti essenziali può dirsi opinabile e foriera di dubbi[14], a fortiori una distinzione dettata da ragioni di mera opportunità non può in alcun modo assurgere a criterio determinante per impedire l’accesso ad una professione basata su procedure di selezione.

In tale ottica la decisione della Corte in commento sembra compiere un passo indietro rispetto alle proprie pronunce che hanno interpretato l’art. 51 Cost, come principio antidiscriminatorio, “così da rispettare l’esigenza di una piena applicazione del principio di eguaglianza formale tra donne e uomini anche nell’ambito dei pubblici uffici[15].

Né può argomentarsi che la distinzione tra educatori opera in modo paritario per i due sessi quale misura volta a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità[16], posto che l’esigenza sottesa all’art. 51 Cost. riguarda “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso”, anche tenendo conto che la modifica costituzionale introdotta nel 2003 è tesa a garantire un’eguaglianza di chances e non di risultato[17].

Del resto, a ragionare per assurdo, qualora vi fossero solo educandi si sesso maschile, sarebbe totalmente precluso ad educatori di sesso femminile l’accesso alla professione (o viceversa).

3. La salvaguardia dell’esigenza tutelata dall’ordinamento e l’effetto della pronuncia richiesta alla Corte: l’esame della questione come perimetro dell’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale

Quella che può sembrare una pronuncia discutibile da parte della Corte, in realtà è frutto di un percorso argomentativo in parte diverso, e, pur nella sua infelice formulazione, contiene un elemento argomentativo lineare, in seno a quello che si profila come argomento aggiuntivo nella motivazione della sentenza e concernente la concreta configurazione della questione costituzionale come rimessa dal Tribunale di merito.

La Corte ad adiuvandum della motivazione principale[18], soffermandosi apparentemente sugli effetti che l’accoglimento della questione (così come posta) andrebbe a causare, aggiunge: “poiché, dunque, la realizzazione delle finalità che la vigente disciplina annette alle istituzioni educative presuppone che la suddetta distinzione operi simmetricamente in relazione a entrambi i termini del rapporto educativo, l’ablazione della norma censurata[19]… inciderebbe sulla funzionalità dell’assetto così congegnato, generando, di conseguenza, disarmonie nel sistema complessivamente considerato”.

La Corte, in questo modo, prende ad esame la questione come formulata dal giudice remittente, il quale pur ben argomentando in motivazione dell’ordinanza di rimessione circa la violazione dell’art. 51 Cost., sembra chiedere di per sé una decisione di carattere meramente ablatorio della singola disposizione censurata[20].

L’eliminazione dell’articolo di legge, tuttavia, produrrebbe delle conseguenze asimmetriche nel sistema normativo come concepito dal legislatore[21] in cui viene operata una distinzione a seconda del sesso tra educatori ed educandi, tanto più che la disposizione indicata dal remittente prevede (in via limitativa rispetto al tessuto normativo preesistente) tale distinzione “ai soli fini dell’individuazione dei posti di organico”.

Conseguentemente, l’ablazione della disposizione avrebbe comportato che la predetta distinzione basata sul sesso continuasse comunque ad esplicare effetti all’atto pratico e per di più non solo ai limitati fini dell’individuazione dei posti di organico[22].

La decisione, dunque, lungi dal porsi come un retaggio di un orientamento ormai non più appartenente alla giurisprudenza costituzionale, si segnala per l’evidente presa di posizione della Consulta circa il fatto che oggetto del proprio giudizio non sia la disposizione in sé o la norma, intesa come interpretazione del dettame legislativo.

La Corte, infatti, per sua esplicita indicazione[23] focalizza la propria attenzione sulle “esigenze” come tutelate dall’ordinamento (e in definitiva dallo stesso art. 4 ter censurato), ossia in particolare:

1) quella “di garantire la parità di genere[24] nell’accesso alla professione di educatore, correlata peraltro al parametro costituzionale ritenuto leso dal remittente (art. 51 Cost.);

2) e quella concernente “la necessità di applicare alla formazione delle graduatorie del personale educativo la stessa distinzione tra gli istitutori e le istitutrici, rispettivamente destinati alle istituzioni convittali maschili e femminili”.

