Patrocinio a spese dello Stato: ammissione, compensi e revoca. Un raffronto tra normativa ed orientamenti giurisprudenziali

Premessa: una breve disamina del quadro normativo

Per sapere tutto su questo argomento leggi anche “Guida al patrocinio a spese dello stato” di Santi Bologna

La fonte normativa che qui ci interessa è sicuramente il D.P.R. n. 115/2002, avendo avuto il merito di regolamentare in maniera organica la tematica delle spese di giustizia. Nello specifico, si tratta di un Testo Unico, strutturalmente composto di ben 302 disposizioni normative. Tuttavia, gli articoli che qui ci interessano sono quelli che vanno dal 75 al 145, tutti sistematicamente inseriti nella Parte III, regolamentante il patrocinio a spese dello Stato.

Il suesposto intervento legislativo benché costituisca da tempo il vero referente in tema di gratuito patrocinio, non è rimasto esente da modifiche, integrazioni, sostituzioni ed abrogazioni intervenute a seguito di numerosi interventi riformatori, che nel corso degli anni sono andati succedendosi.

Un primo tassello è stato posto dalla Legge 24 febbraio 2005, n. 25, recante “Modifiche al T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di giustizia”. In particolare, quest’ultima ha predisposto un vero e proprio rafforzamento della già previgente disciplina operante in tema di requisiti necessari ai fini dell’inserimento nell’elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato. Introducendo, difatti, la necessità dell’iscrizione all’albo professionale da almeno due anni[1].

Ha fatto il suo ingresso, nello stesso anno, anche il D.L. n. 115/2005, il cui intento è stato quello di apportare rilevanti modifiche soprattutto in ordine alla previsione normativa di cui all’art. 112 del T.U. in esame. Ovvero in materia di revoca del decreto di ammissione al patrocinio. Difatti, a detta della rinnovata disposizione normativa, il magistrato può, con decreto motivato – d’ufficio o su richiesta dell’ufficio finanziario competente presentata in ogni momento e comunque non oltre cinque anni dalla definizione del processo- , procedere alla revoca dell’ammissione, anche quando risulti “provata la mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di reddito”, con successivo richiamo degli artt. 76 e 92.[2]

A distanza di tre anni e, dunque, nel 2008, il Legislatore è nuovamente intervenuto con l’emanazione del D.L. n. 92, successivamente convertito nella Legge n. 125 (nota ai più come “Pacchetto sicurezza”), il cui obiettivo primario è stato quello di contrastare i fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione illegale e alla criminalità organizzata.

Molteplici sono gli aspetti toccati dalla suddetta Legge.

In primo luogo, vi è da considerare l’aggiunta del comma 4-bis all’art. 76 del D.P.R. n. 115/2002, il quale sancisce un innalzamento dei limiti reddituali richiesti ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio. Ipotesi, quest’ultima, che la norma in oggetto circoscrive, in termini di applicabilità, a talune categorie di fattispecie penalmente rilevanti . Nello specifico, a coloro che siano stati già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt. 416-bis c.p., 291-quater del T.U. di cui al DPR 23 gennaio n. 43/1973 e per le ipotesi di cui agli artt. 73 (limitatamente alle ipotesi aggravate prescritte dall’art. 80) e 74, comma 1, del T.U. di cui al DPR 9 ottobre 1990, n. 309; nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal medesimo articolo.

In seconda battuta, poi, vi è da aggiungere che il D.L. n. 92 del 2008 è intervenuto con riguardo ad ulteriori previsioni positivizzate in materia di patrocinio gratuito.

Il riferimento è alle disposizioni di cui agli artt. 93 e 96 del DPR n. 115/2002, rispettivamente disciplinanti la presentazione dell’istanza al magistrato competente e la decisione sull’istanza di ammissione al patrocinio.

In ordine all’art. 93, in conseguenza dell’abrogazione del secondo comma, allo stato attuale non è più previsto che l’istanza di ammissione al patrocinio possa essere presentata dal difensore direttamente in udienza, restando in piedi, invece, la sola ipotesi contemplata dal primo comma. Ovvero, che deve essere presentata esclusivamente dall’interessato o dal difensore all’ufficio del magistrato innanzi al quale è in corso il giudizio. Invio, tra l’altro, che può avvenire anche a mezzo raccomandata.

