Con la sentenza n. 46797 del 6 ottobre 2015, depositata il 25 novembre 2015, la VI sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio il decreto con cui il G.I.P. presso il Tribunale di Asti disponeva l’archiviazione di un procedimento penale per il reato di cui all’art. 314 c.p. senza il previo avviso – a cura del Pubblico Ministero – della richiesta di archiviazione ex art. 408 c.p.p., pur avendone il denunciante/querelante fatto espressa richiesta.
La questione si incentra sulla configurabilità, in capo al soggetto privato, della posizione giuridica di persona offesa del reato di peculato; se cioè il reato di cui all’art. 314 c.p., come novellato dall’art. 1, legge 26 aprile 1990, n. 86, sia o meno plurioffensivo; ossia, arrechi danno solo alla P.A. (come si potrebbe dedurre dalla rubrica del Capo I, Titolo II del Libro Secondo del Codice Penale “dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”), o, eventualmente, anche al soggetto privato.
Ormai, nessun dubbio può sussistere: prima della legge 86/90, gli artt. 314 c.p. (peculato) e 315 c.p. (malversazione a danno di privati), pur se di contenuto simile, tutelavano, il primo, gli interessi della Pubblica Amministrazione, il secondo, gli interessi di soggetti diversi dalla P.A.
Il legislatore del 1990 ha, da un lato, abrogato l’art. 315 c.p. e, dall’altro, ampliato lo spettro d’azione dell’art. 314 c.p., fornendo copertura penale non solo per la tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione (come già previsto ante 1990), ma anche del privato per l’eventuale appropriazione di denaro o di altra cosa mobile altrui di cui l’agente abbia il possesso per ragione del suo ufficio o servizio.
L’art. 20 legge 86/90 ha soppresso il delitto di malversazione di cui all’art. 315 c.p., quale figura autonoma di reato, sul presupposto che la diversa appartenenza del bene (al privato o alla P.A.) non determina un diverso disvalore penale del fatto illecito commesso dal P.U. (o dell’incaricato di pubblico servizio), tanto da ritenere opportuno di uniformare il regime sanzionatorio.
Dunque, l’atto appropriativo può colpire, senza distinzione, sia la P.A. che il soggetto privato; ciò conferma la plurioffensività del comportamento delittuoso del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.
Secondo la giurisprudenza e la dottrina prevalente, la patrimonialità – pur costituendo caratteristica rilevante per la configurazione del reato di peculato – non è elemento indispensabile. Certamente l’entità economica del danno consente l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 7, c.p. e dell’attenuante specifica di cui all’art. 323 bis c.p.
La Suprema Corte, nella parte motiva, evidenzia che nel codice penale sono presenti anche altre ipotesi di delitti del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione che possono danneggiare il soggetto privato. Tali sono ad esempio: a) l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p., che ha assorbito, con la novella del 1990, l’ipotesi di malversazione per distrazione in danno di privati, prima rientranti nella fattispecie di cui all’art. 315 c.p.), con cui il P.U. arreca ad altri un danno ingiusto, ledendo sia l’interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza dell’azione della Pubblica Amministrazione che il concorrente interesse del privato a non essere turbato, nei propri diritti costituzionalmente garantiti, dal comportamento del P.U.; b) l’omissione o il rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 c.p.) che lede il principio di buon andamento della P.A. nella realizzazione dei suoi fini istituzionali ed anche il concorrente interesse del privato eventualmente danneggiato dall’omissione o dal ritardo dell’atto amministrativo dovuto.
Questo breve excursus di diritto sostanziale permette di meglio inquadrare la posizione del soggetto, diverso dalla P.A., che venga danneggiato dalla commissione del delitto di peculato (o, di abuso d’ufficio oppure di omissione o rifiuto di atti d’ufficio) assumendo la qualifica di persona offesa dal reato, con conseguente titolarità di tutte le garanzie che il codice di rito attribuisce a tale soggetto. Tra queste rientra anche il diritto di essere avvisato, qualora ne abbia fatto richiesta al momento della querela o in un momento successivo, da parte del pubblico ministero, della richiesta di archiviazione avanzata al G.I.P.
Il mancato avviso viola il principio del contraddittorio, cardine del sistema accusatorio adottato dall’attuale codice di procedura penale che, in ultima analisi, impedisce il diritto di difesa, costituzionalmente garantito.
Dall’avviso derivano due conseguenze: a) ostensibilità degli atti contenuti nel fascicolo per le indagini preliminari (notizia di reato, documentazione relativa alle indagini espletate ed eventuali verbali degli atti compiuti davanti al giudice per le indagini preliminari); b) possibilità di presentare, nel termine di dieci giorni dalla notifica, richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari, rilevando possibili carenze investigative ed indicando, se del caso, fonti di prova per la tutela del proprio interesse.
Nella ipotesi di opposizione alla richiesta di archiviazione, al vaglio del G.I.P. giungeranno il fascicolo del pubblico ministero e, contestualmente, la opposizione motivata della p.o. ex art. 126 disp. att. c.p.p.
Nel caso in esame, la Corte Suprema di Cassazione ha annullato, senza rinvio, il decreto di archiviazione emesso dal G.I.P. con restituzione degli atti al Tribunale per l’ulteriore corso, essendo il provvedimento definitorio colpito da nullità di ordine generale ai sensi dell’art. 178 c.p.p.
A sua volta, il Tribunale dovrà restituire gli atti alla locale Procura della Repubblica affinché proceda alla notifica dell’avviso della richiesta di archiviazione, ai sensi dell’art. 408 c.p.p., alla p.o., che è atto prodromico alla cognizione di merito della richiesta di archiviazione.
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