Quanto alla prima, bisogna verificare se la parità di genere nell’accesso alla selezione di educatore sarebbe stata effettivamente garantita per effetto della decisione richiesta alla Corte (permettendo dunque a chi fosse escluso dalla selezione in ragione del proprio sesso, di poter esigere, ossia agire in giudizio per ottenere effettivamente la rimozione del provvedimento discriminatorio).

Tale verifica nel caso di specie sortisce esito negativo, posto che la distinzione in base al sesso degli educatori avrebbe continuato ad esplicare effetti in virtù del coacervo di disposizioni (richiamate dalla Corte) che avrebbero mantenuto intatta la distinzione medesima, oltretutto non solo ai limitati fini di cui all’art. 4-ter, determinandosi a tutti gli effetti una reductio ad absurdum.

In tal senso nell’argomento ad adiuvandum, è la Corte stessa ad evidenziare che l’accoglimento della questione come postale avrebbe comportato delle conseguenze non in linea con l’aspirazione del remittente, posto che la distinzione tra educatori di sesso diverso in corrispondenza del sesso degli educandi avrebbe comunque continuato ad esplicare effetti. Conseguentemente la parità di genere non sarebbe stata garantita (e l’esigenza da tutelare sarebbe rimasta preclusa).

Così ricostruita, l’inammissibilità pronunciata dalla Corte assume tinte diverse, non tanto perché la pronuncia in rito consente di per sé la riproposizione della questione[25], quanto piuttosto perché una questione formulata in modo diverso potrebbe trovare accoglimento.

E’ proprio il risultato applicativo derivante dal combinato disposto della normativa citata dalla Corte, a premessa della propria motivazione, a cozzare con l’art. 51 Cost., e ad impedire che parità di genere venga “garantita” con la frustrazione della relativa esigenza.

Il problema è come è possibile impedire detto effetto preclusivo della parità di genere, senza rischiare che la questione venga dichiarata inammissibile per mancanza del requisito della “rilevanza”, se le altre disposizioni normative da cui si evince la distinzione tra convittori e convittrici non risultano direttamente applicabili alla fattispecie?

Difficile ipotizzare che la Corte, di fronte ad una questione formulata in termini ablatori di una specifica disposizione, possa utilizzare lo strumento derogatorio al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato[26], ossia la pronuncia di incostituzionalità consequenziale[27], non sussistendo un vincolo di presupposizione logica tra la disposizione censurata dal remittente e il substrato normativo precedente[28].

L’alternativa è formulare una questione che permetta di eliminare le conseguenze derivanti dall’ambito applicativo del combinato disposto normativo indicato dalla Corte, se e nella misura in cui, esso determini una violazione dell’art. 51 Cost..

L’oggetto della censura allora deve essere direttamente l’altra “esigenza” (come individuata dalla Corte a premessa del proprio ragionamento e tutelata dal legislatore) ossia “la necessità di applicare alla formazione delle graduatorie del personale educativo la stessa distinzione tra gli istitutori e le istitutrici, rispettivamente destinati alle istituzioni convittali maschili e femminili”.

E’ quest’ultima esigenza, come risultato applicativo della normativa citata dalla Corte, a dover essere sindacata dalla Corte (e non la singola disposizione che alla prima fa riferimento), essendo quest’ultima esigenza destinata a soccombere di fronte alla prima che ne costituisce parametro in quanto discendente direttamente dall’art. 51 Cost.

Per eliminare concretamente la seconda esigenza segnalata dalla Corte e “garantire” la parità di genere, è necessario allora che vengano coinvolte dal giudice a quo anche le altre disposizioni richiamate dalla Consulta e così prima fra l’art. 20, comma 1, del d.P.R. 20 marzo 2009, n. 81, che quella stessa distinzione tra i due sessi presuppone come necessaria (giacché stabilisce “i dirigenti delle istituzioni educative definiscono la ripartizione dei posti da assegnare distintamente, al personale educativo maschile e a quello femminile”).