L’art. 96, invece, ha subito una duplice modifica, laddove si è assistito ad una abrogazione nonché ad una aggiunta. In particolare, al primo comma è stato eliminato l’inciso secondo cui la decisione del magistrato – circa l’ammissione dell’istanza – potesse intervenire immediatamente qualora la stessa fosse stata presentata in udienza. Eliminazione che ben si pone in linea con quanto precedentemente sottolineato in rapporto all’art. 93, venendosi a creare in tal modo una omogeneità in termini normativi.

Ancora, al secondo comma dell’art. 96 sono state aggiunte le parole: “delle risultanze del casellario giudiziale”; introduzione per cui la odierna normativa prevede che il magistrato è tenuto a respingere l’istanza se ritiene che ricorrano fondati motivi per sostenere che l’interessato non versi nelle condizioni  reddituali richieste dagli artt. 76 e 92. E ciò in considerazione anche di taluni parametri, quali: il tenore di vita, le situazioni personali e familiari, le attività economiche eventualmente svolte e, in conseguenza proprio dell’aggiunta apportata dal Decreto 92/2008, le risultanze del casellario giudiziale.

Continuando nella disamina dell’excursus normativo, merita di essere menzionato il D.L. n. 11/2009, convertito poi nella Legge n. 38/2009, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori

Anch’esso ha sancito una vera e propria deroga in rapporto alle limitazioni di natura reddituale prescritte dal T.U. in materia di spese di giustizia, provvedendo all’aggiunta del comma 4-ter all’art. 76. Dunque, si è assistito ad una vera e propria opera di revirement in tema di requisiti di ammissione al patrocinio, similarmente a quanto si è detto prima in riferimento al D.L. n. 92/2008. Ma con un differenza peculiare. Che il comma 4-ter non discorre di soggetti condannati bensì di persone offese e, nello specifico, vittime di violenza sessuale.

Non dimenticando, tra l’altro, che il comma 4-ter dell’art. 76 T.U. in tema di gratuito patrocinio è stato oggetto di successive revisioni[3], tutte intervenute ad integrazione di quanto già esposto dal Decreto Legge 23 febbraio 2009, n. 11.

In particolare, a rilevare sul punto sono la Legge n. 172 del 2012 nonché il D.L. n. 93/2013, successivamente convertito nella Legge 119/2013[4].

La prima conosciuta sotto il dictum di Legge sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote); la seconda, invece, recante norme volte al contrasto della violenza di genere.

E, alla luce del suesposto quadro normativo,  l’attuale comma 4-ter, art. 76, estende il gratuito patrocinio non solo a persone offese dai reati di cui agli artt. 572, 583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis bensì, ove commessi in danno di minori, anche a persona offesa dai reati di cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies e 609-undecies c.p..

Negli anni a seguire e, precisamente, dal 2013 fino ad arrivare ai giorni nostri, non si sono fatti attendere ulteriori interventi con una forte impronta riformatrice che hanno interessato la fonte normativa in esame.

Si pensi, a tal proposito, al 2015, periodo storico in cui non una ma ben due leggi si sono succedute. Trattasi, rispettivamente, della Legge n. 208/2015, grazie alla quale è stato aggiunto il comma 3-bis all’art. 83 DPR 115/2002, ovvero del D.L. n. 7/2015, poi convertito nella Legge n. 43/2015[5], recante disposizioni normative finalizzate a contrastare il terrorismo, anche di matrice internazionale.

In conclusione, vi è da analizzare la Legge n. 47/2017, importantissima in quanto raccoglie tutta una serie di norme tese a garantire maggiori misure di protezione ai minori stranieri non accompagnati. Ad assumere un ruolo centrale è ancora una volta l’art. 76 del T.U. spese di giustizia, laddove in conseguenza del suindicato e recentissimo intervento, il Legislatore ha ampliato la struttura di tale disposizione, procedendo all’aggiunta del comma 4-quater. Quest’ultimo recita testualmente quanto segue: “Il minore straniero non accompagnato coinvolto a qualsiasi titolo in un procedimento giurisdizionale ha diritto di essere informato dell’ opportunità di nominare un legale di fiducia, anche attraverso il tutore nominato o l’esercente la responsabilità genitoriale ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, e di avvalersi, in base alla normativa vigente, del gratuito patrocinio a spese dello Stato in ogni stato e grado del procedimento. Per l’attuazione delle disposizioni contenute nel presente comma e’ autorizzata la spesa di 771.470 euro annui a decorrere dall’anno 2017”.

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 Le condizioni per l’ammissione al patrocinio.

Al riguardo, un ruolo sicuramente centrale riveste la norma di cui all’art. 76 DPR 115/2002, propriamente rubricata “Condizioni per l’ammissione”.

Come si è avuto già modo di sottolineare precedentemente, molteplici sono state le modifiche che hanno determinato, nel tempo, una revisione della disposizione in esame; dal D.L. n. 92/2008 fino ad arrivare alla recentissima Legge n. 47/2017.

In particolare, il primo comma fissa un limite di natura reddituale; difatti, stabilisce che solo coloro che risultano titolari di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito non superiore ad euro 11.528,41 possono ammettersi al patrocinio. Con ulteriori precisazioni, che trovano cristallizzazione, rispettivamente, nel secondo, terzo e quarto comma.

Il secondo comma prevede una ipotesi di natura estensiva, laddove statuisce espressamente che “se l’interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso l’istante”. Rinviando, a sua volta, al disposto normativo di cui all’art. 92 del T.U., disciplinante i casi in cui opera l’elevazione del reddito per l’ammissione al gratuito patrocinio[6].

Il comma successivo, invece, si sofferma sui criteri di determinazione dei limiti di reddito, stabilendo che, a tal fine, si debba tener conto anche “dei redditi esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, ovvero ad imposta sostitutiva”.

Al quarto comma, poi, la norma fa riferimento a due specifici casi: per un verso, l’ipotesi in cui oggetto della controversia sono i diritti della personalità; per altro, quella in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi. Situazioni che vengono ad essere accomunate, atteso che, ai fini della determinazione del reddito, la norma de qua stabilisce per entrambe che si tenga conto del solo reddito personale.

Infine, continuando nella disamina strutturale dell’art. 76, vi è da notare che rivestono un ruolo sicuramente di primo ordine il comma 4-bis, 4-ter e 4-quater, essendo stati tutti inseriti in un momento successivo rispetto all’entrata in vigore del Testo Unico.

Il comma 4-bis, come già visto nel precedente paragrafo, sancisce un innalzamento del limite reddituale ordinariamente prescritto ai fini dell’ammissione al beneficio del gratuito patrocinio.

Una elevazione che opera quando l’istanza provenga da soggetti già condannati con sentenza definitiva per una delle fattispecie incriminatrici elencate dalla stessa norma. Ovvero, per i reati di cui agli articoli: 416-bis c.p., 291-quater DPR n. 43/1973, 73 e 74 DPR n. 309/1990; nonché per i reati posti in essere avvalendosi delle condizioni prescritte dall’art. 416-bis c.p. o con il fine di determinare una agevolazione all’esercizio delle attività facenti capo alle associazioni a delinquere di stampo mafioso.

Il comma 4-ter, invece, si pone dal lato del danneggiato, prevedendo in suo favore una deroga agli ordinari limiti di natura reddituale prescritti dal primo comma dell’art. 76. Danneggiato da intendersi non in senso generico bensì in termini di persona offesa in conseguenza di talune ipotesi delittuose, tassativamente elencate nella medesima previsione normativa. Si tratta degli articoli 572, 583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis nonché degli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies e 609-undecies, tutti sistematicamente inseriti nello stesso libro del codice penale.

Non a caso, le suesposte disposizioni rispondono alla medesima finalità: salvaguardare l’integrità fisica e morale della vittima che versi, in conseguenza di condotte violente, abusive, persecutorie e/o prevaricatrici, in una situazione di estrema sofferenza. Dovendosi, tale discorso, estendere ai soggetti minorenni, in virtù della modifica apportata dal D.L. 93/2013, che detta disposizioni volte a tutelare i minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale.

Orbene, la giurisprudenza non ha tardato a fare il suo ingresso, atteso che proprio recentemente la Cassazione Penale è intervenuta in tema di patrocinio a spese dello Stato, in rapporto ad un caso di stalking, ex art. 612-bis c.p..

Se per un verso, il S.C. conferma il principio consacrato dall’art. 76 DPR n. 115/2002, per cui la vittima del delitto previsto dall’art. 612-bis c.p. può essere ammessa liberamente al gratuito patrocinio, in deroga alle limitazioni sanzionate dallo stesso decreto, per altro, invece, si è interrogato su quelli che sono i confini oltre i quali il giudice può andare nell’accoglimento della domanda di accesso al patrocinio. Detto altrimenti, gli Ermellini si sono chiesti se, alle condizioni suesposte, l’organo giudicante ha il dovere di accogliere l’istanza di ammissione ovvero gode di una semplice facoltà nel decidere.