In tal modo, la questione diventa “rilevante” nella misura in cui viene censurato l’effetto derivante dall’applicazione di una o più disposizioni perché idoneo a precludere l’esigenza (presa a parametro), così da permettere alla Corte, in caso di accoglimento, di eliminare tout court la conseguenza pregiudizievole, salvaguardando l’esigenza medesima.

Ne consegue che, così, il “fatto” all’esame del giudice a quo diventa “caso” (rectius: “questione”) da sottoporsi alla Corte, che entrerà nel merito della questione medesima nella misura in cui l’esigenza contrapposta[29] (presa ad oggetto) possa venire eliminata per effetto della propria pronuncia.

Va da sé, dunque, che nel caso di specie per garantire effettivamente la parità di genere nell’accesso alla professione di educatore è esiziale che venga richiesto alla Corte di eliminare ogni distinzione tra educatori e educatrici in seno alle predette disposizioni (e non solo in relazione a quella specifica indicata dal remittente) in modo che sia prevista una ripartizione dai posti in organico da assegnare “senza distinzioni di sesso” o, comunque, a favore di soggetti indifferentemente ‘dell’uno o dell’altro sesso’.

 


Note: 

[1] Nell’ufficio del Tribunale di Trapani.

[2] E’ pacifico che l’art. 51, comma 1, della Costituzione costituisce una specificazione del principio di uguaglianza (riferito sia all’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive) con particolare riferimento alle discriminazioni fondate sul sesso.

Vedasi in tal senso, vedasi la sentenza 166 del 28 novembre 1972 della Corte costituzionale.

[3] Tanto più che il secondo comma dell’art. 51 Cost., in linea con il secondo comma dell’art. 3, dispone che “a tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

[4] In seno all’ordinanza di rimessione del 18 febbraio 2021, n. 71, pubb. in Gazz. Uff. n. 21 del 26 maggio 2021, il remittente osserva che l’orientamento di alcuni giudici di merito (Trib. Bari 31 luglio 2003), recepito in una pronuncia anche dal Consiglio di Stato (sent. 29 settembre 1999 n. 388, esprimente in realtà delle conclusioni in parte diverse), debba ritenersi superato e comunque direttamente confliggente con il parametro costituzionale.

[5] Dove in realtà la Corte prende atto di due esigenze contrapposte in situazione comunque del tutto eterogenea rispetto alla presente. In tale occasione comunque il giudice costituzionale ha ribadito che “la linea di composizione tra gli opposti interessi, che si rinviene nelle disposizioni censurate, attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale”.

[6] Così C. Esposito, La Costituzione italiana, 1954, 47. Tanto più che tale soluzione ermeneutica appare coincidere con quella propinata dall’avvocatura dello Stato in sede di intervento In tal senso, l’interveniente a difesa della distinzione, precisa che “le particolarità della funzione educativa consentirebbero di escludere che la distinzione operata dalla norma in esame istituisca una irragionevole discriminazione di genere, anche in considerazione dell’art. 31, comma 1, del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246), il quale, nel disporre che la donna può accedere a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge, istituisce una riserva in relazione alla sussistenza di requisiti necessari richiesti in concreto per lo svolgimento di una determinata attività”.

[7] Secondo la Corte: “Il criterio discretivo indicato dall’art. 4-ter, comma 3, del d.l. n. 255 del 2001, come convertito, ai fini dell’assegnazione dei posti di educatore e di educatrice, esibisce una chiara corrispondenza con l’omologa differenziazione operata dal legislatore nel prevedere distinte istituzioni educative per convittori di sesso maschile e per convittrici di sesso femminile.

In particolare, l’art. 203 del d.lgs. n. 297 del 1994 disciplina i convitti nazionali, i quali «hanno per fine di curare l’educazione e lo sviluppo intellettuale e fisico dei giovani che vi sono accolti» (comma 1), prevedendo, altresì, che «[a]i convitti nazionali possono essere annesse scuole elementari, scuole medie ed istituti e scuole di istruzione secondaria superiore. Il rettore svolge, in tal caso, le funzioni di direzione delle scuole ed istituti annessi» (comma 9); che «[a]gli istituti tecnici ed agli istituti professionali e particolarmente a quelli ad indirizzo agrario possono essere annessi convitti per alunni che frequentano l’istituto» (comma 12). L’amministrazione di ciascun convitto è affidata ad un consiglio di amministrazione, presieduto dal rettore (comma 3).