La risposta fornita dalla Cassazione è la seguente: il giudice ha il dovere di accogliere l’istanza quando presentata direttamente dalla persona offesa[7] di uno dei reati elencati dalla norma di cui all’art. 76 T.U. spese di giustizia. Ciò in ragione del fatto che il legislatore ha volutamente utilizzato il termine “può” e non il termine  “deve”. Dovendosi escludere, in tal modo, un obbligo in capo al giudice di ammettere la vittima al beneficio, anche in assenza di specifica istanza.

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La distinzione tra onorario e compensi del difensore alla luce degli artt. 83 e 85 DPR n. 115/2002

Il Testo Unico distingue apertamente tra le due accezioni, come risulta dalle disposizioni uti sopra indicate. Si tratta di una differenza che assume valenza significativa soprattutto sotto il versante sostanziale. Difatti, per un verso, la normativa riconosce l’onorario e le spese in capo al difensore, sancendo espressamente che debbano essere liquidate dal giudice “con decreto di pagamento” in osservanza “alla tariffa professionale in modo che, in ogni caso, non risultino superiori ai valori medi delle tariffe professionali vigenti relative ad onorari, diritti ed indennità” ed altresì  in considerazione “della natura dell’impegno professionale, in relazione all’incidenza degli atti assunti rispetto alla posizione processuale della persona difesa” (v. art. 83. I comma, T.U. 115/2002)[8].

Per altro, invece, il Testo unico prevede il divieto per il difensore di chiedere e percepire dal proprio assistito compensi o rimborsi a qualunque titolo, se diversi da quelli propriamente previsti ed ammessi dalla Legge. Con la conseguenza che la violazione del suddetto divieto rappresenti un grave illecito disciplinare professionale (Cfr. art. 85, I e III comma, DPR 115/2002).

E proprio con riferimento a quest’ultimo profilo è intervenuta la giurisprudenza di legittimità, che ha finito con l’adottare soluzioni assolutamente in linea con quanto prescritto dal Decreto in esame.

In particolare, la Cassazione in più occasioni ha ritenuto legittima la sanzione disciplinare applicata nei confronti di professionisti che avessero chiesto compensi a clienti ammessi al gratuito patrocinio. Soluzione, quest’ultima, che risponde ad una precisa logica: l’attività professionale esercitata in vista di una azione giudiziaria va posta a carico dello Stato allorquando la parte si sia avvalsa del beneficio del patrocinio gratuito. Dovendosi, pertanto, ritenere passibile di sanzione disciplinare la condotta del legale che abbia chiesto ad un cliente, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, un compenso[9].

Precisandosi, altresì, che il potere di applicare la sanzione nei confronti dei professionisti, in rapporto alla gravità ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine professionale, rientra nella competenza degli organi disciplinari. Di qui, la conclusione per cui “la determinazione della sanzione inflitta al professionista dal Consiglio nazionale forense, per violazione del dettato normativo di cui all’art. 85 T.U. in materia di Spese di giustizia, , non è censurabile in sede di giudizio di legittimità[10]”.

 Decisione sull’istanza di ammissione al patrocinio: i casi di rigetto

Al riguardo, le disposizioni che interessano sono tutte inserite nel Capo IV, Parte III, Titolo I del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

L’articolo 96, al primo comma, definisce modalità e termini entro i quali il magistrato è tenuto ad intervenire al fine di ammettere una istanza di ammissione al patrocinio. Nello specifico, prevede che “nei dieci giorni successivi a quello in cui è stata presentata o è pervenuta l’istanza di ammissione, il magistrato davanti al quale pende il processo o il magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato, se procede la Corte di cassazione, verificata l’ammissibilità dell’istanza” accoglie l’istanza. Fermo restando che ricorrano anche le condizioni di reddito cui l’ammissione stessa è soggetta, ai sensi dell’art. 79.

Il successivo comma, poi, analizza i casi di rigetto della richiesta. Casi che trovano applicazione allorquando ricorrano fondati motivi per sostenere che il soggetto richiedente non versi nelle condizioni tassativamente prescritte dagli artt. 76 e 92. Valutazione, quest’ultima, che deve essere svolta dal giudice in considerazione di una serie di circostanze, dettagliatamente elencate dalla norma medesima, quali: risultanze del casellario giudiziale, tenore di vita, condizioni personali e familiari, attività economiche eventualmente svolte.