L’art. 204 dello stesso d.lgs. n. 297 del 1994 regola, invece, gli educandati femminili dello Stato, i quali «hanno per fine di curare l’educazione e lo sviluppo intellettuale e fisico delle giovani che vi sono accolte» (comma 1), estendendone il regime giuridico «agli altri istituti pubblici di educazione femminile di cui al regio decreto 1° ottobre 1931, n. 1312 e successive modificazioni, salvo che per quelle disposizioni che siano riferibili esclusivamente ad istituzioni statali» (comma 12). L’amministrazione di ciascun educandato è affidata ad un consiglio di amministrazione alle cui sedute partecipa, con voto consultivo, la direttrice dell’educandato, «la cui presenza è prescritta, ai fini della validità della seduta, quando si tratti dell’ordinamento e dell’andamento educativo e didattico dell’istituto» (comma 3)”.

[8] La Corte precisa che “tale classificazione è stata, inoltre, recepita dall’art. 20, comma 1, del d.P.R. 20 marzo 2009, n. 81 (Norme per la riorganizzazione della rete scolastica e il razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola, ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), che, nel ridefinire – in conseguenza dell’abrogazione dell’art. 446, comma 1, del d.lgs. n. 297 del 1994 operata dall’art. 24, comma 1, lettera a), del medesimo decreto – i criteri di determinazione delle dotazioni organiche del personale educativo dei convitti nazionali e degli educandati femminili dello Stato, nonché delle strutture convittuali annesse agli istituti tecnici e professionali, ha stabilito appunto che la consistenza di dette dotazioni è determinata con riguardo alla somma del numero dei convittori e delle convittrici. Il comma 2 dello stesso art. 20 dispone che «[e]ntro il limite massimo di personale determinato per effetto del conteggio di cui al comma 1, i dirigenti delle istituzioni educative definiscono la ripartizione dei posti da assegnare, distintamente, al personale educativo maschile e a quello femminile”.

[9] In distonia con quanto dalla medesima precedentemente precisato, secondo cui “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto”. Così Corte cost. 5 aprile 2012 n. 81. A commento vedasi M. R. Rodomonte, Equilibrio di genere, atti politici e Stato di diritto nella recente sentenza n. 81 del 2012 sulla equilibrata presenza di donne e di uomini nella Giunta della Regione Campania, in federalismi.it, n. 13, 27 giugno 2012, 4 ss.; R. Dickmann, L’atto politico questo sconosciuto, in Forum di Quaderni costituzionali, 9 ottobre 2012, M. Belletti, «Torniamo alla Statuto»… Regionale. La rappresentanza di genere nelle Giunte regionali tra atto politico, atto di alta amministrazione e immediata precettività delle disposizioni statutarie, in Forum di Quaderni costituzionali, 2012, F. Bilancia, Ancora sull’«atto politico» e sulla sua pretesa insindacabilità giurisdizionale, una categoria tradizionale al tramonto?, in Rivistaic, n. 4 del 2012, F. Blando, «Atto politico» e Stato di diritto» nella sentenza n. 81 del 2012 della Corte costituzionale, in Forum di Quaderni costituzionali, 31 ottobre 2012, F. Covino, La natura prescrittiva del principio del riequilibrio dei sessi nella rappresentanza politica,in Rivistaic, n. 3 del 2012.

[10] La sentenza in parola arrivava a concludere che “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. In senso critico, vedasi V. Crisafulli, nota a Corte cost. n. 56/1958, in Giur. cost., n. 1/1958, 863, secondo cui dal tenore dell’art. 51 Cost. si evince che il sesso non può mai essere utilizzato come “criterio di differenziazione della comune capacità di accesso ai pubblici uffici, riconosciuta indistintamente a tutti i cittadini”.

[11]Si ricorda che l’inciso contenuto nella formulazione inziale dell’art. 51 Cost presentata in Costituente secondo cui l’accesso ai pubblici uffici sarebbe avvenuto per i cittadini di entrambi i sessi “conformemente alle loro attitudini” è stato del resto appositamente espunto; vedasi M. D’Amico, Una parità ambigua. Costituzione e diritti delle donne, 2020. Vedasi sul punto anche L. Lorello, La dialettica tra giudice costituzionale e legislatore sulla parità di genere, in Federalismi.it (28 luglio 2021), 163-164. Anche chi ha ritenuto attività più adatte all’uno o altro sesso, ha dovuto riconoscere che “non sono rintracciabili criteri sicuri e forniti di validità assoluta per poter giungere alla determinazione di tali attività” e “non vi è altra via (ed è quella tracciata dalle norme della costituzione) che affidarla alla naturale selezione, quale potrà effettuarsi sulla base delle prove concrete di capacità nei singoli casi. Così C. Mortati, L’accesso delle donne ai pubblici uffici, in Democrazia e diritto, 1960, 142 ss

[12] I termini sono ripresi dalle valutazioni del remittente, che censurando la distinzione sottolinea che viene ritenuta ammissibili da altra giurisprudenza perché “capace di scongiurare “forme di comprensibile soggezione” da parte di individui, per lo più di minore età, che non hanno ancora “maturato una piena capacità di relazionarsi con l’altro sesso in maniera consapevole e ordinaria”.

[13] La sottolineatura è dello scrivente.

[14] E ciò tenendo conto che chi supera la naturale selezione dando prova delle proprie concrete capacità, dimostra di per sé solo che non può essere essenziale alcun altro requisito all’espletamento dell’attività richiesta, con la conseguenza che il sesso non potrà mai essere un utilizzato “quale criterio di differenziazione della comune capacità di accesso ai pubblici uffici, riconosciuta indistintamente a tutti i cittadini”, così V. Crisafulli, Nota a Corte cost. n. 56/1958, in Giur. cost., n. 1/1958, 865.

[15] Così A. Deffenu, Parità di genere e pubblici uffici nel dialogo tra giudice costituzionale e legislatore, in Osservatorio Costituzionale, fasc. 5/2021, 72. Sul punto vedasi del medesimo autore anche Il principio di pari opportunità di genere nelle istituzioni politiche, Giappichelli, 2012; sugli effetti della giurisprudenza costituzionale sulla parità di genere, vedasi anche S. Cecchini, La Corte costituzionale paladina dell’eguaglianza di genere, Editoriale Scientifica, 2020. Vedasi, con riferimento al principio nel diritto dell’Unione europea, A.A. Genna, Alcune considerazioni sul principio di pari opportunità, in Norma quotidiano d’informazione giuridica. Tanto più che le differenziazioni in base al sesso, ritenute ammissibili da parte della giurisprudenza costituzionale, riguardavano quelle previsioni del legislatore volte a rimuovere gli ostacoli economico-sociali impedienti un’effettiva parità di genere, in linea con il dettame del secondo periodo del precetto costituzionale: nel caso deciso dalla Corte, viceversa, è lo stesso principio di eguaglianza formale ad essere messo in discussione. Così vedasi Corte cost.  30 gennaio 2003 n. 49 e 4 del 14 gennaio 2010, rese in materia elettorale, fermo restando che, è stato correttamente osservato, “non c’è ragione di ritenere che la stessa apertura non debba riguardare l’accesso ai pubblici uffici”, così A. Deffenu, op. cit. , 82. Discutibile che possa farsi rientrare nell’alveo anche la sent. 12 settembre 1995 n. 422: critica in tal senso L. Carlassare, in L’integrazione della rappresentanza: un obbligo per le Regioni, in La rappresentanza democratica nelle scelte elettorali delle Regioni, a cura di L. Carlassare, A. Di Blasi e M. Giampieretti, Padova, 2002. Sulla portata della modifica della disposizione costituzionale operata dalla L. cost. 1/2003, vedasi anche ord. 27 gennaio 2005 n. 39 della Corte, secondo cui “nel nuovo testo la norma non si limita più a disporre che «la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa» (v. sentenza n. 33 del 1960) e, quindi, a costituire una sorta di specificazione del principio di uguaglianza enunciato, a livello di principio fondamentale, dall’art. 3, primo comma, Cost. (v. sentenze n. 188 del 1994 e n. 422 del 1995), ma assegna ora alla Repubblica anche un compito di promozione delle pari opportunità tra donne e uomini” con nota A. Di Blasi, Anche il Consiglio di Stato inciampa sulla parità dei sessi, in Giur. cost. 2005, 315 e ss.. Sul fatto che la possibilità di azioni positive fosse già insita nell’originario dettato costituzionale, vedasi L. Gianformaggio, Eguaglianza formale e sostanziale il grande equivoco, in Foro it. 1996, 1972 e della stessa, La promozione della parità di accesso alle cariche elettive in Costituzione, in La parità dei sessi nella rappresentanza politica, Atti del Seminario di Ferrara, 16 novembre 2002, a cura di R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto e A. Veronesi, 2003, 76.