E di qui sorge spontaneo chiedersi se sussistano dei rimedi tesi a contestare i provvedimenti di rigetto dell’istanza di ammissione. La risposta si rinviene nell’art. 99 del Decreto n. 115/2002, laddove stabilisce chiaramente che avverso il provvedimento con cui il magistrato competente rigetta l’istanza di ammissione, la parte interessata può proporre ricorso innanzi al presidente del tribunale o al presidente della corte d’appello ai quali appartiene il giudice che ha provveduto ad emettere il decreto di rigetto. Ricorso che, a detta della norma in commento, deve essere presentato dal soggetto entro tempi precisi, ovvero “entro venti giorni dalla notizia avutane ai sensi dell’articolo  97[11]”.

Anche in merito a tale ultima questione va rivolto uno sguardo agli orientamenti di matrice giurisprudenziale. Ciò in ragione del fatto che in più occasioni si è posto il problema di comprendere in che misura andasse letta ed interpretata la previsione di cui all’articolo 99 in rapporto agli artt. 112 e  113 del DPR 115/2002. Più precisamente, se i rimedi processuali sanciti da tali norme potessero intendersi in chiave alternativa oppure no. E, dunque, capire se il soggetto interessato è tenuto, in caso di revoca dell’ammissione al patrocinio, ad avvalersi direttamente dello strumento processuale consacrato dall’art. 113, qual è il ricorso per Cassazione, oppure può procedere con l’ opposizione ex art. 99.

A detta della giurisprudenza, al fine di dare una risposta al suddetto interrogativo, bisogna partire da lontano, ovvero guardare agli anni novanta ed, in particolare, alla Legge n. 217/1990. Questa prevedeva la possibilità per il soggetto di presentare ricorso, innanzi all’autorità giurisdizionale di appartenenza del magistrato decidente, oppure il ricorso per Cassazione per violazione di legge, tanto nelle ipotesi di rigetto originario della richiesta quanto nei casi di revoca successiva al beneficio già attribuito.

Sistema che è rimasto in piedi con l’entrata in vigore del DPR n. 115/2002, seppur con qualche  differenza. Difatti, mentre l’attuale art. 99 discorre di proposizione del ricorso all’organo giudiziario al quale appartiene il giudice emittente per i soli casi di rigetto originario dell’istanza di ammissione al patrocinio, l’art. 113, al contrario, fa riferimento alla sola possibilità di ricorrere per Cassazione nei casi di violazione di legge.

Una distinzione, quest’ultima, che ha richiesto spesso l’intervento risolutivo della giurisprudenza, al fine soprattutto di scongiurare qualsiasi ricostruzione e/o interpretazione che si ponesse in aperto contrasto con le disposizioni costituzionali. E proprio in tale prospettiva ben si colloca la recentissima sentenza n. 11771 del 2017, avendo quest’ultima optato per una scelta di apertura.

Difatti, i giudici del Supremo Consesso giungono alla conclusione per cui la norma di cui all’art. 99 è da qualificarsi in termini di norma generale, con la diretta conseguenza che il rimedio impugnatorio da essa previsto potrà dirsi applicabile sia in caso di originario rigetto dell’istanza di ammissione al gratuito patrocinio sia in caso di revoca del beneficio su richiesta dell’ufficio finanziario (ex art. 113).

Ancor più, sottolinea la Cassazione, l’art. 113 T.U. in materia di Spese di giustizia, statuisce che avverso il provvedimento di revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio, l’interessato gode della possibilità di proporre ricorso per Cassazione. Non a caso, la norma utilizza il termine” può” proprio con un fine preciso: suggerire che il rimedio del ricorso per Cassazione rappresenti una facoltà per il soggetto. Una sorta di opzione, con la conseguenza che l’interessato ben potrebbe scegliere di avvalersi, nell’ipotesi della revoca ex artt. 112-113, del rimedio cristallizzato dalla previsione di cui all’art. 99[12].

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[1] Cfr. sul punto art. 81, comma 2, lett. c), secondo cui: “L’inserimento nell’elenco è deliberato dal consiglio dell’ordine, il quale valuta la sussistenza dei seguenti requisiti e condizioni:

a)attitudini tra processi civili, penali, amministrativi, contabili, tributari ed affari di volontaria giurisdizione; b) assenza di sanzioni disciplinari superiori all’avvertimento irrogate nei cinque anni precedenti la domanda; c)iscrizione all’Albo degli avvocati da almeno due anni.