[16] Tra cui quelle tese a superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi.

[17] Così L. Carlassare, op. cit., 14 e ss.

[18] Utilizzando un percorso argomentativo quasi sempre presente nelle decisioni del giudice costituzionale.

[19] Norma “che tale differenziazione assicura con riferimento a coloro che svolgono la funzione educativa”, indica per inciso la Corte.

[20] O almeno così l’ha intesa la Corte. In conclusione dell’ordinanza di rimessione, in realtà il Tribunale si riporta ai “termini sopraindicati”, dove censura “l’illegittimità costituzionale della disposizione legislativa sopra riportata”.

[21] Almeno così pare intendersi il ragionamento della Consulta.

[22] Anche se l’unificazione dei ruoli provinciali e delle correlate graduatorie potrebbe comunque spingere l’interprete a ritenere la limitazione valevole comunque ai limitati effetti previsti dal medesimo art. 4 ter, impugnato dal remittente.

[23] Indicazione ormai disseminata in gran parte delle proprie decisioni. Da ultimo vedasi sentenza 16 del 21 gennaio 2022.

[24] In questo caso, direttamente discendente dall’art. 51 Cost..

[25] Fermo restando che “non spetta al giudice costituzionale entrare nel merito del processo sospeso indicando quali norme deve, o non deve applicare”, perché “altrimenti il pregiudizio delle parti può essere definitivo…se il giudice remittente, di fronte ad una decisione di inammissibilità, non ripropone la questione in modo corretto”, così L. Carlassare, I diritti davanti alla Corte costituzionale: ricorso individuale o rilettura dell’art. 27 l. 87/1953, in Dir. Soc. 1997, 453.

[26] Di cui all’art. 27 della L. 87/1953.In merito sul principio vedasi B. Caravita, Appunti in tema di “Corte giudice a quo” (con particolare riferimento alle questioni sollevate nel corso dei giudizi incidentali di legittimità costituzionale), in AA. VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, 357.

[27] Di cui al secondo comma dell’art. 27 L. 87/1953. Sul punto vedasi A. Morelli, L’illegittimità conseguenziale delle leggi, 2008, 29; G. Crisafi, Illegittimità conseguenziale delle leggi e discrezionalità. Commento alla sentenza n. 251 del 2016 della Corte costituzionale, in Osservatorio Costituzionale, fasc. 3/2017. Più risalente vedasi G. D’Orazio, Profili problematici (teorici e pratici) dell’illegittimità derivata delle leggi, in Giurisprudenza costituzionale, 1968, 2602.

[28] Essendo semmai ipotizzabile il contrario in quanto la norma impugnata (successiva) circoscrive il periodo della normativa (precedente).

[29] In questo caso l’effetto pregiudizievole deriva direttamente da un’esigenza specifica come tutelata dall’ordinamento, in altri casi può essere il risultato “indiretto” della tutela apprestata dall’ordinamento ad altre esigenze.

Sentenza collegata

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Avv. Alessandro Di Blasi

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