[2] L’art. 76, nel disciplinare le condizioni per l’ammissione, al primo comma prevede espressamente che possa essere ammesso al patrocinio chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore ad euro 11.528,41. Altresì, la norma di cui all’art. 92 regolamenta i casi in cui è ritenuta ammissibile una elevazione dei redditi per l’ammissione al patrocinio. In proposito, statuisce che de l’interessato all’ammissione convive con il coniuge o altri familiari, si applicano le disposizioni di cui all’art. 76, 2 comma, ma i limiti di reddito vengono elevati ad euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi.

[3] È da rammentare, altresì, il D.L. n. 98/2011, recante “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”. Quest’ultimo ha introdotto modifiche importanti in relazione all’art. 131 DPR 115/2002 ed, in particolar modo, in relazione alle lettere a) e b) presenti al secondo comma di tale norma. Al primo punto (lettera a) è stata apportata una modifica per cui la normativa attualmente vigente prevede che tra le spese prenotate a debito debba farsi rientrare il contributo unificato nel processo civile, amministrativo e tributario; il punto successivo e, dunque, la lettera b), invece, è stata soppressa, con la conseguenza che l’imposta di bollo nel processo contabile non può più essere intesa in termini di spesa prenotata a debito.

[4] Nel 2013, inoltre, il D.L. n. 147/2013, meglio conosciuto come Legge di stabilità del 2014, ha proceduto all’aggiunta dell’art. 106-bis all’interno del DPR 112/2005. Norma di non poco rilievo dal momento che con essa è stata introdotta una riduzione di un terzo circa gli importi spettanti al difensore, all’ausiliario del magistrato, al consulente tecnico di parte e all’investigatore privato autorizzato.

[5] In particolare, con l’intervento legislativo di cui alla Legge n. 43/2015 è stato sottoposto ad una revisione l’art. 96 DPR 115/2002, norma, quest’ultima, propriamente rubricata “Decisione sull’istanza di ammissione al patrocinio”. Nello specifico, sono state inserite le parole: “Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo”.

[6] ART. 92 Elevazione dei limiti di reddito per l’ammissione: “Se l’interessato all’ammissione al patrocinio convive con il coniuge o con altri familiari, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 76, comma 2, ma i limiti di reddito indicati dall’articolo 76, comma 1, sono elevati di euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi”.

 

[7] Persona offesa che, sempre a detta della Cassazione Penale, non va assolutamente confusa con l’eventuale danneggiato, dovendosi così escludere ogni ipotetica coincidenza. Con la conseguenza che nell’ipotesi di istanza presentata da una eventuale persona danneggiata non varrebbero i medesimi presupposti analizzati in rapporto alla vittima e/o parte lesa, circa l’ammissione dell’istanza di ammissione al gratuito patrocinio. Rilevando, pertanto, una interpretazioni di carattere restrittivo.

[8] Discorso da doversi estendere anche all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte, come si evince dall’art. 82 DPR 115/2002.

[9] Cfr. Cassazione Civile, SS.UU. N. 9529/2013.

[10] Cfr. Cass., SS U.U., sent. n. 11564 del 2011.

[11] ART. 97 Provvedimenti adottabili dal magistrato 1. Il magistrato dichiara inammissibile l’istanza ovvero concede o nega l’ammissione al patrocinio con decreto motivato che viene depositato, con facoltà per l’interessato o per il suo difensore di estrarne copia; del deposito è comunicato avviso all’interessato. 2. Il decreto pronunciato in udienza è letto e inserito nel processo verbale. La lettura sostituisce l’avviso di deposito se l’interessato è presente all’udienza. 3. Fuori dei casi previsti dal comma 2, se l’interessato è detenuto, internato, in stato di arresto o di detenzione domiciliare ovvero è custodito in un luogo di cura, la notificazione di copia del decreto è eseguita a norma dell’articolo 156 del codice di procedura penale.

 

[12] La ratio giustificatrice di tale argomentazione va ricercata essenzialmente nel garantire una più vasta tutela ai soggetti interessati, ampliando la portata applicativa della disposizione normativa. Di modo che questi possano avvalersi del rimedio sancito dall’art. 99, qual è il ricorso in opposizione, non solo per agire avverso un rigetto dell’istanza ma anche nelle ipotesi di revoca del decreto di ammissione al gratuito patrocinio per carenza dei requisiti.

 

Dott.ssa Stefanelli Eleonora

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